In Due Parole: Era Ora! John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall

john mellencamp trouble no more live at town hall

John Mellencamp – Performs Trouble No More Live At Town Hall – Mercury/Universal CD USA 08/07/2014 EUR/ITA 22/07/2014

Di tutti i cosiddetti “big” della musica internazionale, John Mellencamp era l’unico che non aveva ancora pubblicato un vero e proprio album dal vivo, a parte qualche bonus track sparsa qua e là nei singoli ed un EP (Life, Death, Live And Freedom), che però riprendeva soltanto una manciata di brani tratti dal suo disco del momento (il quasi omonimo Life, Death, Love And Freedom). Tra l’altro stiamo parlando di uno di quei musicisti che trova sul palco la sua dimensione ideale, uno che negli anni ottanta riempiva le arene e si rimpallava con Springsteen e Petty il ruolo di rocker numero uno in America (Bob Seger aveva perso un po’ di terreno negli eighties), quindi l’assenza di live albums nella sua discografia gridava ancor più vendetta. Ora finalmente anche il nostro ripara a questa grave mancanza, ma lo fa a modo suo: Trouble No More Live At Town Hall non è un live canonico, in quanto palesemente (ed anche il titolo lo indica) sbilanciato verso quello che comunque è obiettivamente uno dei migliori lavori della seconda parte della carriera dell’ex Puma, Trouble No More.

john mellencamp trouble no more

Pubblicato nel 2003, l’album era una sorta di ripasso da parte di Mellencamp delle sue radici, un disco di pura roots-Americana che, con un feeling formato famiglia, presentava una serie di covers prese a piene mani dal ricco songbook a stelle e strisce . Brani tradizionali, cover di canzoni blues, riletture di vecchi folk tunes (ed un solo brano contemporaneo): un disco che lasciava un po’ indietro il Mellencamp rocker e ci presentava il Mellencamp musicista a tutto tondo, che proseguì con i seguenti dischi il suo discorso di brani che, anche se autografi, erano profondamente legati alla tradizione dei songwriters blues e folk più classici https://www.youtube.com/watch?v=xi3w9eduwXI .

john mellencamp trouble no more making

Trouble No More Live At Town Hall riprende (quasi) interamente quel disco, aggiungendo un omaggio a Bob Dylan e, solo nel finale, tre classici di John: registrato nel 2003 a New York con la sua touring band dell’epoca (Mike Wanchic ed Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, John Gunnell al basso, Dane Clark alla batteria e Michael Ramos alle tastiere e fisa), davanti a 1.500 persone, tra le quali anche membri della famiglia di Woody Guthrie.

Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (mi sembra di essere il Mollicone nazionale): Mellencamp dimostra di essere un fuoriclasse sul palco, la band dietro di lui va come un treno, dipingendo le canzoni con tinte rock che le loro versioni di studio non avevano, ed i brani, va da sé, sono straordinari. L’unica piccola pecca è l’aver lasciato fuori due canzoni che quella sera (era il 31 Luglio) John suonò, e se all’assenza di The End Of The World possiamo sopravvivere. *NDB Però… https://www.youtube.com/watch?v=8GpxR2H241g , mi sarebbe invece piaciuto parecchio ascoltare la versione di Mellencamp dell’ultraclassico House Of The Risin’ Sun (non presente peraltro sul Trouble No More di studio).

john mellencamp 1

1. Stones In My Passway (Robert Johnson)

2. Death Letter (Son House)

3. To Washington (John Mellencamp/Traditional)

4. Highway 61 Revisited (Bob Dylan)

5. Baltimore Oriole (Hoagy Carmichael/Paul Francis Webster)

6. Joliet Bound (Kansas Joe McCoy)

7. Down In The Bottom (Willie Dixon)

8. Johnny Hart (Woody Guthrie)

9. Diamond Joe (John Mellencamp/Traditional)

10. John The Revelator (Traditional)

11. Small Town (John Mellencamp)

12. Lafayette (Lucinda Williams)

13. Teardrops Will Fall (Marion Smith)

14. Paper In Fire (John Mellencamp)

15. Pink Houses (John Mellencamp)

Apre Stones In My Passway, di Robert Johnson, con Wanchic (o è York?) scatenato alla slide ed il nostro subito in partita; Death Letter (Son House), ancora blues, senza un momento di respiro, ancora la slide a dominare e John che canta alla grande https://www.youtube.com/watch?v=vN2AMvDdOAk . To Washington è splendida, una folk song tradizionale alla quale John ha aggiunto delle parole nuove, non proprio carine verso l’allora presidente George W. Bush: accompagnamento rootsy, con chitarre acustiche, violino e slide, una vera goduria. Highway 61 Revisited è il già citato omaggio a Dylan, nel quale viene fuori il Mellencamp rocker: solito grande lavoro di slide (una costante per tutto il CD) ed il violino che le dà un sapore meno urbano, facendola sembrare una outtake del grande The Lonesome Jubilee (per chi scrive il miglior disco di Mellencamp).

john mellencamp 2

Baltimore Oriole è il più celebre brano scritto da Hoagy Carmichael: la versione di John è bluesata, quasi tribale, profonda, suggestiva, con strumentazione scarna ma tanta anima (il duetto tra fisarmonica e violino è da brividi). Il pubblico ascolta in rigoroso silenzio per poi esplodere in un fragoroso applauso nel finale. Joliet Bound è un antico brano reso noto da Memphis Minnie: versione frenetica, dalla ritmica spezzata, sempre con il giusto bilanciamento tra folk, blues e roots; Down In The Bottom vede Mellencamp alle prese con Howlin’ Wolf, una trascinante resa tra rock, blues ed un pizzico di swamp, tanto che non sarebbe dispiaciuta a John Fogerty: ritmo alto e solita grande slide. E’ la volta di Guthrie a venire omaggiato: Johnny Hart mantiene intatto lo spirito dell’originale, una versione splendida per purezza e sentimento, il miglior ricordo che John poteva tributare a Woody.

john mellencamp 4  live

Diamond Joe è un traditional rifatto da un sacco di gente (anche da Dylan): John la personalizza parecchio, suonandola full band, elettrica, ritmando e roccando, e facendola sembrare sua. Un capolavoro rifatto alla grande, uno dei momenti salienti del CD. John The Revelator è un gospel che hanno cantato in mille: ancora un intro swamp e John che si traveste da predicatore, versione intensa come al solito, manca solo il coro alle spalle. Ci avviamo alla conclusione: Small Town è uno dei tre classici di John presenti, una delle canzoni rock con il più bel riff in assoluto, anche se qui viene stravolta ed adeguata al mood della serata (tanto che il pubblico la riconosce solo quando John inizia a cantare).

john mellencamp 3

Lafayette, di Lucinda Williams, era l’unico brano contemporaneo presente su Trouble No More, e siccome io non sono un fan della Williams performer, ho gioco facile ad affermare che la versione di John è di gran lunga superiore; Teardrops Will Fall l’hanno incisa da Wilson Pickett a Ry Cooder, e Mellencamp la personalizza, grazie anche alla sua band coi fiocchi, e la fa sembrare anch’essa sua (cosa non facile quando su un brano ci ha già messo le mani Cooder) https://www.youtube.com/watch?v=JOk8kv_Tecc . La serata si chiude in crescendo con le straordinarie Paper In Fire, il pezzo che apriva col botto The Lonesome Jubilee (e qui la resa è molto più aderente all’originale, anche se manca la batteria esplosiva di Kenny Aronoff), e con Pink Houses, un manifesto roots-rock, scritta quando il movimento roots era di là da venire: leggermente più blues della versione apparsa all’epoca su Uh-Huh, resta comunque un capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=-fDZmEW4TMs .

Grande disco questo “esordio” dal vivo di Mellencamp (anche se comunque prima o poi ci vorrà anche un live, diciamo, career-spanning): esce l’8 Luglio in America ed il 22 in Europa (anche in vinile, ma con solo 10 canzoni contro le 15 del CD).

Non lasciatevelo sfuggire.

Marco Verdi

Potrebbe Essere Il Miglior Live Del 2014! Beth Hart Joe Bonamassa – Live In Amsterdam

beth hart joe bonamassa live in amsterdam

Beth Hart & Joe Bonamassa – Live In Amsterdam – 2CD/2DVD/Blu-ray Jr/Mascot/Provogue

Presi separatamente sono fantastici. Lui, Joe Bonamassa, è uno dei migliori chitarristi rock (e blues, jazz, funky, come dimostra il recente doppio CD con DVD dei Rock Candy Funk Party di cui avete letto qualche giorno fa), lei, Beth Hart, è il prototipo di come deve essere la perfetta cantante rock (ma con un amore smisurato per soul, jazz e canzone d’autore). Insieme diventano irresistibili e complementari. A chi scrive è capitato di vederli in concerto, ognuno per conto proprio e l’esperienza è stata molto soddisfacente in entrambi i casi. In questo album, nel formato che preferite, il risultato è una delle rare occasioni in cui unendo due talenti si ottiene esattamente la somma delle due personalità: Bonamassa ha già pubblicato “miliardi” di dischi dal vivo (quatto in contemporanea lo scorso novembre), quindi in questa accoppiata, può riservarsi il ruolo “semplicemente” del Chitarrista (anche se con la C Maiuscola), lasciando il proscenio alla Hart, che è il perfetto animale da palcoscenico, esagerata e vibrante, ma anche con una anima malinconica e scura, solare e divertente nel suo interscambio con il pubblico, più “composta” nella  nuova immagine da panterona, con taglio di capelli e colore più sobri, ma sempre pronta a scatenarsi all’impronta https://www.youtube.com/watch?v=BA7cCeSW2Ic .

beth-hart-joe-bonamassa-live-in-amsterdam-102~1920x1080

I fortunati che erano presenti al Koninklijk (uno scioglilingua) Theater Carré di Amsterdam, il 30 giugno dello scorso, hanno potuto godersi lo spettacolo di persona, per tutti gli altri questo Live, direi, è quasi imperdibile. Veniamo al contenuto. Si parte con lo swing divertente di Them There Eyes, per rompere il ghiaccio, formazione con i fiati aggiunti, primo assolo jazzato per Joe, un brano della Billie Holiday meno sofferta e più disincantata, piacevole ma non memorabile, Beth non potrà mai essere “Lady Day” ma se la cava egregiamente. Sinner’s Prayer è il primo blues che comincia a scaldare l’atmosfera della serata, un vecchio pezzo di Ray Charles, molto virato verso il rock-blues più sanguigno, quasi subito in uno stile che ricorda Humble Pie e Led Zeppelin, novelli Page e Plant (anche se lei è più carina, la voce c’è), Joe è alla slide. Anche Can’t Let Go non molla la presa, sempre modalità slide, ritmi serrati e veloci per il brano di Lucinda Williams, completamente cambiato rispetto all’originale, ma comunque musica ad alto tasso adrenalinico e sempre cantato alla grande. For My Friend ,scritta in origine da Bill Withers, diventa un infuocato brano rock, come avrebbero potuto farlo i citati Humble Pie o gli Zeppelin, molto cadenzato e tirato, e la successiva Close To My Fire non abbassa la tensione, anche se i tempi rallentano e il brano pop degli Slackwax, nato per una pubblicità, diventa quasi uno standard soul degli anni ’60, con la chitarra di Bonamassa che aggiunge solo tocchi di colore https://www.youtube.com/watch?v=HMuz3ANHPj0 .

beth-hart-joe-bonamassa-live-in-amsterdam-2

Il vero soul esplode con Rhymes, i fiati sincopati e l’organo di Shierbaum alzano la temperatura, lei canta come una novella Etta James (anche se è dura) e Joe fa il Clapton della situazione. L’omaggio a Etta prosegue con una sanguigna Something’s Got A Hold On Me, Beth Hart sfoggia la sua ugola d’oro, a metà tra il R&B nero (sottolineato da fiati e coristi) e la “cattiveria” del rock duro, incarnato dalla solista ispirata di Bonamassa, che dal vivo concede di più rispetto alle versioni di studio. Cambio totale di atmosfera per il brano scritto da Melody Gardot, con Tomorrow Is As Black As Night si passa ad un fumoso locale della New York anni ’60, immaginate una Nina Simone bianca sul palco, con Joe che fa il Kenny Burrell della situazione, con alcune pennellate jazz, prima di rilasciare un assolo blues che è un miracolo di equilibri sonori e potenza, bellissimo. Chocolate Jesus è il classico brano waitsiano che appariva nel primo album della coppia, l’ottimo Don’t Explain (eccellente, come il successore Seesaw, da avere entrambi), Schierbaum alla fisarmonica, il sound è molto rilassato ed europeo, ma l’assolo di Joe è tagliente e cattivo come pochi, e lei canta con impegno ammirevole, confermandosi la migliore voce femminile di stampo rock attualmente in circolazione https://www.youtube.com/watch?v=DPks5XAwfxQ .

beth-hart-joe-bonamassa-live-in-amsterdam-3

Baddest Blues, con Beth che siede al piano, viene dal repertorio solista della cantante losangelena, una struggente ballata dedicata alla madre, con la band che aggiunge intensità alla voce fantastica della Hart. Intensità che rimane nella successiva Someday After Awhile, il classico slow blues che è lo showcase per l’anima più Claptoniana di Bonamassa, che canta e suona come fosse posseduto dal fantasma del buon Eric, e che assolo, fluido e ricco di classe, alla faccia di quelli che lo considerano un “fracassone”. Presentazione dell’ottima band e poi si riparte con Well Well, un rock’n’soul alla Delaney & Bonnie (grande Joe), le ambientazioni mitteleuropee di If I Tell Tou I Love You, ancora della Gardot, un omaggio ad un’altra Regina, Aretha Franklin, con il soul puro di Seesaw (che voce, ragazzi), un momento raccolto ed emozionante con una Strange Fruit assai sentita da Beth, che è una grande fan della Holiday, e poi di nuovo una fucilata rock-blues con una micidiale Miss Lady che conclude il concerto https://www.youtube.com/watch?v=mHW4YARgcJA .Ma ci sono i bis: I Love You More Than You’ll Ever Know è un blues lento ed intensissimo, scritto da Al Kooper per i Blood, Sweat & Tears, di cui faceva un’ottima versione anche Donny Hathaway, con Beth e Joe che danno il meglio di sé nei rispettivi ruoli di cantante e chitarrista. Nutbush City Limits non la faceva nessuno così bene dai tempi di Ike & Tina Turner, grandiosa e con una energia dirompente  e poi gran finale con l’ennesima versione di I’d Rather Go Blind, una canzone che la Hart ha reso propria nel corso degli anni e che è seconda solo, come versione, a parere di scrive, a quella originale di Etta James, ma di poco. Credo che dischi dal vivo così belli non ne usciranno molti quest’anno, “giustamente” ai Grammy non hanno vinto nulla come coppia, ma Live In Amsterdam sarà difficile da superare (anche se pure il Musicares Tribute a Bruce Springsteen è un gran concerto, entrambi registrati lo scorso anno), per il momento Live del 2014 https://www.youtube.com/watch?v=Jjv9Hmu5Vj0 !

Bruno Conti

Diari Texani! Eliza Gilkyson – The Nocturne Diaries

eliza gilkyson nocturne diaries

Eliza Gilkyson – The Nocturne Diaries – Red House Records/Ird

Con una lunga e ricca carriera alle spalle (debutta nel ’69 e con questo sono ben 20 gli album che ha inciso), Eliza Gilkyson è una cantautrice notevole che ad Austin viene considerata come una piccola gloria locale, una delle artiste che ha contribuito a edificare la leggenda della musica texana (anche se, per la cronaca, è nata in California!). Come si confà al bravo e umile recensore, qualche nota biografica è fondamentale per capire da dove viene e quale è il suo progetto artistico. Eliza cresce in una famiglia dove la cultura, la poesia e la musica sono di casa (il padre Terry Gilkyson è stato un bravo compositore, e le sue canzoni sono state portate al successo da Dean Martin, Johnny Cash, White Stripes e altri ancora). Dopo aver preso le distanze dall’ingombrante padre, per cui all’inizio cantava nei demos, Eliza si è lentamente creata una sua carriera professionale di musicista a tempo pieno, che nel corso del tempo l’ha portata a collaborare con gli Amazing Rhythm Aces (grandissimi), Exene Cervenka (cantante del gruppo punk-rock X) Iain Matthews, e ad instaurare un proficuo rapporto con l’arpista svizzero Andreas Vollenweider.

eliza gilkyson 1

Dopo aver inciso un album Misfits (99), ricco di soddisfazioni per la sua etichetta Realiza Records (ma aveva già fatto dischi nel 1969 e 1979 e il suo primo “ufficiale”, Pilgrims, risale al 1987 https://www.youtube.com/watch?v=ns35h09X72c , si accasa  con la Red House Records, https://www.youtube.com/watch?v=XXd2xjTrNXo dove pubblica, tra gli altri, Lost And Found (02), l’ottimo Land Of Milk And Honey (04), Paradise Hotel (05), il live Your Town Tonight (07), Beautiful World (08), e il recente bellissimo Rose At The End Of Time (11) senza dimenticare i lavori editi con Iain Matthews e Ad Vanderveen More Than A Song (01) e Red Horse (10) con Lucy Kaplansky e John Gorka http://discoclub.myblog.it/2010/08/07/un-piccolo-supergruppo-red-horse-gilkyson-gorka-kaplansky/ .

eliza gilkyson 2

Come sempre nei suoi lavori, Eliza si circonda di bravi musicisti e The Nocturne Diaries non fa eccezione: a seguirla ci sono Mike Hardwick (a lungo con Jon Dee Graham) alle chitarre e dobro, Chris Maresh al basso, Rich Brotherton al mandolino, Warren Hood al violino, Ray Bonneville all’armonica, e suo figlio, e produttore del disco, Cisco Ryder alla batteria e percussioni (insomma il meglio dei “turnisti”di Austin), a cui vanno aggiunte le voci dell’amica Lucy Kaplansky e di Delia Castillo.

eliza gilkyson 3

Si parte con Midnight Oil, una tenue dolce ballata, seguita dall’intro acustico di Eliza Jane, che poi si sviluppa in un bluegrass con mandolino, banjo e violino, mentre No Tomorrow è un brano molto gradevole, delicato e intimista, per poi passare all’elettrica An American Boy che tocca livelli pari a quelli della migliore Lucinda Williams https://www.youtube.com/watch?v=vOKTZ7U4lQM . Where No Monument Stands è una bella poesia di William Stafford, messa in musica da John Gorka (uno che di buone canzoni se ne intende), una ballata incantevole con una Gilkyson particolarmente ispirata, a cui fa seguito una The Ark dall’incedere tambureggiante, mentre con Fast Freight viene ripescato un brano del padre Terry (registrato dal Kingston Trio nel loro album di debutto nel lontano ’58) https://www.youtube.com/watch?v=2efj7YCATSw , seguito dall’arrangiamento più rock del lavoro, una ballata elettrica,The Red Rose And The Thorn, che richiama alla mente le sonorità  delle canzoni di Mary Gauthier. Not My Home eTouchstone https://www.youtube.com/watch?v=JS9YVn-L1LY  sono amabili bozzetti che vedono Lucy Kaplansky al controcanto, mentre la ballata romantica World Without End (ricorda in modo imbarazzante Right Here Waiting di Richard Marx), appena sussurrata da Eliza, è di una bellezza incantevole, per poi chiudere il “diario” con una ninna-nanna, All Right Here, accompagnata solo da una chitarra slide e dalla pedal steel di John Egenes.

eliza gilkyson 4

Eliza Gilkyson, al pari di Mary Gauthier (e poche altre), resta una cantautrice “vera”, che ha tanto talento da regalare, grazie ad una voce calda e profonda, e nelle sue canzoni affronta temi ricchi di spunti socio-politici (e in questo non può non ricordare la grande Joan Baez), un’artista che non è certo un personaggio di profilo secondario, e The Nocturne Diaries è un lavoro fatto come sempre con passione e merita certamente un ascolto non affrettato, in quanto, ne sono certo, spesso la musica al “femminile” arriva più facilmente al cuore dell’ascoltatore.

Tino Montanari

Ecco Il Doppio CD Del Tributo, Track By Track. Uno Dei Migliori Di Sempre! Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne

looking into you tribute to jackson browne

Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne – 2CD Music Road/Ird

“Uno dei migliori di sempre” nel titolo del Post si riferisce sia alla qualità del tributo quanto al soggetto dello stesso, Mr. Jackson Browne: non occorre che sia io a dirvelo, comunque per metterlo nero su bianco, uno dei più grandi cantautori prodotti dalla scena musicale americana negli ultimi 50 anni. E, non a caso, al tributo partecipano solo artisti statunitensi (neppure canadesi, per non parlare di inglesi ed europei). Il progetto esce per la Music Road, l’etichetta di Jimmy LaFave, ma non è la tipica produzione indipendente, infatti partecipano molti dei maggiori artisti del mainstream americano, oltre ad una serie di outsiders e promesse. Manca qualcuno? Certo. Manca Warren Zevon, perché ci ha lasciati, manca la Nitty Gritty Dirt Band con cui Jackson ha iniziato la sua carriera nel lontano 1966, mancano gli amici di sempre Steve Noonan Greg Copeland (col quale aveva scritto Buy Me For The Rain, il primo successo della Nitty Gritty), insieme ai quali si è esibito recentemente per un concerto di raccolta fondi, manca Nico, scomparsa da tempo, alla quale aveva donato tre canzoni apparse su Chelsea Girl e tanti altri che sarebbe troppo lungo citare.Quello che resta è comunque molto bello. Quindi vediamolo, brano per brano, cogliendo l’occasione per parlare anche delle canzoni e dei musicisti coinvolti.

Disco Uno

1. These Days – Don Henley w/ Blind Pilot

Una delle prime canzoni scritte da Jackson Browne, come ricorda Don Henley These Day venne scritta quando aveva solo 16 anni, e nelle parole dell’ex Eagles, “era un passo avanti a tutti noi”. Secondo il Wikipedia italiano, il brano sarebbe stato scritto per Tim Rush (sic, è Tom Rush!) nel 1968, ma se era già stato pubblicato su Chelsea Girl di Nico, uscito nel 1967, mi pare improbabile (questo per ricordarvi che Wikipedia non è la Bibbia, usare con cautela). Comunque Rush l’ha incisa, come la Nitty Gritty, Steve Noonan, Gregg Allman, che ne fece una stupenda versione sul suo disco d’esordio come solista, il bellissimo Laid Back del 1973, lo stesso anno in cui anche Browne la pubblicò sul suo secondo album For Everyman. Questa versione di Henley è molto bella, accompagnato dai Blind Pilot, band indie di Portland molto valida, che confeziona un bellissimo accompagnamento per questo brano, tutt’ora uno dei più belli in assoluto del songbook di Jackson, raffinatissima, con tromba, organo, dulcimer, vibrafono, le immancabili chitarre e armonie vocali, che se non sono quelle degli Eagles, poco ci manca.

2. Everywhere I Go – Bonnie Raitt and David Lindley

E’ nota la passione dell’artista californiano per il reggae, la musica caraibica e la world music in genere, e chi scrive non impazzisce per il genere, comunque il brano, apparso in origine su I’m Alive del 1993, è cantato a tempo di reggae da Raitt e Lindley, che si dividono i compiti anche alla chitarra, ma francamente i due interventi di David a tempo di reggaethon se li poteva risparmiare. Neppure il breve assolo di slide di Bonnie nel finale riesce a risollevare del tutto le sorti della canzone, comunque piacevole, non vorrei dare una impressione di totale negatività.

3. Running On Empty – Bob Schneider

Bob Schneider, nativo del Michigan, cresciuto in Germania (il contrario di Browne, nato in Germania e cresciuto in California) e texano di adozione, è uno dei “nuovi” cantautori più interessanti. Si è preso una bella gatta da pelare, affrontando uno dei brani più belli e conosciuti della discografia di Jackson, Running On Empty comunque la metti è una canzone splendida e la bella voce di di Schneider, con l’ottimo controcanto di Brandon Kindner, interventi mirati di piano, chitarre elettriche ed acustiche, rende pienamente giustizia a questa stupenda ballata, una piacevole sorpresa.

4. Fountain Of Sorrow – Indigo Girls

Le Indigo Girls, da sempre grandissime fans, rilasciano una versione eccellente di Fountain Of Sorrow, forse il pezzo più bello di Late For The Sky, un disco peraltro dove non c’era una canzone non dico brutta ma di qualità media, Amy Ray e Emily Saliers la cantano in modo eccellente, da sole ed armonizzando, come è da sempre loro caratteristica e con una presenza sontuosa dell’organo e del piano di Chuck Leavell, veramente magico per l’occasione.

5. Doctor My Eyes – Paul Thorn

Paul Thorn, il cantautore-pugile, per chi non lo conosce, è uno dei migliori attualmente in circolazione, certamente da scoprire se non lo conoscete http://discoclub.myblog.it/tag/paul-thorn/. La sua versione di Doctor My Eyes è assolutamente da sentire, potente e coinvolgente, quasi a pari livello dell’originale (anche se quasi nessuno fa Jackson Browne meglio di Jackson Browne), con la slide di Bill Hinds a tagliare in due il brano e un organo malandrino a colorare il tutto.

6. For Everyman – Jimmy LaFave

Il padrone di casa, il texano LaFave, confeziona una versione stupenda di For Everyman, lunga, arrangiata in modo mirabile, con le chitarre e le tastiere che si integrano alla perfezione con il cantato pieno di passione di Jimmy, grandissima rilettura, con un finale in crescendo quando il violino di Todd Reynolds si impadronisce della melodia in modo imperioso!

7. Barricades Of Heaven – Griffin House

Griffin House è considerato uno dei “cloni” di Jackson, voce molto simile, lo stile pure, però è bravo, scrive delle belle canzoni e qui interpreta in modo mirabile Barricades Of Heaven, un brano che viene da Looking East, il disco del 1996, ma che ha la statura dei migliori di Browne, quelli del periodo d’oro, melodie avvolgenti, melodie che ti rimangono nel cuore e nel testa, interscambi strumentali che sono la storia della canzone della West Coast, ottima versione. Qualcuno dirà, ma sono tutte molto simili a quelle originali! Meglio, gli esperimenti lasciamoli agli altri, se le canzoni sono belle, facciamole bene, come si conviene.

8. Our Lady Of The Well – Lyle Lovett

E Lyle Lovett che è uno degli “eredi” di Browne, cantautore meraviglioso in proprio, uno dei migliori in assoluto, qui realizza una versione splendida di Our Lady Of The Well, se non sapessimo che il brano era su For Everyman potremmo quasi pensare ad un brano di Lovett, con il grande Matt Rollings al piano, e la sezione ritmica di Lee Sklar e Russ Kunkel, che ho come l’impressione mi debba dire qualcosa, Sara Watkins delicata alle armonie vocali e Dean Parks alla chitarra. Cantata in modo perfetto, accorato e partecipe, come richiede la canzone.

9. Jamaica Say You Will – Ben Harper

Ultimamente Ben Harper non mi fa più impazzire, anche se il disco con Musselwhite non è per niente male, però la sua versione di Jamaica Say You Will è veramente bella, cantata con leggiadra nonchalance, su una base di piano, dove mano a mano si inseriscono prima la ritmica poi violino e cello e le armonie vocali quasi gospel, rende pienamente merito all’originale.

10. Before The Deluge – Eliza Gilkyson

La Gilkyson, che ha recentemente pubblicato il suo nuovo disco, molto bello, The Nocturne Diaries, è una delle discendenti dirette della scuola delle grandi cantanti degli anni ’70, la prima Joni Mitchell su tutte, e la sua versione di Before The Deluge, altro brano splendido, la conferma interprete raffinata e di grande spessore, con una voce molto espressiva, ben servita per l’occasione da un arrangiamento dove ancora una volta il violino, Warren Hood, è lo strumento portante, ma chitarre, contrabbasso, dobro, elettrica e le immancabili armonie vocali sono elementi non secondari

11. For A Dancer – Venice

I Venice, come ricordano loro stessi nelle note del libretto, hanno cantato e suonato varie volte nel corso degli ultimi anni con Jackson Browne, e non potendo avere gli originali, i quattro fratelli Lennon ci regalano una versione alla CSN, tutta voci e chitarre acustiche, di For A Dancer, musica Westcoastiana all’ennesima potenza, evocativa e ben congegnata.

12. Looking Into You – Kevin Welch

Kevin Welch è un altro dei tanti “unsung heroes” , californiano di nascita ma di recente adozione texana, che costellano la scena musicale americana, bravo e sfortunato a livello commerciale, persiste a volerci regalare la sua arte, in questo caso con una versione intima di Looking Into You, solo il piano di Radoslav Lorkovic e l’organo di Red Young, più le magnifiche voci gospel delle McCrary Sisters. Originale e con la bella voce di Welch in evidenza.

Disco Due

1. Rock Me On The Water – Keb’ Mo’

Jackson Browne e Bonnie Raitt erano apparsi come ospiti nella bellissima title-track di Just Like You, uno dei dischi più belli del chitarrista e cantante afroamericano, ora Keb’ Mo’ rende il favore con una versione sontuosa di Rock Me On The Water, la voce calda e la slide in grande spolvero, oltre alle immancabili armonie vocali (una costante in moltissimi brani presenti in questo tributo).

2. The Pretender – Lucinda Williams

Qualcuno si è lamentato perché tra gli artisti presenti in questo tributo si notava la mancanza di Jonathan Wilson, uno degli epigoni migliori della musica californiana in cui Jackson Browne è maestro. Ma Wilson c’è, infatti sua è la produzione e molti degli strumenti presenti in questa ottima versione di The Pretender, eseguita peraltro magistralmente da una ispiratissima Lucinda Williams. Doug Pettibone ci aggiunge del suo con alcuni notevoli inserti chitarristici e il brano è uno dei migliori di questo tributo.

3. Rosie – Lyle Lovett

Lyle Lovett è l’unico artista presente con due brani e anche la versione di Rosie, uno dei brani “minori” (si fa per dire, ce n’erano?) di Running On Empty, è da manuale del perfetto “Browniano”, con le magnifiche armonie dei fratelli Watkins, Sara e Sean (stanno per tornare i Nickel Creek, a proposito) e di Peter Asher.

4. Something Fine – Karla Bonoff

A proposito di Peter Asher (il vecchio manager di Linda Ronstadt e James Taylor), anche i suoi due ex assistiti mancano all’appello, ma Karla Bonoff, che ha scritto molte delle canzoni più belle della California di quegli anni, viste da un punto di vista femminile, è una eccellente “sostituta”, in mancanza di termini migliori, con Nina Gerber alle chitarre acustiche e Wendy Waldman, altra mirabile interprete di quella musica, al piano, armonie vocali e produzione. Il risultato si potrebbe definire Something Fine.

5. Too Many Angels – Marc Cohn feat. Joan As Police Woman

Pure Marc Cohn si può far risalire a quella scuola di cantautori che due o tre cose da Jackson Browne le hanno imparate, la melodia e la costruzione dei brani potrebbero venire da quella parrocchia. Per la sua versione di Too Many Angels Cohn si è affidato agli arrangiamenti e alla produzione di Glenn Patscha degli Olabelle che gli ha creato un raffinatissimo costrutto musicale, uno dei più originali del disco, con David Mansfield a chitarra, viola e mandolino e le armonie vocali di Joan Wasser a girare attorno alla voce di Marc.

6. Your Bright Baby Blues – Sean and Sara Watkins

I fratelli Watkins se la cavano egregiamente in una versione struggente di Your Bright Baby Blue, cantata magnificamente da Sara, con Sean perfetta spalla, per una ennesima ottima rilettura che appare in questo tributo.

7. Linda Paloma – Bruce Springsteen and Patti Scialfa

Poteva mancare l’amico Bruce? Certo che no, e con la moglie Patty Scialfa al seguito, che canta, co-produce, con Ron Aiello, ma senza E Street Band, solo Nils Lofgren, nell’inconsueta veste di fisarmonicista. Ok, c’è anche Soozie Tyrell al violino. Le arie messicane non sono le prime che ti vengano da accostare a Springsteen, ma uno che ha cantato di Rosalita non avrà certo problemi a cantare di Paloma. Piacevole, anche se forse a momenti un po’ sopra le righe.

8. Call It A Loan – Shawn Colvin

Shawn Colvin, solo voce e chitarra acustica, presenta il lato più folk della musica di Jackson, un elemento spesso presente nella sua musica e che nei recenti album dal vivo Browne ha ripreso.

9. I’m Alive – Bruce Hornsby

Per I’m Alive Hornsby sfodera dulcimer, mandolino e violino, la strumentazione dei suoi brani più vicini al country/bluegrass, con l’aggiunta della seconda voce di Ruth Moody (di recente anche con Mark Knopfler). Il risultato è affascinante, un brano dove l’inventiva dell’arrangiamento apporta ulteriore fascino alla canzone originale.

10. Late For The Sky – Joan Osborne

Molto bella ancha la versione pianistica di Late For The Sky, la voce calda e corposa di Joan Osborne si adatta perfettamente al mood “autunnale” della canzone. Un altro dei moltissimi brani di spessore che costellano questo Looking Into You.

11. My Opening Farewell – JD Souther

La conclusione, “l’arrivederci”, è affidata ad un altro degli amici storici di Jackson Browne, quel John David Souther, vicino di casa del piano di sotto del nostro, con Glenn Frey, e co-autore di molti dei brani più belli degli Eagles, nonché autore di una manciata di bei dischi molto vicini alla poetica browniana, negli anni ’70 e ’80. My Opening Farewell, impreziosita da una tromba jazzata, conclude degnamente questo tributo dedicato al cantautore californiano.

Inutile dire che s’ha d’avere. Ora manca solo un bel cofanetto, magari ricco di inediti, dedicato all’opera omnia di Jackson Browne!

Bruno Conti

P.s. Video aggiunti dopo molto tempo, In effetti la data di uscita ufficiale è il 1° aprile e fine aprile in Gran Bretagna.

Non E’ Uno Scherzo Da 1° Aprile! Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne

jackson browne tribute

Looking Into You: A Tribute To Jackson Browne – 2 CD – Music Road Records/Ird

Non è uno scherzo da 1° di aprile, che sarebbe la data ufficiale di uscita di questo bellissimo tributo, ma è la pura realtà. In effetti ve ne parlo già da oggi (visto che il Blog, come da nome, è anche una vetrina informativa sulle uscite discografiche), in quanto, proprio da questa settimana, sul nostro territorio italico, per la serie “strano ma vero” è già disponibile per l’acquisto, in molti negozi selezionati, due settimane prima della uscita ufficiale, a cura della Music Road Records, l’etichetta di Jimmy LaFave. E il cast dei partecipanti è impressionante, come la qualità delle canzoni. Appena ho un attimo di tempo recensione completa, per il momento questa è la tracklist:

Disc One
1. These Days – Don Henley w/ Blind Pilot
2. Everywhere I Go – Bonnie Raitt and David Lindley
3. Running On Empty – Bob Schneider
4. Fountain Of Sorrow – Indigo Girls
5. Doctor My Eyes – Paul Thorn
6. For Everyman – Jimmy LaFave
7. Barricades Of Heaven – Griffin House
8. Our Lady Of The Well – Lyle Lovett
9. Jamaica Say You Will – Ben Harper
10. Before The Deluge – Eliza Gilkyson
11. For A Dancer – Venice
12. Looking Into You – Kevin Welch

Disc Two
1. Rock Me On The Water – Keb’ Mo’
2. The Pretender – Lucinda Williams
3. Rosie – Lyle Lovett
4. Something Fine – Karla Bonoff
5. Too Many Angels – Marc Cohn feat. Joan As Police Woman
6. Your Bright Baby Blues – Sean and Sara Watkins
7. Linda Paloma – Bruce Springsteen and Patti Scialfa
8. Call It A Loan – Shawn Colvin
9. I’m Alive – Bruce Hornsby
10. Late For The Sky – Joan Osborne
11. My Opening Farewell – JD Souther

Finalmente un tributo come si deve all’arte di uno dei migliori cantautori americani degli ultimi 40 anni, per il momento sentite che versione di These Days fa Don Henley con i Blind Pilot http://www.youtube.com/watch?v=6TFOvsNAnIE!

Bruno Conti

Novità Di Gennaio Parte Ia. Railroad Earth, Blackie And The Rodeo Kings, Mary Chapin Carpenter, Lucinda Williams, Mark Lanegan, Poco

railroad earth last of the outlawsblackie and the rodeo kings south

Con l’anno nuovo riparte la rubrica dedicata alle novità discografiche, dopo la lunga pausa, praticamente dalla prima decade di dicembre a metà gennaio non era più uscito quasi nulla, se non alcuni dischi “minori”, ma non per questo meno interessanti, recensiti con Post as hoc. Come pure alcuni dischi come Springsteen, Rosanne Cash (devo ammettere che, avendo visto finalmente la confezione della versione Deluxe singola di The River And The Thread, veramente bella, per una volta, sono d’accordo con la casa discografica che ha realizzato questa confezione, costa, ma ne vale la pena, oltre che per i contenuti eccellenti), Bocephus King e altri, sono stati recensiti in anteprima. Alcuni cofanetti di prossima uscita hanno avuto lo spazio delle anticipazioni a lunga gittata, per cui nel confermarvi che i tre dischi sopra citati, oltre al volume 12B della serie dei singoli della Motown sono usciti ieri, 14 gennaio, vediamo cosa altro c’è, diviso in due parti, visto che i titoli interessanti (almeno per il Blog, poi esce altro che non ci interessa) sono parecchi (e alcuni di questi sicuramente avranno diritto anche ad una recensione personalizzata)!

Dall’America il nuovo CD dei Railroad Earth, si chiama Last Of The Outlaws esce su etichetta Black Bear e conferma la band di Todd Sheaffer e John Skehan tra le più interessanti in ambito Bluegrass/Country/Rock/Jam http://www.youtube.com/watch?v=cKxYLjj6tdg  . Cè un lungo brano All That’s Dead May Live Again, diviso in quattro parti, che supera i dieci minuti di lunghezza e anche Grandfather Mountain sfiora i nove minuti, ma in alcuni brani mi sembra di scorgere anche un lavoro più rifinito e minuzioso a livello di canzoni, con dei brani che ricordano, per certi versi, anche i vecchi pezzi dei migliori Poco, quelli degli inizi, con un occhio pure alla melodia. Bel disco in ogni caso http://www.youtube.com/watch?v=5UzLANcRML4

Dal Canada arriva il nuovo disco, South, il settimo o l’ottavo (a seconda se Let’s Frolic e Let’s Frolic Again valgono per uno o per due) dei Blackie And The Rodeo Kings, dopo il bellissimo Kings And Queens del 2011, quello delle collaborazioni con tante voci femminili http://discoclub.myblog.it/2011/07/20/blackie-and-the-rodeo-kings-re-e-regine/. Questa volta Stephen Fearing, Colin Linden e Tom Wilson, in rigoroso ordine alfabetico, rivolgono la loro attenzione al suono del Sud degli Stati Uniti (anche se il primo brano si chiama North http://www.youtube.com/watch?v=VbI0pFbkEF0da qualche parte bisogna pur partire) e, manco a dirlo, ancora una volta centrano l’obiettivo, con la loro miscela di country, rock, roots music, un pizzico di blues, tre belle voci e penne http://www.youtube.com/watch?v=g8JvKDoQvi0 . L’etichetta non è più la gloriosa True North dei tempi passati e neppure la Dramatico dell’ultimo disco ma una nuova File Under Music, un nome, un auspicio, basta aggiungere good e poi partire alla ricerca del disco.

mary chapin carpenter songs from the movielucinda williams lucinda williams

Altre due uscite che riguardamo in questo caso voci femminili. Il primo è il nuovo disco di Mary Chapin Carpenter, Songs From The Movies, etichetta Zoe Music/Rounder/Universal, è uscito ieri 14 gennaio http://www.youtube.com/watch?v=McLl3UUl67k . Si tratta delle rivisitazione in chiave orchestrale di alcuni brani classici del repertorio della cantante americana, con gli arrangiamenti a cura di Vince Mendoza, una orchestra di 63 elementi e un coro di quindici, più la partecipazione, tra gli altri, di Peter Erskine, Luis Conte e Matt Rollings. Registrato agli Air Studios di Londra, proprio quelli fondati da Goerge Martin. Forse vi sarà capitato di leggere delle recensioni non particolarmente favorevoli dell’album, per non dire negative, dopo quelle entusiatiche che avevano accolto il precedente Ashes And Roses (http://discoclub.myblog.it/2012/06/10/un-gusto-acquisito-mary-chapin-carpenter-ashes-and-roses/), mentre altri, tra cui il famoso sito Allmusic, ne parlano in termini entustiatici. Come saprà chi legge questo Blog io sono un grande estimatore della cantante di Washington, DC (ma nata a Princeton, NJ) ma devo dire che questa volta, pur avendo sentito il disco un po’ frettolosamente sono più d’accordo con le recensioni negative, anche se non in modo radicale. In effetti è un po pallosetto, ma non così brutto e noioso come dipinto, e nessuna delle nuove versioni è superiore a quelle originali, insomma Joni Mitchell con Travelogue aveva fatto decisamente meglio. Comunque proverò a sentirlo meglio, in caso lo recensisco.

Per Lucinda Williams si tratta della ristampa, in versione doppia Deluxe, dell’omonimo Lucinda Williams, uscito in origine nel 1988 e poi ristampato una prima volta in CD nel 1998 per la Koch Records, con alcune bonus tracks. Si tratta del terzo album della discografia della Williams, quello con Passionate Kisses, brano casualmente portato al successo proprio dalla Mary Chapin Carpenter di cui leggete qui sopra http://www.youtube.com/watch?v=IMGMT3_Dx4k . E anche Changed The Locks aveva avuto una cover di pregio da parte di Tom Petty nella colonna sonora di She’s The One. Quindi un disco di quelli belli, da non confondere con i due acustici degli esordi registrati a cavallo fine anni ’70, primi anni ’80. Il remastering è stato finanziato con l’ormai collaudato sistema del crowdfunding attraverso Pledge Music e nel secondo dischetto c’è un intero concerto registrato a Eindhoven in Olanda nel 1989 con Gurf Morlix alla chitarra, più altri sei pezzi sempre registrati dal vivo per varie emittenti radiofoniche http://www.youtube.com/watch?v=g1sob8iICHw . Esce per la Thirty Tigers e costa poco più di un singolo, quindi direi che si può, anzi si deve, fare. Bello, anzi bellissimo!

mark lanegan has godpoco legend inidan summer

Per finire due ristampe, anzi una antologia con rarità e un twofer, 2in1.

Mark Lanegan esce con questo doppio Has God Seen My Shadow? An Anthology 1989-2011, pubblicata dalla benemerita Light In The Attic, raccoglie materiale tratto dai suoi album solisti e dalle varie collaborazioni, nel corso degli anni, con Isobel Campbell, Soulsavers, Queens Of The Stone Age e Gutter Twins, 20 brani in tutto, più un secondo dischetto con 12, dicasi dodici, brani inediti http://www.youtube.com/watch?v=t6Mex48Eixk . Questo il contenuto:

Disc 1:
Bombed
One Hundred Days
Come To Me
Mirrored
Pill Hill Serenade
One Way Street
Kimiko’s Dream House
Low
Resurrection Song
Shiloh Town
Creeping Coastline Of Lights
Lexington Slow Down
Last One In The World
Wheels
Mockingbirds
Wild Flowers
Sunrise
Carnival
Pendulum
The River Rise

Disc 2 (all previously unreleased):
Dream Lullabye
Leaving New River Blues
Sympathy
To Valencia Courthouse
A Song While Waiting
Blues For D (Vocal Version)
No Contestar
Big White Cloud
Following The Rain
Grey Goes Black
Halcyon Daze
Blues Run The Game (Live)
Anche questo costa all’incirca come un singolo, quindi, uomo avvisato…

Se ne parlava giusto sopra in riferimento ai Railroad Earth. Legend e Indian Summer dei Poco erano usciti negli anni ’90 e ’00 anche in versione CD, ma spesso in versioni non di grande qualità sonora, in qualche caso tratte dai dischi in vinile, a parte le edizioni giapponesi, spesso costose e di difficile reperibilità. Ora la BGO provvede a ristamparli in un unico dischetto che contiene entrambi gli album. Indian Summer, uscito in origine per la MCA nel 1977 http://www.youtube.com/watch?v=iZOuSSmkoaY (é questo quello con la ristampa orribile della Lemon, presa pari pari dal vinile) e Legend del 1978, sempre MCA, il disco di maggior successo della formazione americana http://www.youtube.com/watch?v=a1cZ05l5jrs . Forse gli ultimi due album decenti, anzi buoni, del grande gruppo country-rock per il quale ammetto una grande ammirazione, soprattutto per i dischi dal 1969 al 1974 su Epic (più il live del 1976) che secondo chi scrive, sono tra i migliori in assoluto usciti nel genere, bellissimi e spesso sottovalutati. E Keeping The Legend Alive uscito nel 2004 e poi di nuovo nel 2006 come Alive In The Heart Of The Night è un bellissimo disco dal vivo http://www.youtube.com/watch?v=yoPJdvowc5Y , con Paul Cotton, Rusty Young, George Grantham e Richie Furay in qualche brano, di nuovo in formazione, quasi la migliore formazione del gruppo dove negli anni hanno militato anche Jim Messina , Randy Meisner e Timothy B. Schmit. Se vi capita.

Alla prossima.

Bruno Conti

A Prescindere Dal Genere, Gran Disco! Over The Rhine – Meet Me At The Edge Of The World

over the rhine meet me.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Over The Rhine – Meet Me At The End Of The World – 2 CD – Great Speckled Bird 03/09/2013

Gli Over The Rhine sono uno dei miei gruppi preferiti delle ultime due decadi e non hanno mai sbagliato un disco dai loro esordi, avvenuti ad inizio anni ’90. Ogni album è un piccolo capolavoro della band dell’Ohio (dovrei dire duo, visto che ormai sono rimasti solo Linford Detweiler e Karin Bergquist, coppia nella musica e nella vita), forse il migliore in assoluto è Ohio del 2003 ma al sottoscritto era piacuto parecchio anche The Long Surrender del 2011 nuove-tecniche-di-sopravvivenza-over-the-rhine-the-long-surr.html, il primo disco che segnalava il nuovo corso di album autofinanziati con l’aiuto di fans e simpatizzanti, tramite le cosiddette Kickstarter Campaign. Con questo sistema il gruppo si è potuto permettere l’utilizzo di un produttore come Joe Henry (e relativi musicisti al seguito) e in due sessions avvenute tra fine marzo e i primi di aprile agli studi Garfield House di South Pasadena ha registrato questo piccolo doppio gioiello che si divide in due parti appunto: Sacred Ground nel primo CD e Blue Jean Sky nel secondo CD. Per onestà devo dire che il tutto supera di poco i 60 minuti e quindi ci sarebbe stato su un unico compact, ma al di là della non facile reperibilità, per essere prosaici, non lo fanno pagare neanche troppo. E il lato artistico compensa abbondantemente quello finanziario.

I dettagli sulla loro carriera li trovate al link sopra e anche un tentativo di definire il loro genere musicale è sempre un’impresa, direi che si parte dal folk come base, ma poi si aggiungono mille sfumature, anche in questo caso nel precedente Post ci provo. I musicisti utilizzati da Joe Henry sono all’incirca quelli del disco precedente, con Eric Heywood che sostituisce Greg Leisz alle chitarre, soprattutto pedal steel, ma anche slide ed elettrica e il grande Van Dyke Parks al posto di Keefus Cianca alla fisarmonica, Bellerose, Piltch (o la Condos, al basso) e Patrick Warren (tastiere) rimangono al loro posto. Sembrano particolari trascurabili ma i musicisti che suonano in un disco sono importanti. Se hai delle canzoni all’altezza della situazione, ovviamente. E anche questa volta gli Over The Rhine non smentiscono la loro fama di autori di piccole grande canzoni. Ne cito due per iniziare: Don’t Let The Bastards Get You Down, una ballata agrodolce e atmosferica, quasi mitchelliana, con la presenza dell’unica “ospite”  del CD, in questo caso è Aimee Mann, nel precedente, in Undamned era Lucinda Williams. L’altra è It Makes No Difference, l’unica cover del CD, una splendida rilettura del capolavoro di Robbie Robertson e della Band, con l’organo di Warren e il mandolino di Heywood (o è Mark Goldenberg? anche lui impegnato alle chitarre nel disco) a sostituire Garth Hudson e Levon Helm, il sound è molto, come potrei dire, “canadese”, con ancora la grande Joni Mitchell, o così mi pare, come punto di riferimento.

Il resto del disco non è da meno. Joe Henry, spesso e volentieri, utilizza la tecnica del double-tracking per raddoppiare la bellissima voce della Bergquist, magia nela quake erano maestri George Martin e i Beatles, non gente qualsiasi. A partire dalla struggente title-track che ricorda, a chi scrive, anche certe cose della bravissima Rosanne Cash, o il rock narcotico dei migliori Cowboy Junkies, tra steel, slide e tastiere maestose si dipana una canzone lenta ma inesorabile nella sua bellezza. Il piano e l’organo di Called Home ricordano di nuove le sonorità dei grandi canadesi (anche un pizzico del Neil Young più bucolico), sempre con la doppia voce di Karin a librarsi sul tutto, mentre una steel si fa largo con autorità. Sacred ground, con la fisarmonica di Van Dyke Parks sullo sfondo(e che si ascolta anche in molti altri brani) potrebbe riportarci alle atmosfere dolenti di una Lucinda Williams o anche di Mary Gauthier, altro spirito affine, sia per tipologia vocale che per le tematiche toccate. E pure I’d Want You ha questo spirito sognante e drammatico che potrebbe ricordare, se non per il tipo di voce, agli antipodi, almeno nel tessuto sonoro, l’incedere di certe canzoni del grande Leonard Cohen, per quell’aria malinconica ma mai doma, tipica del canadese, le tastiere, la fisa e le chitarre come al solito ricamano alla grande. Gonna let my soul catch my body è un gospel-rock mosso con una chitarra “cattiva” che cerca di farsi largo tra le pieghe del brano. All Of It Was Music potrebbe essere una sorta di manifesto del loro modus operandi, drammatico e sospeso, ricorda ancora la Gauthier ma anche le “chansons” franco-irlandesi-mitteleuropee di una Mary Coughlan (è ovvio che queste sono solo suggestioni del vostro fedele recensore) filtrate attraverso la penna della coppia dell’Ohio, fanno capolino anche un vibrafono e la solita steel malandrina. Highland Country è un’altra ballata sontuosa dallo spirito country, con il pianino di Detweiler e la sua voce di supporto al cantato suggestivo di Karen Bergquist, sottolineata dalle evoluzioni di una pedal steel magica, per cantare i panorami del loro amato Ohio. Anche Wait, come la precedente, non può non ricordare le canzoni più belle della Joni Mitchell della maturità, solenni e composite nel loro incedere. E siamo solo alla fine del primo CD.

Il secondo si apre con la lunga All Over Ohio, altro inno alla loro terra natia, Linford Detweiler per la prima volta sale al proscenio per duettare con la moglie Karin, la sua voce è piana e gentile, ma ben si accoppia con quella dolcissima della consorte, il brano cresce in modo lento e oscillante, con il consueto profluvio di chitarre e tastiere accarezzate con rispetto dai musicisti che poi lasciano il proscenio alla “doppia” Bergquist nella parte finale della canzone. A proposito di coppie, Earthbound Love Song è un sentito omaggio ad una delle grandi coppie della musica, Johnny Cash & June Carter, deliziosa e delicata come poche. Against The Grain è un’altra piccola meraviglia country-folk che scivola sulle corde di una chitarra acustica e sulla steel di Heywood. Della cover della Band abbiamo detto, Blue Jean Sky è un altro inno alla bellezza della musica e della vita, cantata con passione dalla coppia, mentre Cuyahoga è un’intramuscolo strumentale di poco più di un minuto, che meritava di essere sviluppata nei suoi tratti acidi à la Cowboy Junkies. Baby If This Is Nowhere si avventura con classe in territori Blues e Wildflower Bouquet potrebbe uscire da Ladies Of the canyon o Blue, quando i cantautori erano grandi, ed occasionalmente possono esserlo ancora (anche la giovane Laura Marling, si abbevera a questa fonte). Altro breve bozzetto, questa volta pianistico, Birds of nowhere e ci avviamo alla conclusione con Favorite Time Of Light, altra piccola meraviglia sonora con la fisarmonica di Van Dyke Parks e il mandolino di Goldenberg a guidare le danze, a conferma di tutte le delizie che si dipanano su questo Meet Me At The Edge Of The World, diciannove ottime canzoni (OK, 17 e due brevi strumentali) disco da quattro stellette che si candida fin d’ora tra i migliori dischi dell’anno 2013!

Bruno Conti

100 Anni + Uno! Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center

woody guthrie at 100 live.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Woody Guthrie At 100! Live At The Kennedy Center – CD+DVD – Sony Legacy

Lo scorso anno, il 14 luglio, si festeggiavano 100 anni dalla nascita di Woody Guthrie e il 14 ottobre al Kennedy Center di Washington, DC, si è tenuto un concerto per ricordare l’Anniversario. Hanno partecipato alcuni dei nomi più importanti della musica americana (ed uno scozzese in trasferta), folk, country, blues e bluegrass, di qualità in generale. Questo è il resoconto, track-by-track, del DVD che è stato ricavato dall’avvenimento, il CD dura 77 minuti, il DVD, una ventina di di più, ma visto che vengono venduti insieme, al prezzo di poco più di uno, vale lo sforzo dell’acquisto anche per coloro che sono contrari per principio all’acquisto dei DVD musicali, in fondo qui c’è anche il CD.

1. Howdi Do — Old Crow Medicine Show Vestiti come dei sopravvissuti al periodo della depressione i primi a presentarsi sul palco sono gli Old Crow Medicine Show di Ketch Secor, il sestetto procede a dimostrare perchè sono una delle migliori string bands in circolazione, in bilico tra country e bluegrass, come nella indiavolata 2. Union Maid — Old Crow Medicine Show

3. This Is Our Country Here — Jeff Daniels Il primo intermezzo parlato da parte di uno degli ospiti della serata viene seguito da quello che viene indicato come uno degli eredi migliori di Woody Guthrie (e di Bob Dylan), 4. Ramblin’ Reckless Hobo — Joel Rafael è un bellissimo bravo, reso in modo dylaniano come pochi altri sapranno fare nel corso della serata.

5. Hard Travelin’ – Jimmy LaFave Questo signore texano, in trio, con mandolino e fisarmonica si conferma uno dei migliori cantautori del panorama americana.

6. Riding In My Car — Donovan Visto che il bardo di Duluth non era disponibile per la serata la cosa più vicina era il menestrello scozzese, Donovan Leitch si conferma ancora una volta animale da palcoscenico facendo cantare il pubblico con la sua disincantata simpatia e una canzone presa dal repertorio di Woody per bambini, incisa per la prima volta nel 1965.

7. I Ain’t Got No Home — Rosanne Cash with John Leventhal In rappresentanza della famiglia Cash, Rosanne, accompagnata dal marito John Leventhal e dalla sua bellissima voce regala una dei momenti salienti della serata con una canzone che lei stessa definisce perfetta, e quella che segue 8. Pretty Boy Floyd — Rosanne Cash with John Leventhal non è da meno, uno dei capolavori assoluti di Guthrie, con un po’ del boom chicka boom di babbo John nella chitarra di Leventhal

9. I’ve Got To Know — Sweet Honey In The Rock In rappresentanza del gospel e della città di Washington, con i loro intrecci vocali ancora integri dopo una lunghissima carriera.

10. House Of Earth — Lucinda Williams Alle prese con un inedito consegnatole da Nora Guthrie pochi mesi prima e completato per l’occasione, il brano viene eseguito dal vivo per l’occasione e per la prima volta dalla Williams, bella versione, anche se molti non amano Lucinda!

11. Pastures Of Plenty — Judy Collins Un altro dei brani folk più celebri di Woody Guthrie eseguito da una delle leggende di questa musica e da una delle voci più incredibili mai espresse dal genere ancora stupenda dopo tutti questi anni, solo piano, chitarra acustica e voce, grande versione.

12. Ease My Revolutionary Mind — Tom Morello Ovviamente il chitarrista dei Rage Against The Machine, grande amico e collaboratore di Springsteen e cantante folk, non necessariamente nell’ordine, sceglie uno dei brani più politici e di “battaglia politica” del cantante di Okemah e si presenta sul palco con una band “springsteeniana” composta da molti dei protagonisti della serata, in particolare molti Old Crow Medicine Show e Jackson Browne che tornerà più tardi, un altro dei momenti migliori della serata. 

13. Deportee — Ani DiFranco with Ry Cooder and Dan Gellert Altro grandissimo chitarrista al servizio di una delle cantautrici più valide delle ultime generazioni alle prese con un’altra canzone bellissima (ma ce ne sono di brutte) e forse la preferita in assoluto di chi scrive del repertorio di Guthrie. Il violino di Gellert e la chitarra “discreata” di Cooder aggiungono magia ad una canzone che Ani DiFranco canta benissimo, con rispetto e partecipazione, come è giusto che sua.  

14. I Hate A Song (spoken word) — Jeff Daniels Secondo ed ultimo intervento parlato da parte del noto attore americano

15. You Know The Night — Jackson Browne Un altro degli highlights della serata, Jackson è già apparso in altri tributi alla musica di Woody Guthrie e anche in questa serata conferma la sua classe, un altro brano “inedito” completato da Browne, con il grande Rob Wasserman al contrabbasso, che per ragioni televisive non appare nella versione monstre da 20 minuti che era stata pubblicata su Note Of Hope, bellissima comunque!

16. So Long, It’s Been Good To Know Yuh — Del McCoury Band with Tim O’Brien Di nuovo country e bluegrass per una delle migliori formazione nel genere, aumentata per l’occasione da Tim O’Brien nel primo brano e da Tony Trischka per lo strumentale 17. Woody’s Rag.

18. Do Re Mi — John Mellencamp C’era già 25 anni in A Vision Shared e canta di nuovo lo stesso brano, ma è uno dei più celebri e coinvolgenti del repertorio di Guthrie, chi meglio dell’ex “Coguaro” Mellencamp per eseguirlo?

19. 1913 Massacre — Ramblin’ Jack Elliott Altro pezzo da 90 sul palco per un altro dei cavalli di battaglia del repertorio di entrambi, la cui melodia venne usata da Dylan per scrivere la prima canzone da lui incisa, Song For Woody. Ramblin’ Jack Elliott gli 80 li ha passati da un pezzo e non si direbbe (o forse sì?) ma rimane un grande e merita rispetto.

20. Nora Guthrie (spoken word) Un breve saluto dalla figlia e poi tutti insieme appassionatamente sul palco per il gran finale con i due brani più celebri, tra cui il secondo inno americano.

21. This Train Is Bound For Glory — All Performers

22. This Land Is Your Land — All Performers

Bella serata, da avere!

Bruno Conti

Reload – Sono Solo Tre Parole: Gran Bel Disco. Beth Hart & Joe Bonamassa – Seesaw

beth hart bonamassa seesaw..jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Beth Hart & Joe Bonamassa – Seesaw –  Mascot/Provogue 21-05-2013

Questa recensione era apparsa sul Blog all’incirca un mese fa, ma ora, nell’imminenza dell’uscita, il prossimo martedì, la ripropongo per chi non l’aveva letta o, giustamente, l’ha dimenticata. Il disco merita, è uno dei migliori di questo scorcio di stagione: confermo i musicisti e gli autori ed interpreti dei brani originali.Ho anche aggiunto dei video che nel frattempo si sono resi disponibili.

Per avere un incipit di “classe” ormai è usanza citare qualche estratto dal “Paradiso perduto” di Milton o dal Siddharta, oppure fare riferimento all’opera di registi o scrittori emergenti, meglio se oscuri, ma trattandosi di canzonette, come era solito dire quel chirurgo e chansonnier milanese, o se preferite It’s Only Rock and Roll, dall’opera dei Glimmer Twins, noti maestri di pensiero, preferisco aprire questa recensione con una citazione colta (?!?) mutuata da un tormentone di qualche estate orsono, “Sono solo tre parole”: gran bel disco. Perché anche questo secondo capitolo della collaborazione tra Beth Hart e Joe Bonamassa ruota intorno ad un ingrediente indispensabile per fare della buona musica: le canzoni, meglio se belle e durature nel tempo. In Don’t explain, la fatica precedente, ce ne erano parecchie, direi quasi tutte, e anche in questo nuovo Seesaw la coppia è andata pescare nel songbook internazionale con un mix di brani celebri e proposte inconsuete. Il risultato è assolutamente garantito. Prendete una cantante “esagerata” ma dotata di gran classe e con una voce fantastica – probabilmente anche lei, da piccina, come Van Morrison, ha inavvertitamente inghiottito un microfono e le è rimasta questa voce incredibile, tra le più potenti ed espressive in circolazione al momento, come posso testimoniare di persona, avendola vista recentemente nella sua unica data a Milano – di nome fa Beth Hart e viene dalla California, lui, Joe Bonamassa, è un chitarrista con una tecnica incredibile, in grado di spaziare dall’hard rock più selvaggio al Blues, dalla musica acustica al funky jazz, passando, come in questo album, per il soul, il jazz classico e la canzone d’autore, con una facilità disarmante.

Premetto che sto ascoltando questo album in netto anticipo sulla sua data di uscita e quindi non ho nessuna informazione sulle note relative a musicisti, produttori, autori dei brani e quant’altro (nel frattempo però ho recuperato i musicisti: Anton Fig (drums, percussion), Blondie Chaplin (guitar), e Carmine Rojas (bass), Arlan Schierbaum (keyboards), Lenny Castro percussion e Michael Rhodes basso in I’ll Love You More Than You’ll Ever Know, produce Kevin Shirley, registrato a gennaio in California), ma le orecchie per sentire ce le ho e quello che sto ascoltando mi piace, e non poco. Il disco precedente aveva una qualità media molto elevata, con una punta di eccellenza nella cover incredibile di I’d Rather Go Blind (ripresa dal vivo anche con Jeff Beck al tributo a Buddy Guy, ma che a Milano, purtroppo, non ha eseguito, concerto bellissimo comunque), cantata in modo sublime dalla Hart. Nel nuovo album la prima cosa che salta all’occhio, o meglio all’orecchio, è la presenza costante dei fiati che aggiungono ulteriore vivacità ad un sound che pesca molto dai classici e lo fa in modo brillante ma rispettoso della tradizione.

Prendiamo l’iniziale Them There Eyes, l’immancabile omaggio all’arte della inarrivabile Billie Holiday (già rivisitata nel precedente album con la title-track): in un tripudio swingante di fiati Beth estrae dal cilindro una “vocina” maliziosa ed ammiccante, mentre Bonamassa fa il Les Paul o il Charlie Christian della situazione, con una chitarra ad impatto zero ed il risultato è divertente e divertito, con i musicisti che godono della loro complicità. Close To My Fire è una scelta spiazzante, si tratta di un brano scritto da due DJ tedeschi, tali Slackwax e salito agli onori della cronaca per uno spot di una nota marca di automobili tedesche un paio di anni fa, questa versione sembra presa di sana pianta dagli anni d’oro del R&B e del soul, arrangiamento con fiati all’unisono, chitarrina old fashioned, la solita voce piena di confidenza, misurata ma al contempo libera di esprimere la sua gioia di cantare (il tratto più evidente della personalità della Hart), una canzoncina semplice semplice ma che non puoi fare a meno di apprezzare proprio per questo.

Quando partono le prime note di Nutbush Bush City Limits e soprattutto l’attacco della voce, non si può evitare, ancora una volta, di meravigliarsi della potenza vocale di questa cantante, che fa impallidire anche quella di una Tina Turner dei tempi d’oro e Bonamassa comincia a scaldare le corde della sua chitarra mentre tutto il gruppo, fiati e voci di supporto incluse, infiamma questa poderosa esecuzione. Per il primo album dei Blood, Sweat & Tears, Child Is Father To The Man, Al Kooper scrisse una bellissima slow ballad con uso di fiati, I Love You More Than You’ll Ever Know, un blues atmosferico (famoso anche nella interpretazione di Donny Hathaway) che si adatta come un vecchio calzino (citazione claptoniana) alla voce e alla chitarra della coppia in questione, una versione di grande spessore con la Hart a livelli stratosferici, che voce ragazzi e che interpretazione (lei dice che l’ha riscoperta tramite Amy Winehouse che spesso la cantava dal vivo)! Versione sontuosa anche per un brano di Lucinda Williams, una Can’t Let Go che diventa un blues a trazione slide con Bonamassa a fare il Ry Cooder della situazione e una fisarmonica (Arlan Schierbaum?) a spalleggiarlo in modo adeguato, mentre Beth canta come se lo spirito di Bonnie Raitt si fosse impossessato del suo corpo ma non delle corde vocali, che sono in piena forma jopliniana. Miss Lady è un tiratissimo rock-blues con i fiati di Buddy Miles dove Bonamassa fa i numeri con il wah-wah mentre If I Tell You I Love You è un nuovo incontro con il repertorio vagamente valzer musette di Melody Gardot, una fisarmonica e il cantato mitteleuropeo rievocano paragoni con la grande irlandese Mary Coughlan.

Rhymes, dal repertorio di Al Green e nuovamente Etta James, diventa un altro potente brano rock-blues, sia pure screziato da fiati soul, e con un sound vocale molto à la Delaney & Bonnie o Tedeschi Trucks Band con Bonamassa che per una volta non si trattiene. Prosegue la accoppiata soul e rock, dove la voce di Beth Hart ha modo di splendere: prima una A Sunday Kind Of Love dal repertorio di Etta James, misurata e splendida e poi un salto ad ugola spianata nel repertorio della Queen Of Soul, con una Seesaw scritta da Clarence Carter ma che tutti ricordiamo nella versione di Aretha Franklin, con Bonamassa che fa il Clapton o il Duane Allman della situazione. Conclude uno splendido disco la versione deliziosa di uno dei classici della canzone all time, la seconda interpretazione di un brano di Billie Holiday presente nel CD, l’immortale Strange Fruit, proprio in un disco dove la Canzone con la C maiuscola è la protagonista e la voce della Hart si conferma come delle più credibili dell’attuale panorama musicale, se ben accompagnata, una delle poche in grado di reggere i paragoni con le grandi del passato!

Ci sarà anche la solita versione Deluxe con il DVD con Making Of di oltre 40 minuti e tre video di Nutbush, Rhymes e Strange Fruit, poi a giugno la coppia farà un mini tour europeo e in Olanda le due date verranno incise per un futuro CD/DVD Live  (per non abbassare, giustamente, la media di uscite di Joe Bonamassa)!

Bruno Conti     

Meglio Tardi Che Mai! Steve Earle & The Dukes (& Duchesses) – The Low Highway

steve earl the low highway.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Steve Earle – The Low Highway – New West Records 2013 – Deluxe Edition CD/DVD

Per un disguido con il titolare di questo pregevole blog (Bruno), colpevolmente mi accingo a parlarvi solo ora di questo The Low Highway, quindicesimo lavoro nella ormai quasi trentennale carriera discografica di Steve Earle. Originario della Virginia, ma cresciuto a San Antonio, Texas, Earle è certamente uno dei più importanti nomi della scena country-rock-roots americana. Il suo stile musicale, per i pochi che ancora (spero) non lo conoscono, si collega ai grandi della canzone di Nashville, in special modo al compianto Johnny Cash (alle origini), ma successivamente si “abbevera” da rocker come Fogerty, Mellencamp e naturalmente Springsteen. Il buon Steve aveva cominciato a suonare intorno ai vent’anni (apparendo già nel 1975 nel famoso film Heartworn Highways, a fianco di Townes Van Zandt, Guy Clark e dei giovani, come lui, Rodney Crowell e John Hiatt) e ad esibirsi poi con un proprio gruppo, The Dukes (ancora oggi la sua backing band), e nel lontano ’86 firmava per la famosa MCA, esordendo con Guitar Town (ma prima erano uscite le prime registrazioni come Early Tracks), cui fa seguito uno dei suoi capolavori, Copperhead Road (88) che annovera fra gli ospiti i Pogues dello “sdentato” Shane MacGowan ela brava Maria McKee.

Nel successivo decennio accentua la sua inclinazione per il rock con The Hard Way (90), centrando il bersaglio nuovamente con il magnifico live Shut Up And Die Like An Aviator (91), dove oltre ai suoi classici, rivisita Dead Flowers dei Rolling Stones, She’s About A Mover del Sir Douglas Quintet e Blue Yodel # 9 di Jimmie Rodgers, regalando un “sound” di purissimo rock americano (per merito anche dei fidi Dukes). In seguito incappa in un brutto periodo artistico e personale e viene arrestato per tentata rapina a mano armata (indotta dall’incessante bisogno di denaro per droga e alcol), e passa più di un anno in carcere. Il ritorno discografico avviene con Train A Comin’ (95), un album totalmente acustico, mentre la sua ritrovata vena artistica è confermata anche dal seguente I Feel Alright (96) dove spicca You’re Still Standin’ There in duetto con la grande Lucinda Williams. Con The Mountain (99, realizzato con l’ensemble bluegrass della Del McCoury Band, inizia il decennio folk-rock, che trova l’apice nel seguente Transcedental Blues (2000) e in particolare con Jerusalem (2002) e The Revolution Starts Now (2004) dai forti contenuti politici e saltiamo gli ultimi dieci anni per non farla troppo lunga, ma Townes, il doveroso tributo al suo mentore almeno una citazione la merita!

Questo The Low Highway prodotto dallo stesso Earle con Ray Kennedy, vede il determinante apporto dei nuovi Dukes (Chris Masterson alle chitarre e pedal steel, Will Rigby alla batteria, Kelley Looney al basso) e una nutrita rappresentanza femminile, le cosiddette Duchesses, la moglie Allison Moorer alle tastiere, fisarmonica e voce, Eleanor Whitmore moglie di Chris (ovvero The Mastersons) al violino e mandolino, e Lucia Micarelli e Siobhan Kennedy (moglie del produttore) alle armonie vocali, e il disco ci riconsegna un cantautore ancora in grado di scrivere grandi canzoni, partendo dall’iniziale title track The Low Highway, dal folk blues della conclusiva Remember Me, prima di spaziare con disinvoltura fra il rock di 21st Century Blues, il country di Down The Road Pt II, il blues-rock di Calico County, per poi passare alla fisarmonica zydeco di That All You Got? (in duetto con la moglie) al piano old-style di Pocket Full Of Rain, al trascinante violino irlandese e banjo nel bluegrass di Warren Hellman’s Banjo, e riproponendo Love’s Gonna Blow My Way e After Mardi Gras, brani comparsi nella serie televisiva americana Treme (ambientata nella New Orleans post Katrina), il secondo scritto proprio per Lucia Micarelli, anche ottima violinista classica e presente con lui nel tributo a Dylan per Amnesty, Chimes of Freedom.

Steve Earle (58 anni, sette mogli e tre figli se non ho perso il conto), nonostante una vita vissuta sempre sopra le righe (la dipendenza dalla droga, gli arresti, la detenzione e una difficile e sofferta disintossicazione), di album davvero sbagliati non ne ha mai fatti, e in questo The Low Highway c’è materiale a sufficienza per confermarlo come uno dei personaggi più rappresentativi  della musica “Americana” degli ultimi trent’anni.

Tino Montanari

*NDT: Questa Deluxe Edition, esce, come al solito in una versione ampliata con il DVD che include il “making of” del disco e il video di Invisible.