Con Dave Cobb Si Va Sul Sicuro! Dillon Carmichael – Hell On An Angel

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Dillon Carmichael – Hell On An Angel – Riser House CD

Dave Cobb è ormai diventato un produttore richiestissimo per quanto riguarda un certo tipo di musica di qualità, ed ormai il suo nome si trova su una lunga serie di album di diversi generi, dal cantautorato puro, al rock, passando per il blue-eyed soul (Anderson East, per fare un esempio). Ma il genere in cui Cobb eccelle è il country, sia quando strettamente imparentato con il rock, come con Chris Stapleton, sia in album formati da cowboy songs dal sapore antico, come nel caso di Colter Wall. Quello che però è certo è che se troviamo il nome di Dave su un disco, possiamo stare tranquilli circa la validità della proposta: è questo il caso anche di Hell Of An Angel, album d’esordio di Dillon Carmichael, un ragazzone proveniente dal Kentucky che si rifà apertamente a certa country music degli anni d’oro, quando Waylon & Willie erano cool e Merle Haggard non sbagliava un colpo.

Carmichael ha una buona capacità di scrittura ed un bel vocione che ricorda un po’ quello di Jamey Johnson, e le dieci canzoni di questo lavoro d’esordio ci mostrano di che pasta è fatto: Dillon predilige le ballate, canzoni lente, meditate ed intense, ma suonate con piglio da rocker e senza alcun tentennamento, dimostrando però di avere anche il senso del ritmo e la capacità di trascinare a dovere quando serve. La solita produzione asciutta e pulita di Cobb fa il resto, con il consueto manipolo di fedelissimi: Leroy Powell alla chitarra elettrica, Brian Allen al basso, Chris Powell alla batteria, Robby Turner alla steel e Mike Webb alle tastiere. L’iniziale Natural Disaster è subito la più lunga del disco (oltre sei minuti), ed è una ballata lenta ma potente allo stesso tempo, cantata con voce piena e dalla strumentazione molto misurata ma impeccabile (il marchio di fabbrica di Cobb), uno slow elettrico con chitarre ed organo ben presenti. Anche It’s Simple è lenta, ma il suono dietro la voce è decisamente vigoroso e chiaramente ispirato dalle classiche sonorità degli anni settanta, quando la nuova frontiera del country era rappresentata dal movimento Outlaw.

Country Women è ritmata, elettrica e gradevolissima, con una guizzante steel ed un suono texano al 100%, mentre Hell On An Angel ha un approccio decisamente rock e chitarre che sventagliano che è un piacere (ottima la slide), per un brano che è quasi più southern che country. Dancing Away With My Heart è una ballata toccante, di quelle che emotivamente parlando lasciano il segno, ancora con apprezzabile lavoro di steel ed un assolo chitarristico degno di nota, Hard On A Hangover è un gustosissimo honky-tonk elettrico, dalla melodia vincente ed il solito accompagnamento perfetto: George Jones ne sarebbe andato fiero. La cupa What Would Hank Do è piuttosto attendista, Might Be A Cowboy, pur rimanendo nell’ambito dei brani lenti, è una country ballad lucida e di nuovo con gli strumenti dosati con maestria (specie chitarra ed organo). Il CD si chiude con Old Flame, altro country tune dal sound maschio e vigoroso, e con la pianistica Dixie Again, ennesimo vibrante pezzo che fin dal titolo è un chiaro omaggio al Sud.

C’è un nuovo countryman in città, si chiama Dillon Carmichael: garantisce Dave Cobb.

Marco Verdi

Un Disco Di Una Bellezza Rara! Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You

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Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You – Elektra/Warner CD

Recensione tardiva di un disco uscito lo scorso mese di Febbraio (il classico caso di: lo fai tu – lo faccio io – non lo fa nessuno), ma talmente bello da meritarsi l’inclusione nella mia Top Ten di fine 2018. Brandi Carlile da quando ha iniziato a pubblicare dischi nel 2005 non ha mai sbagliato un appuntamento, ma fino ad oggi non aveva mai pareggiato la bellezza del suo secondo lavoro, The Story (2007), un album eccellente che contava su una serie di canzoni bellissime, a partire dalla magnifica title track, uno dei brani migliori in assoluto del nuovo millennio a mio parere. Give Up The Ghost (2009) era ottimo, ma non al livello di The Story, ed i seguenti Bear Creek (2012) e The Firewatcher’s Daughter (2015), pur validi, erano un gradino sotto (mentre l’unico disco dal vivo di Brandi, Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony, pur avendo ottenuto critiche contrastanti a me era piaciuto tantissimo). Lo scorso anno la songwriter originaria di Ravensdale (un sobborgo di Seattle) ci aveva regalato lo splendido Cover Stories, una sorta di auto-tributo per il decennale di The Story, in cui le canzoni del suo secondo album venivano rivisitate da una serie di artisti famosi, il tutto a scopo benefico. Quella esperienza deve aver fatto bene a Brandi, in quanto il suo nuovo album, By The Way, I Forgive You, è un disco davvero splendido, con dieci canzoni una più bella dell’altra, un lavoro ispiratissimo che personalmente colloco sullo stesso piano di The Story. L’album, che vede la nostra affrontare i brani con il consueto approccio folk-rock, vede alla produzione una “strana coppia” formata dall’onnipresente Dave Cobb e da Shooter Jennings, e proprio il suono è uno dei punti di forza del CD.

Infatti alcuni brani si differenziano dal classico stile di Cobb, fatto di suoni scarni e dosati al millimetro, quasi per sottrazione, in quanto ci troviamo spesso immersi in sonorità decisamente più ariose, anzi direi quasi grandiose, ma senza essere affatto ridondanti: un termine di paragone potrebbe essere il suono dei Fleet Foxes, folk elettrificato e potente dal forte sapore emozionale. E Brandi, forse spronata da questo tipo di sonorità, tira fuori alcune tra le sue performance vocali migliori di sempre, con un’estensione da paura; tra i musicisti, oltre ai due produttori (Cobb alla chitarra e Jennings curiosamente al piano ed organo, evidentemente deve aver imparato qualcosa anche da mamma Jessi Colter), troviamo i soliti collaboratori sia della Carlile (i gemelli Phil e Tim Hanseroth, co-autori anche di tutte le canzoni) che di Dave (il batterista Chris Powell), mentre ai cori partecipano Anderson East in un brano e le Secret Sisters in un altro, e due pezzi hanno un arrangiamento orchestrale ad opera del grande Paul Buckmaster (noto per le sue collaborazioni, tra gli altri, con Elton John, del quale Brandi è una nota fan), qui alla sua ultima collaborazione essendo scomparso nel Novembre del 2017. Il disco (a proposito, il bel ritratto di Brandi in copertina è stato eseguito da Scott Avett, proprio il leader degli Avett Brothers) inizia alla grande con Every Time I Hear That Song, una splendida ballata di ampio respiro, dall’incedere maestoso ed una melodia da pelle d’oca, con un arrangiamento semi-acustico e corale di sicuro impatto (il testo tra l’altro contiene la frase che intitola l’album).

The Joke è il primo singolo, ed è una scelta per nulla commerciale: si tratta infatti di un’intensa ballata pianistica, cantata dalla Carlile in maniera straordinaria, con un toccante motivo di pura bellezza, impreziosita da una leggera orchestrazione e da un crescendo strumentale emozionante. Hold On Your Hand è una folk song che inizia in modo quasi frenetico, con Brandi solo voce e chitarra, poi nel refrain entrano gli altri strumenti ed i cori, e ci ritroviamo di nuovo in mezzo a sonorità grandiose, atipiche per Brandi (e qui vedo parecchie somiglianze con i già citati Fleet Foxes), ma il ritornello è di quelli che colpiscono da subito, grazie anche al contributo essenziale dato da un coro di sette elementi (tra cui Brandi stessa, i due Hanseroth ed Anderson East). The Mother è dedicata dalla Carlile alla figlia Evangeline, avuta tramite inseminazione artificiale dalla sua compagna, e vede una strumentazione più raccolta, un folk cantautorale puro e cristallino, tutto giocato sulla voce, un accompagnamento molto classico ed un motivo anche stavolta splendido; la lenta Whatever You Do è dominata dalla voce e dalla chitarra di Brandi, poi a poco a poco entra il piano (Shooter si rivela un ottimo pianista), altre due chitarre e la sezione ritmica, ma il tutto assolutamente in punta di piedi, ed anche gli archi di Buckmaster accarezzano la canzone con estrema finezza.

Fulron County Jane Doe è più diretta e solare, ha perfino un feeling country (un genere poco esplorato da Brandi negli anni), e degli accordi di chitarra elettrica che curiosamente rimandano alla mitica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield: la Carlile canta al solito in maniera impeccabile ed il brano risulta tra i più godibili. Sugartooth è l’ennesima fulgida ballata di un disco quasi perfetto, un lento dall’approccio rock, con uno scintillante arrangiamento basato su piano e chitarre ed il consueto refrain dal pathos incredibile; stupenda anche Most Of All, un altro pezzo dalla struttura folk e con una linea melodica fantastica, il tutto eseguito con un’intensità da brividi: anche questa la metto tra le mie preferite. Il CD, una vera meraviglia, si chiude con la spedita Harder To Forgive, altro pezzo folkeggiante, cantato alla grande ed arrangiato ancora in maniera corale ed ariosa (ancora similitudini con lo stile del gruppo di Robin Pecknold), e con Party Of One, un finale pianistico ed intenso, che ha dei punti di contatto con le ballate analoghe di Neil Young.

A quasi un anno di distanza dalla sua uscita By The Way, I Forgive You rimane un disco splendido, e fa parte di quei lavori che continuano a crescere ascolto dopo ascolto.

Marco Verdi

pegi young

P.S: a proposito di voci femminili (e di Neil Young), vorrei ricordare brevemente Pegi Young, scomparsa il primo Gennaio all’età di 66 anni dopo una battaglia di un anno contro il cancro. Nata Margaret Morton, la figura di Pegi è sempre stata legata a doppio filo a quella del grande musicista canadese, al quale è stata sposata per quasi quaranta anni prima che il Bisonte prendesse la classica sbandata della terza età per l’attrice Daryl Hannah.

Dal punto di vista musicale Pegi, che è stata in diverse occasioni in tour con il marito come corista, non ci lascia certo delle pietre miliari, ma una serie di onesti lavori di soft rock californiano https://discoclub.myblog.it/2014/12/08/laltra-meta-della-famiglia-o-piu-pegi-young-the-survivors-lonely-crowded-room/ : l’ultimo, il discreto Raw, è del 2017. Nel 1986 Pegi è stata anche la fondatrice con il famoso consorte della Bridge School, un istituto per la cura dei bambini con gravi tare fisiche e mentali (la coppia ha avuto due figli, entrambi con seri problemi: Ben è affetto da paralisi cerebrale, Amber da epilessia) https://discoclub.myblog.it/2011/10/04/25-anni-di-buone-azioni-e-di-belle-canzoni-the-bridge-school/ .

Vorrei ricordare Pegi con la bellissima Unknown Legend del marito Neil, brano che apriva l’album Harvest Moon nel 1993 e che era a lei ispirato: infatti quando i due si conobbero nel lontano 1974 lei lavorava come cameriera in un diner vicino al ranch di Young.

Il Ragazzo Sta Crescendo In Maniera Esponenziale! Colter Wall – Songs Of The Plains

colter wall songs of the plains

Colter Wall – Songs Of The Plains – Young Mary/Thirty Tigers CD

Una della più belle sorprese dello scorso anno è stato senza dubbio l’esordio omonimo di Colter Wall https://discoclub.myblog.it/2017/05/20/un-quasi-veterano-ed-un-quasi-esordiente-con-la-regia-di-dave-cobb-che-bravi-entrambi-chris-stapleton-from-a-room-vol-1colter-wall-colter-wall/  (che vero esordio non era, dato che c’era già un EP, Immaginary Appalachia, in seguito prontamente ristampato), giovanissimo songwriter canadese che aveva impressionato per la sua bravura e la sua sicurezza nello scrivere ed eseguire brani di assoluto spessore, una serie di western songs purissime come si usava fare più di cinquant’anni fa, in più cantate con una voce baritonale incredibile per uno poco più che ventenne (è del giugno del 1995), paragonata da molti a quella di Johnny Cash (io la vedo più somigliante a quella di Dave Alvin e, più alla lontana, di Peter LaFarge). Ora Colter bissa quel disco fulminante con Songs Of The Plains, un lavoro a mio parere ancora più riuscito, con una consapevolezza perfino maggiore del ragazzo nei suoi mezzi, ed una serie di canzoni splendide che, pur essendo nuove di zecca (tranne quattro), hanno il sapore di racconti western con più di mezzo secolo sulle spalle.

Già il titolo e la copertina rimandano questa volta sì a Cash, ed ai primi album dell’Uomo in Nero, veri e propri concept dedicati di volta in volta al West, ai treni, agli Indiani d’America, ecc. La produzione, così come nel disco precedente, è nelle mani del Re Mida Dave Cobb, che porta in studio con sé un numero limitato ma selezionato di musicisti: Chris Powell alla batteria, Jason Simpson al basso, Lloyd Green alla steel (bravissimo) ed il partner musicale di una vita di Willie Nelson, cioè Mickey Rapahael, ovviamente all’armonica. Ma il modo di produrre di Cobb è leggermente cambiato rispetto a Colter Wall, che era più basato sulla voce e chitarra del leader e poco altro, mentre qui c’è più spazio per gli altri strumenti (sebbene sempre dosati al millimetro), ed in un paio di casi ci sono anche delle code strumentali ed interscambi tra i vari musicisti che nel disco dell’anno scorso erano completamente assenti. Il resto lo fa Colter con la sua voce, la sua chitarra e, soprattutto, le sue canzoni: sei scritte da lui, due traditionals e due cover di brani abbastanza oscuri. L’album inizia alla grande con la splendida Plain To See Plainsman, chitarra acustica, armonica in lontananza, voce formidabile ed una melodia che profuma di tradizione al 100%: a poco a poco, quasi non ci si accorge, entrano in punta di piedi anche gli altri strumenti, una differenza sostanziale con il disco del 2017. Molto bella anche Saskatchewan In 1881, dedicata da Wall alla sua regione d’origine, una folk song pura e cristallina con voce in primo piano, chitarra, una percussione accennata e l’armonica di Raphael: sembra di tornare indietro di più di 50 anni, quando il folk revival dettava legge in America (qui però manca del tutto la componente politica).

La breve John Beyers (Camaro Song) vede una steel ricamare languida sullo sfondo, e per il resto abbiamo solo Colter e la sua chitarra, ma intensità e feeling non vengono meno; Wild Dogs è un brano semisconosciuto di Billy Don Burns, ed è una canzone straordinaria, lenta, drammatica, densa e piena di pathos, di nuovo con una splendida steel alle spalle: negli ultimi due minuti entra il resto della band, il ritmo sale ed assistiamo ad una favolosa jam elettroacustica, da brividi. Calgary Round-Up, del poco noto singing cowboy canadese Wilf Carter, è puro country, un honky-tonk (senza pianoforte) gustoso e diretto, dal solito delizioso sapore vintage, con tanto di yodel finale, Night Herding Song è un pezzo tradizionale eseguito quasi a cappella (la chitarra viene solo sfiorata un paio di volte), Wild Bill Hickok, bellissima anche questa, è un racconto tra folk e western, con appena un basso a dettare il ritmo al nostro (e devo dire che Colter non è male neanche come chitarrista), mentre la limpida The Trains Are Gone vede il ritorno di Raphael alle spalle del nostro: puro folk d’altri tempi. Thinkin’ On A Woman è un country tune asciutto e diretto, reso più morbido dall’uso della steel ed ancora dal feeling enorme, Manitoba Man è di nuovo intensa e drammatica, e vede Colter in perfetta solitudine; il CD si chiude con un altro traditional, Tying Knots In The Devil’s Tail, che è anche il pezzo più strumentato: infatti troviamo anche Cobb alla seconda chitarra e la partecipazione vocale di Corb Lund e Blake Berglund, ed il brano è quello che più di tutti ricorda Cash, essendo una scintillante e spedita country song con tanto di boom-chicka-boom.

Altro gran disco per Colter Wall, uno che se continuerà a crescere in questo modo non so dove potrà arrivare.

Marco Verdi

Questa Volta Lo Ha Fatto Bello! Shooter Jennings – Shooter

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Shooter Jennings – Shooter – Elektra/Warner CD

La carriera di Waylon Albright Jennings, detto Shooter (figlio, come certo saprete, del grande Waylon Jennings e di Jessi Colter), è sempre stata parecchio altalenante, in quanto il nostro ha alternato lavori di ottimo country-rock di stampo outlaw (fortunatamente per la maggior parte: Put The “O” Back In Country, The Wolf, Family Man e The Other Life), ad altri molto meno riusciti (il granitico Electric Rodeo, suonato con grinta ma totalmente privo di canzoni di spessore) o addirittura pasticciati (l’inqualificabile Black Ribbons). Anche le sue ultime due prove di studio, due EP, non sono certo dei capolavori: sto parlando dell’incerto Don’t Wait Up (For George), tributo non del tutto riuscito a George Jones, e soprattutto del tragico Countach (For Giorgio), incomprensibile omaggio al produttore Giorgio Moroder. Dopo essersi parzialmente riscattato l’anno scorso con il bel Live At Billy Bob’s Texas https://discoclub.myblog.it/2018/01/06/countryrock-di-classe-e-sostanza-in-una-delle-mecche-del-genere-shooter-jennings-live-at-billy-bobs-texas/ , oggi Jennings Jr. torna tra noi con un nuovo full-length (più o meno, dato che dura appena 31 minuti), intitolato semplicemente Shooter. Ebbene, questa volta devo riconoscere che il nostro ha fatto le cose come si deve, consegnandoci un signor disco di vero country-rock texano, che si mette tranquillamente sullo stesso piano dei suoi lavori più riusciti: merito senza dubbio delle canzoni, ma anche del fatto di essersi affidato alla produzione di Dave “Re Mida” Cobb, con il quale aveva già condiviso la consolle per l’ultimo album di Brandi Carlile, By The Way I Forgive You, uscito all’inizio di quest’anno.

Per Shooter il figlio di Waylon ha anche momentaneamente rinunciato alla sua abituale backing band, utilizzando i musicisti che di solito Cobb si porta in studio, con risultati indubbiamente degni di nota: Leroy Powell alla chitarra solista, Brian Allen al basso, lo stesso Cobb all’acustica, Chris Powell alla batteria e Fred Newell alla steel, e con in più le voci di supporto di Bekka Bramlett (la figlia di Delaney & Bonnie) e Kristen Rogers. Un album breve ma senza sbavature, che inizia in maniera abbastanza insolita con la travolgente Bound Ta Git Down, non perché sia travolgente ma per il suo stile, un rock’n’roll scatenato al quale una sezione fiati dona un sapore errebi, facendola sembrare più un pezzo di Southside Johnny (le iniziali sono le stesse…) che di un outlaw texano. Con Do You Love Texas? siamo invece in territori familiari, non solo per il titolo ma in quanto siamo in presenza di un delizioso honky-tonk elettrico, suonato in maniera robusta e con piglio da rock band (e con tanto di Waylon & Willie citati nel testo): questo è lo Shooter migliore, peccato che ogni tanto il nostro se ne dimentichi (un plauso anche a Cobb, il suono è perfetto).

Living In A Minor Key è una lenta e toccante cowboy tune, sullo stile di certe ballate di papà Waylon (penso ad Amanda), dalla strumentazione cristallina; D.R.U.N.K. è un trascinante rockin’ country, texano al 100%, che si posiziona da subito tra le cose più riuscite del nostro, mentre Shades & Hues è un altro slow, pianistico, semplice e diretto, con in più un gusto southern soul che riscalda il cuore. I’m Wild & My Woman Is Crazy riporta il disco su territori rock’n’roll, per un pezzo che suonato dal vivo è in grado di far saltare tutta la sala, Fast Horses & Good Rideout è una ballata un filo più eterea, ma che non sfigura affatto, anzi ricorda certe cose dell’Elton John dei primi anni settanta, ed alla fine risulta una delle migliori. Il CD termina con Rhinestone Eyes, bellissima e saltellante country song dal mood solare, e con Denim & Diamonds, una ballad elettrica tesa e vibrante dal chiaro sapore seventies, che invece di country ha molto poco, ed in certi passaggi strumentali può ricordare addirittura i Pink Floyd più bucolici.Intitolando la sua nuova fatica semplicemente con il suo soprannome, Shooter Jennings ha forse voluto simbolicamente fissare un nuovo punto di partenza della sua carriera, e devo riconoscere che c’è riuscito in maniera egregia.

Marco Verdi

Non Sarà Brava Come Il Marito, Ma Anche Lei Fa Comunque Della Buona Musica. Amanda Shires – To The Sunset

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Amanda Shires – To The Sunset – Silver Knife/Thirty Tigers

Amanda Shires dal 2013 è la moglie di Jason Isbell, ex Drive-by-Truckers, da qualche anno uno dei musicisti più interessanti del roots-rock, del southern ed in generale del rock americano dell’ultima decade. Entrambi vivono a Nashville, con la loro bambina, nata nel 2015, e sono una delle coppie più indaffarate del cosiddetto alternative country, spesso presenti in dischi di altri artisti come ospiti (le apparizioni più recenti, per entrambi, nei dischi 2018 di Tommy Emmanuel John Prine, mentre lei canta e suona anche nel nuovo Blackberry Smoke, che evidentemente di chitarristi ne hanno abbastanza), oltre che nei rispettivi album dove sono una reciproca presenza costante: Isbell in effetti suona tutte le chitarre e il basso (insieme a Cobb) in questo nuovo To The Sunset, settimo album (contando anche quello in coppia con Rod Picott del 2009), prodotto, come il precedente My Piece Of Land del 2016, dall’onnipresente Dave Cobb. Devo dire che il mio preferito della Shires rimane sempre Carrying Lightning https://discoclub.myblog.it/2011/06/03/un-altra-giovane-bella-e-talentuosa-songwriter-dagli-states/ , anche se i dischi della texana originaria di Lubbock sono sempre rimasti su un livello qualitativo più che valido, pur segnalando un progressivo spostamento dal country e dal folk della prima parte di carriera, che aveva suscitato paragoni con Emmylou Harris Dolly Parton (almeno a livello vocale), verso uno stile che comunque congloba un pop raffinato e melodioso, affiancato da un morbido rock classico al femminile, sferzato di tanto in tanto dalle sfuriate chitarristiche del marito Jason.

L’album ha avuto critiche eccellenti pressoché unanimi, tra l’8 e le quattro stellette (che poi sono la stessa cosa), ma non mi sembra personalmente questo capolavoro assoluto, pur ammettendo che il disco è estremamente piacevole e vario, lo stile forse a tratti si appiattisce un po’ troppo su un suono “moderno” e radiofonico, strano per uno come Cobb che di solito usa un approccio molto naturale e non lavorato eccessivamente nelle sonorità: la voce è anche spesso filtrata, rafforzata da riverberi vari, raddoppiata con il multitracking, che in alcune canzoni ne mascherano la deliziosa “fragilità” che potrebbe ricordare una cantante come Neko Case e forse anche Tift Merritt, o le derive più elettriche di certi vecchi dischi meno tradizionali nei suoni di Nanci Griffith, ma, ribadisco, si tratta di una impressione e di un parere personali, ad altri, visto quello che passa il convento del mainstream rock, il disco piacerà sicuramente. Forse il fatto che per il mio gusto ci siano troppe tastiere e sintetizzatori, suonate da Derry DeBorya dei 400 Unit del marito Jason Isbell, che per quanto non sempre necessariamente invadenti, conferiscono comunque un suono troppo rotondo che non sempre le chitarre riescono a valorizzare e rendere più incisivo, unito al fatto che il violino di Amanda spesso è filtrato da Cobb con pedali ed effetti vari che lo rendono quasi indistinguibile dalle chitarre, a parte in Eve’s Daughter, il brano decisamente più rock e tirato dell’album, dove la chitarra di Isbell suona quasi “burrascosa” e leggermente psichedelica ed interagisce con successo con il violino della Shires.

Altrove regna una maggiore calma, come nell’iniziale Parking Lot Pirouette, dove delle backwards guitars e della sottile elettronica segnalano un complesso arrangiamento, per una avvolgente ballata dove la voce della Shires tenta quasi delle piccole acrobazie vocali, ben sostenuta dal piano elettrico e dalle chitarre sognanti e sfrigolanti del marito, oppure nella nuova versione della dolce e melodica Swimmer, un brano che era già presente in Carrying Lighting e non perde il suo fascino misterioso in questa nuova versione. Molto gradevole il rock “alternativo” della incalzante Leave It Alone, sempre con intricate e complesse partiture costruite intorno a diversi strati di chitarre, tastiere ed al violino trattato, come pure la voce raddoppiata di Amanda. Charms è una delle rare oasi folk-rock del disco, una melodia accattivante che valorizza la voce partecipe della nostra amica e i delicati intrecci chitarristici elettroacustici, mentre l’ironica Break Out The Champagne è un delizioso mid-tempo rock che ha quasi il fascino di certe canzoni di Tom Petty, con un effervescente lavoro della chitarra di Isbell che aggiunge pepe ad una interpretazione vocale particolarmente riuscita di Amanda Shires.

Take On The Dark è più “buia e tempestosa” sin dal titolo, un altro incalzante rock chitarristico dove il drive di basso e batteria rende bene il mood drammatico della canzone; White Feather è una leggiadra pop song dalle gradevoli atmosfere che ricordano i brani più piacevoli di Neko Case, sempre con il lavoro di fino delle chitarre di Isbell e dell’organo di DeBorya e l’ukulele della Shires sullo sfondo. Mirror Mirror ha un suono quasi anni ’80, vagamente alla Kate Bush, quella meno ispirata, con tastiere che impazzano ovunque, ma, se mi passate il gioco di parole, non mi fa impazzire. In chiusura troviamo Wasn’t I Paying Attention, uno dei brani migliori del disco, con un riff circolare vagamente alla Neil Young, ma molto vagamente, un bel giro di basso rotondo, inserti di tastiere che fanno da preludio ad un ennesimo grintoso assolo chitarra di Isbell, per un brano che tratta con toni misteriosi ma moderati la vicenda di un suicidio inaspettato. Piace con moderazione.

Bruno Conti

Non Male, Molto Raffinato, Anche Se Di Country Se Ne Vede Poco! Ashley Monroe – Sparrow

ashley monroe sparrow

Quarto album di studio (più un vinile a tiratura limitata pubblicato per la Third Man Records, l’etichetta di Jack White) per la bionda Ashley Monroe, country singer del Tennessee ed anche apprezzata autrice per conto terzi, oltre che componente insieme ad Angaleena Presley e Miranda Lambert delle Pistol Annies, un trio che vanta tra i suoi principali estimatori un certo Neil Young. Dopo due album prodotti da Vince Gill, Ashley ha deciso di cambiare, approdando anche lei nell’universo di Dave Cobb, uno che da qualche anno a questa parte sta davvero lavorando come un matto. E Cobb non sbaglia neppure stavolta, portando in session un numero limitato di musicisti (tra cui i fidati Chris Powell alla batteria e Mike Webb alle tastiere) e soprattutto facendo sì che il suono non prenda pericolose derive radiofoniche, cosa che a Nashville non è mai scontata. Proprio nel suono però ci sono le maggiori novità, in quanto la Monroe, un po’ come ha fatto di recente Kacey Musgraves https://discoclub.myblog.it/2018/05/22/dal-country-al-pop-senza-passare-dal-via-kacey-musgraves-golden-hour/ , ha optato per sonorità non necessariamente solo country, dando spesso ai brani (tutti scritti da lei, anche se in collaborazione con altri) un gradevole sapore pop anni sessanta-settanta, con un uso molto particolare in diversi pezzi di un quartetto d’archi.

E Sparrow è un disco molto piacevole, non solo per queste soluzioni sonore o per il fatto di avere Cobb in cabina di regia: gran parte del merito va infatti ad Ashley stessa, che si conferma una songwriter capace ed una cantante espressiva e dalla voce cristallina, voce che viene intelligentemente messa in primo piano dal produttore. Orphan, che apre il disco, è un brano pianistico dal passo lento e leggermente orchestrato, con una melodia profonda e toccante, ed un notevole crescendo nel ritornello, una bella canzone davvero. Hard On A Heart cambia completamente registro, il tempo è sostenuto ed il motivo quasi western, ma la melodia è protagonista anche qui, con la voce sempre in primo piano: il contrasto con la ritmica trascinante ed il quartetto d’archi sullo sfondo crea un effetto quasi discoteca anni settanta, comunque intrigante; la sinuosa Hands On You ha un sapore d’altri tempi, quasi fosse una versione femminile di Chris Isaak, mentre Mother’s Daughter è una country ballad limpida e tersa, strumentata in maniera perfetta (voce, chitarra, sezione ritmica e piano elettrico), con il ricordo dei brani classici di Dolly Parton https://www.youtube.com/watch?v=Hnn1hYbxYoo .

Gli archi introducono l’emozionante Rita, altro scintillante slow che non è lontano dalle ballate dei primi Bee Gees, solo più country, la cadenzata Wild Love è ancora decisamente originale, tra western e pop, con l’uso dei violini che rammenta addirittura gli ELO, This Heaven (scritta con Anderson East) è una ballata semplice ma intensa, strumentata con classe e dallo sviluppo fluido, oltre ad essere cantata al solito molto bene https://www.youtube.com/watch?v=BilmSxKghgQ . I’m Trying To è un altro pezzo decisamente melodico, evocativo e profondo, con piano e chitarre in evidenza, She Wakes Me Up è puro pop anni sessanta ma attualizzato con i suoni di oggi, deliziosa ed orecchiabile, mentre Paying Attention è una canzone orchestrata e di ampio respiro, pur senza essere ridondante. Il CD si chiude con Daddy I Told You (scritta insieme alla Presley), brano diretto e godibile ancora guidato dal piano, e con la tenue e gentile Keys To The Kingdom, caratterizzata da un motivo semplice ma immediato.

Un buon disco comunque, raffinato sia nei suoni che nel songwriting, non solo per amanti del country.

Marco Verdi

Straordinari…Come Sempre! Old Crow Medicine Show – Volunteer

old crow medicine show volunteer

Old Crow Medicine Show – Volunteer – Columbia/Sony CD

E’ da anni che considero gli Old Crow Medicine Show la migliore band di Americana in circolazione, superiore anche ai bravissimi Avett Brothers: una conferma l’hanno data lo scorso anno quando è stato pubblicato lo splendido tributo dal vivo a Blonde On Blonde di Bob Dylan, dato che non è da tutti affrontare uno dei dischi più importanti della storia del rock e riproporlo con una tale inventiva, bravura e creatività https://discoclub.myblog.it/2017/05/09/come-rinfrescare-degnamente-un-capolavoro-assoluto-old-crow-medicine-show-50-years-of-blonde-on-blonde/ . E poi il sestetto guidato da Ketch Secor e Critter Fuqua (le due menti creative, gli altri sono Kevin Hayes, Chance McCoy, Morgan Jahnig e Cory Younts) è in continua crescita, disco dopo disco: il loro ultimo album Remedy era meglio di Carry Me Back, che a sua volta era meglio di Tennessee Pusher. Volunteer è il nuovissimo lavoro degli OCMS, giunge a quattro anni da Remedy e manco a dirlo è il più bello mai registrato dal gruppo: i nostri sono andati ad inciderlo nel mitico RCA Studio A di Nashville, facendosi produrre per la prima volta da Dave Cobb.

Era logico che prima o poi il miglior gruppo Americana ed il miglior produttore del genere si incontrassero, e se Cobb ha messo a disposizione tutte le sue capacità e la sua esperienza, i nostri hanno portato in dote alcune tra le loro migliori canzoni di sempre: se poi aggiungete il fatto che dal punto di vista della tecnica sono sempre più bravi (e qui sono coadiuvati in tutti i pezzi da Joe Andrews che funge quasi da settimo Corvo), capirete perché Volunteer si può definire il più bel disco dei nostri. La loro miscela di country, bluegrass, folk e rock non ha eguali al momento, ed ormai hanno maturato una capacità nel songwriting che consente loro di sfornare grandi canzoni con estrema facilità. Flicker & Shine, il primo singolo estratto, è un bluegrass irresistibile dal ritmo forsennato, suonato con piglio da vera rock band, un ritornello corale dal sapore deliziosamente tradizionale ed uno spettacolare cambio di ritmo a circa metà canzone. A World Away è strepitosa, una rock song fatta e finita ma suonata con strumenti della tradizione (comunque c’è anche una chitarra elettrica, per la prima volta dal 2004), dotata di un motivo di prim’ordine ed il solito feeling smisurato; la guardia non si abbassa neppure con la magnifica Child Of The Mississippi, altra coinvolgente e cadenzata country song con marcato accento sudista, dotata ancora di un ritornello eccellente.

La saltellante Dixie Avenue è un vivace honky-tonk elettroacustico, anch’esso dalla squisita linea melodica, Look Away dicono gli OCMS essergli stata ispirata dai Rolling Stones, ed in effetti è una ballatona sul genere di Wild Horses, davvero stupenda e suonata alla grande, come si usava fare negli anni settanta (c’è anche un limpidissimo pianoforte), mentre Shout Mountain Music è un altro di quei bluegrass al fulmicotone che dal vivo fanno saltare tutta la platea. Mi rendo conto che sto usando aggettivi altisonanti, ma album come questo non si ascoltano tutti i giorni (e fortunatamente di dischi belli ne ascolto parecchi). The Good Stuff è un pimpante e gustoso western swing, in cui i nostri sembrano dei veri texani (ed il ritmo è sempre elevato), Old Hickory è una fulgida country ballad che sembra una outtake di Sweetheart Of The Rodeo (la melodia assomiglia ad una You Ain’t Goin’ Nowhere rallentata), Homecoming Party inizia come una folk song acustica, poi entra la band al completo ed il brano assume la veste di un intensa e limpida country tune, pur mantenendo l’aria malinconica dell’inizio. Il CD termina con il breve strumentale Elzick’s Farewell (unico traditional), altro bluegrass velocissimo e con un non so che di irlandese (ma sentite come suonano), e con Whirlwind, ancora una ballata country-rock decisamente bella, che ricorda non poco la Nitty Gritty Dirt Band dell’epoca d’oro

Non solo Volunteer è il disco più bello degli Old Crow Medicine Show, ma credo che a fine anno sarà difficile scalzarlo dalla mia Top Three.

Marco Verdi

Diamo Il Bentornato Ad Uno Degli Ultimi Grandi Cantautori! John Prine – The Tree Of Forgiveness

john prine the tree of forgiveness

John Prine – The Tree Of Forgiveness – Oh Boy/Thirty Tigers CD

John Prine è sempre stato uno dei miei cantautori preferiti, anzi arrivo a sostenere che negli anni settanta sopra di lui c’erano forse solo Bob Dylan e Paul Simon, ed è uno che in carriera ha avuto solo un centesimo dei riconoscimenti che avrebbe meritato. Dagli anni novanta in poi Prine ha diradato di molto la sua produzione, ed è addirittura dallo splendido Fair & Square del 2005 che non avevamo sue canzoni nuove: dischi sì, ma o erano di covers, come il CD con Mac Wiseman Standard Songs For Average People o quello di duetti con interpreti femminili For Better, Or Worse https://discoclub.myblog.it/2016/11/15/recuperi-fine-stagione-altro-album-duetti-molto-meglio-del-primo-john-prine-for-better-or-worse/ , o erano dal vivo, come In Person & On Stage ed il recente live d’archivio September 78 https://discoclub.myblog.it/2017/10/02/un-buon-live-anche-se-monco-john-prine-september-78/ , o collezioni di demo di inizio carriera (The Singing Mailman Delivers). In questi anni ha avuto anche problemi di salute che lo hanno minato nell’aspetto, rendendolo quasi irriconoscibile e comunque fatto invecchiare molto male, e quindi era lecito pensare che avesse appeso la penna al chiodo in maniera definitiva. Una parte di merito per il suo ritorno sulle scene credo ce l’abbia Dan Auerbach, che lo ha coinvolto nella scrittura di alcune canzoni per il suo splendido album solista dello scorso anno: insieme i due hanno composto addirittura una ventina di brani, anche se poi Dan ne ha usata una sola (Waiting On A Song, la title track del disco) ed un’altra l’ha data a Robert Finley, del quale ha anche prodotto il bel disco Goin’ Platinum.

John dal canto suo si è rimesso a scrivere, da solo o con altri, tirando anche fuori dai cassetti qualche vecchia canzone mai incisa (ed altre due di quelle con Auerbach), ed è riuscito finalmente a dare un seguito a Fair & Square: The Tree Of Forgiveness è un album altrettanto riuscito, con dieci canzoni di qualità eccelsa che ci fanno ritrovare il Prine classico, quello che sa essere divertente ed ironico ma anche profondo e toccante, con una voce che a differenza del fisico non ha risentito più di tanto del tempo trascorso, al punto che non sembra che siano passati tredici anni tra un disco e l’altro. Buona parte del merito va anche al produttore, cioè il ben noto Dave Cobb (ormai un maestro nel dosare i suoni in dischi di questo tipo), il quale ha circondato John di strumentazioni misurate, mai eccessive, in modo da far risaltare sempre e solo la canzone in sé stessa: i musicisti coinvolti sono un mix tra i “regulars” di Prine, come Jason Wilber e Pat McLaughlin e quelli di Cobb, come Mike Webb e Ken Blevins, oltre ad ospitare interventi sempre all’insegna della misura da parte di Brandi Carlile, di Jason Isbell e della consorte Amanda Shires. Poche note di Knocking On Your Screen Door e già ritroviamo il John Prine che più amiamo, una cristallina e cadenzata ballata di ispirazione country, con una melodia tipica del nostro ed un accompagnamento scintillante: miglior inizio non poteva esserci https://www.youtube.com/watch?v=vqb6qKRN8j4 . I Have Met My Love Today è un delizioso brano elettroacustico impreziosito dalla seconda voce della Carlile (che adora John Prine), dal motivo semplice e diretto ed il gruppo che accompagna con discrezione https://www.youtube.com/watch?v=FzKZXEIW4YQ , mentre Egg & Daughter Nite, Lincoln Nebraska 1967 (Crazy Bone), titolo mica male, è una di quelle canzoni per cui il nostro è famoso, una folk ballad con voce, chitarra e poco altro, humor a profusione ed un gusto melodico squisito.

Summer’s End è una tenue slow song nella tradizione di pezzi come Hello In There, dal ritornello splendido e toccante, Caravan Of Fools è più spoglia, due chitarre acustiche, basso e mellotron, ed un mood più drammatico e quasi western di grande intensità, mentre l’ironica Lonesome Friends Of Science è puro Prine, motivo folk, organo alle spalle e brano che si ascolta tutto d’un fiato. No Ordinary Blue è una di quelle filastrocche countryeggianti che John ha sempre scritto con grande facilità (con ben quattro chitarre, tra cui l’elettrica di Isbell), Boundless Love è splendida pur nella sua voluta semplicità, ma il nostro riesce sempre ad emozionare anche solo con la voce e poco altro, e qui è servito da una scrittura di prim’ordine e dalla bravura di Cobb nel calibrare i suoni. God Only Knows non è una cover del classico dei Beach Boys, bensì un pezzo che John aveva scritto negli anni settanta addirittura con Phil Spector e poi dimenticato, e direi che ha fatto molto bene a ripescarla in quanto si tratta di una grande canzone, che beneficia anche di una strumentazione più vigorosa del solito, con la ciliegina della presenza dei coniugi Isbell, Jason alla solista ed Amanda al violino e seconda voce: se non è la più bella del disco poco ci manca https://www.youtube.com/watch?v=4E39NOnCS1U . La scherzosa When I Get To Heaven, che alterna talkin’ ad un cantato pimpante, chiude in maniera positiva un lavoro davvero bellissimo https://www.youtube.com/watch?v=OaDGYFNmtyY , grazie al quale mi rendo conto di quanto mi mancasse uno come John Prine.

Marco Verdi

Da Nashville, Con Orgoglio. Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound

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Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound – Southeastern Records

Jason Isbell, ormai giunto al sesto album da solista dopo la positiva parentesi come chitarrista e compositore nei Drive By Truckers dal 2001 al 2007, rivendica con forza e con le armi della buona musica la sua appartenenza ad una delle città musicali per eccellenza degli U.S.A., la celeberrima Nashville, da molti considerata il simbolo della musica country da classifica, banale e stereotipata, che spesso si mescola al pop. Jason sostiene che questa sia una falsa immagine, provocata dalle scelte di importanti case discografiche che investono su artisti fasulli mandandoli ad incidere nei rinomati studi nashvilliani, ma i musicisti veri, che a Nashville ci vivono e ci lavorano, come il grande veterano John Prine o l’emergente Chris Stapleton, sono fatti di altra pasta e producono musica di assoluto valore. Diventa allora pienamente giustificato, per il nostro songwriter originario della vicina Alabama, intitolare orgogliosamente la propria ultima fatica The Nashville Sound, pubblicato a metà dello scorso giugno e già premiato da critica e pubblico come uno dei migliori dischi di Americana dell’anno appena concluso (*NDB Di cui colpevolmente non avevamo recensito, per motivi misteriosi, neppure i due dischi precedenti e quindi rimediamo, nell’ambito della serie di recuperi “importanti” di album usciti nel 2017). Squadra che vince non si cambia, e così, per confermare i brillanti esiti dei due precedenti lavori, Southeastern del 2013 e Something More Than Free del 2015, Isbell ha rivoluto con sé in cabina di regia il richiestissimo Dave Cobb, produttore che sa plasmare il suono di un album con utili suggerimenti senza mai risultare troppo invadente.

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https://www.youtube.com/watch?v=w8mMXEUFWu0

Ad affiancare il protagonista, gli ormai fedeli e collaudati componenti della sua band, i 400 Unit (nome che deriva da un reparto psichiatrico dell’ospedale di Florence, in Alabama): la moglie Amanda Shires, al violino e ai cori, già autrice di cinque pregevoli dischi da solista più uno in coppia con Rod Picott, Sadler Vaden alle chitarre, già membro dei Drivin’ N’ Cryin’, Jimbo Hart al basso, Derry DeBorja tastierista co-fondatore dei Son Volt e Chad Gamble alla batteria. Come già accadeva nei due precedenti CDs, come brano di apertura viene scelta un’intensa e malinconica folk ballad: intitolata Last Of My Kind,  prende corpo lentamente fino al pregevole finale in cui ogni musicista dà il suo efficace contributo. Il suono si fa decisamente più duro ed elettrico nella successiva Cumberland Gap, che scorre veloce su territori che rimandano al grande ispiratore Neil Young, noto a tutti per le sue memorabili invettive chitarristiche. Nell’alternanza di ritmi ed atmosfere, si torna alla struttura della ballata con Tupelo (il richiamo nel titolo alla Tupelo Honey del maestro Van The Man non è, secondo me, per nulla casuale), un vero gioiello arrangiato in modo sopraffino, con una linea melodica che conquista al primo ascolto. Altra grande canzone è la drammatica White Man’s World, il cui testo denuncia il razzismo di cui ancora purtroppo sono permeati gli States, soprattutto i vasti territori agricoli del Sud. Notevole il duetto a metà del brano tra la slide di Vaden e il violino della Shires.

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https://www.youtube.com/watch?v=JV7c8V5XLk8

La delicata e acustica If We Were Vampires dà all’album un tocco di romanticismo che non guasta, Jason la canta con tono accorato ed il cuore in mano, doppiato nel ritornello dalla tenue voce della moglie. Anxiety è il pezzo più lungo e strutturato del disco, che ricorda certi epici episodi del mai troppo compianto Tom Petty. Si apre con un aggressivo attacco di chitarre per poi rallentare durante il cantato delle strofe, mantenendo comunque una bella tensione emotiva fino alla parte conclusiva che riesplode in un bel sovrapporsi di tastiera e sei corde acustiche ed elettriche. Molotov non lascia particolarmente il segno, è associabile ad una serie di canzoni elettro-acustiche che rimandano ad un altro illustre collega di Isbell, Ryan Adams. Meglio la graziosa e beatlesiana Chaos And Clothes, chitarra e voce, con qualche piacevole ricamo in sottofondo. Con Hope The High Road torniamo a correre, grazie ad una melodia vincente condotta dalle chitarre e dal limpido hammond sullo sfondo, una splendida song che esprime voglia di vivere e quella speranza a cui fa riferimento il titolo. Conclusione in chiave country-folk con la deliziosa Something To Love, altro fulgido esempio del notevole talento compositivo del suo autore che cresce disco dopo disco, confermandosi uno dei più validi protagonisti dell’attuale scena cantautorale americana. Orgogliosamente Made in Nashville!

Marco Frosi

Forse E’ Un Disco Un Po’ Prevedibile, Ma Il Livello E’ Sempre Alto! Anderson East – Encore

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Anderson East – Encore – Elektra/Warner CD

Le due rivelazioni musicali del 2015 sono stati indubbiamente Anderson East http://discoclub.myblog.it/2016/01/01/recuperi-inizio-anno-3-meraviglioso-disco-soul-bianco-anderson-east-delilah/  e Nathaniel Rateliff http://discoclub.myblog.it/2015/09/03/ora-il-migliore-album-rocknsoul-dellanno-nathaniel-rateliff-the-night-sweats/ , titolari di due tra i più bei dischi di quell’anno (e nessuno dei due, va detto, era l’album d’esordio), due lavori splendidi che avevano come comune denominatore uno stile soul e rhythm’n’blues decisamente vintage. Ma i due approcci erano radicalmente diversi, in quanto Rateliff proponeva un errebi molto energico, quasi fisico e direttamente imparentato col rock (come ha confermato il devastante Live At Red Rocks da poco uscito http://discoclub.myblog.it/2017/12/11/un-live-prematuro-al-contrario-formidabile-nathaniel-rateliff-the-night-sweats-live-at-red-rocks/ ), mentre la musica di Delilah, l’album di East (vero nome Michael Cameron Anderson) era decisamente più raffinata, di classe, con una maggiore propensione alle ballate, e con l’influenza di Sam Cooke ben presente https://www.youtube.com/watch?v=Z5L4mRGQhJE . E, almeno per il sottoscritto, superiore (anche se di poco) a Rateliff. Delilah ha avuto anche ottimi riscontri di critica e di vendite, dimostrazione che in giro c’è ancora voglia di grande musica, ed Anderson si è goduto il momento, prendendosi tutto il tempo per dare un seguito a quel disco fulminante (nel frattempo si è anche fidanzato con Miranda Lambert).

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https://www.youtube.com/watch?v=Ka1p2Vj5wps

Encore, il suo nuovo lavoro, non cambia le carte in tavola, in quanto prosegue il discorso precedente di musica soul fatta davvero con l’anima, cantata e suonata alla grande, oltre che prodotta splendidamente (l’onnipresente Dave Cobb, già responsabile di Delilah). Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, Anderson con questo disco non ha rischiato, in quanto sembra quasi che abbia inciso un appendice all’album precedente (ed il titolo forse non è casuale, gli encores in inglese sono i bis che un artista propone a fine spettacolo), ma sempre meglio così che cambiare totalmente, con il rischio di spersonalizzare il suono e scontentare tutti. Per la verità le avvisaglie non erano rassicuranti, in quanto il primo singolo, All On My Mind (in giro già da qualche mese) non è una grande canzone, troppo monolitica nel suono, piuttosto risaputa dal punto di vista melodico, e soprattutto con un fastidioso synth che non c’entra nulla con East. Ma fortunatamente siamo in presenza di un episodio isolato, in quanto il resto di Encore è bellissimo, con la grande voce “nera” di Anderson che la fa da padrona, ed una serie di canzoni decisamente riuscite (tutte scritte da lui, tranne due cover) e suonate in maniera sopraffina da uno zoccolo duro di musicisti del giro di Cobb (Chris Powell alla batteria, Brian Allen al basso, Philip Towns alle tastiere), una sezione fiati indispensabile nell’economia del suono, e qualche ospite di nome come Chris Stapleton e Ryan Adams alle chitarre in una manciata di pezzi.

Anderson East's Encore comes out Jan. 12.

https://www.youtube.com/watch?v=252yzYRawM8

Si inizia subito alla grande con King For A Day, splendida soul ballad (scritta da Anderson con Stapleton e sua moglie Morgane), calda, fluida e con una melodia deliziosa, il tutto eseguito con classe sopraffina (e che voce), con uno stile che rimanda a Curtis Mayfield. This Too Shall Last è un altro slow, più intimista del precedente, suonato con estrema raffinatezza e con le chitarre nelle mani di Adams: bellissimo sia l’uso dell’organo che lo sviluppo melodico. House Is A Building, superbamente orchestrata, è un pezzo romantico ancora di gran classe, mentre Sorry You’re Sick (un brano di Ted Hawkins, un musicista ex busker scoperto con colpevole ritardo, ed oggi quasi dimenticato) è trasformata in un vivace errebi dal gran ritmo, alla Ike & Tina Turner, con fiati e chitarre sugli scudi e la solita grande voce. If You Keep Leaving Me è una ballata davvero magnifica dal suono classico, primi anni settanta, un delizioso controcanto femminile ed una linea melodica perfetta, in cui vedo tracce sia di Van Morrison (l’accompagnamento) che di Joe Cocker (l’approccio vocale): ripeto, canzone strepitosa. Girlfriend è decisamente più grintosa e potente, tanto da invadere quasi il territorio di Rateliff, ma è ugualmente godibile dalla prima all’ultima nota, grazie anche ai fiati che qui la fanno da padroni (e perfino l’assolo di moog ha un sapore vintage), Surrender è ritmata, trascinante e diretta, con il nostro che si supera vocalmente, mentre di All On My Mind ho già detto, un pezzo di cui si poteva fare a meno. Il disco comunque si riprende subito alla grande con Without You, pianistica, vibrante e piena di calore, con un altro motivo emozionante, e con Somebody Pick Up My Pieces, una cover di Willie Nelson che esce idealmente dal Texas per spostarsi in Alabama, diventando una scintillante ballata in puro stile southern soul.

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https://www.youtube.com/watch?v=1zSczaSm60U

Il CD, che è uscito l’altro ieri, venerdì 12 gennaio, si chiude con la lenta e spoglia Cabinet Door, solo voce e piano ma un feeling enorme; ottima conferma quindi per Anderson East: Encore avrà forse il difetto di non essere troppo diverso da Delilah, facendo mancare quindi l’effetto sorpresa del suo predecessore, ma siamo comunque in presenza di un lavoro di notevole livello e che ascolteremo a lungo.

Marco Verdi