Non “Solo” Una Ristampa, Un Piccolo Tesoro Ritrovato E Potenziato. Roy Buchanan – Live At Town Hall

roy buchanan live at town hall

Roy Buchanan – Live At Town Hall – 2 CD Real Gone Music

Come chi legge questo blog avrà sicuramente notato, leggendo i vari Post dedicati ad alcuni album, più o meno ufficiali, pubblicati negli ultimi anni, https://discoclub.myblog.it/2016/01/02/dal-vivo-raro-formidabile-roy-buchanan-lonely-nights-my-fathers-place-1977/ e https://discoclub.myblog.it/2017/04/02/sempre-piu-raro-formidabile-e-sconosciuto-anche-a-quasi-30-anni-dalla-morte-roy-buchanan-telemaster-live-in-75/, il sottoscritto considera Roy Buchanan uno dei più grandi chitarristi che abbiano mai graziato l’orbe terracqueo e i suoi palchi e studi di registrazione, sin dalla nascita del R&R (infatti le sue prime registrazioni risalgono addirittura al 1957), meritandosi gli appellativi, entrambi meritati per diversi ragioni, di “Master Of The Telecaster” e di essere “il più grande chitarrista sconosciuto del mondo”. Se volete approfondire andate a rileggervi le varie recensioni che gli ho dedicato e quindi entriamo direttamente nei contenuti di questo splendido Live A Town Hall, non prima comunque di una breve premessa. La carriera solista di Buchanan, dopo una lunghissima carriera di sideman, tracciata, almeno negli anni iniziali in https://discoclub.myblog.it/2016/08/24/completare-la-storia-roy-buchanan-the-genius-of-the-guitar-his-early-recordings/ e da varie frequentazioni, anche con Jimi Hendrix, che condurranno ad inizio anni ’70 ad un contratto con la Polydor ed a essere tra i papabili ad entrare negli Stones a sostituire Mick Taylor: i primi quattro album di studio, soprattutto il secondo e il terzo, entrambi pubblicati nel 1973, cementano la sua reputazione e molti colleghi lo citano come un influenza, Jeff Beck, Gary Moore, Danny Gatton, Arlen Roth, Jerry Garcia e svariati altri, ed è proprio con l’album che doveva concludere il suo contratto con la Polydor, Live Stock, che Roy Buchanan realizza il suo miglior disco e anche quello di maggior successo.

Registrato nel novembre del 1974 alla Town Hall e pubblicato l’anno dopo, il disco avrebbe dovuto essere un doppio dal vivo, ma l’etichetta preferì pubblicare un singolo album, comunque formidabile, con soli sei brani tratti da quella serata, più uno registrato all’Amazingrace Coffeehouse, di  Evanston (IL), invece dei due set completi che contavano su ben 21 brani. A distanza di oltre 40 anni da quell’evento la Real Gone Music ha affidato la produzione di questa ristampa a Bill Levenson, uno dei maggiori specialisti nel lavoro di recupero e rimasterizzazione di album classici (tra gli artisti che hanno usufruito del suo lavoro Cream, Eric Clapton, Allman Brothers, B.B. King, giusto per citarne alcuni) che ha fatto un lavoro splendido nel restaurare le due differenti esibizioni di quel fatidico 27 novembre del 1974 a New York. Nella ottima band che accompagna Buchanan, oltre a Malcolm Lukens alle tastiere, John Harrison al basso e Ronnie “Byrd” Foster alla batteria, spicca un giovane Billy Price ala voce solista, di cui di recente vi ho magnificato l’ultimo album in studiohttps://discoclub.myblog.it/2018/07/24/cantanti-cosi-non-ne-fanno-piu-billy-price-reckoning/ .

Il primo CD si apre con un poderoso R&R firmato dallo stesso Roy, una scintillante Done Your Daddy Dirty, un brano strumentale dove Buchanan comincia a scaldare la sua Telecaster a furia di riff e brevi assoli, con quello stile unico e impossibile da imitare con la chitarra che inizia a seguire quelle sue traiettorie sonore ai limiti dell’umano, segue Reelin’& Rockin, swingata e brillante, cantata in modo brillante da Price, un altro strumentale delizioso come la sinuosa Hot Cha, tra rock e soul, e poi ancora la sua versione eccellente di Further On Up The Road, un classico di Clapton, ma sentite come la fa il nostro amico. A questo punto del  concerto arriva uno dei suoi cavalli di battaglia assoluti Roy’s Bluz, che come i tre precedenti era nel Live Stock originale, nella stessa sequenza, un blues lento eccezionale, preceduto da un breve cantato di Buchanan, che, diciamolo, era un cantante francamente scarso, ma sentite come suona la sua solista, quasi posseduto da un’altra entità, con scale musicali impossibili, sonorità lancinanti, miagolii, strepiti e fragori chitarristici che fanno rizzare i peli sulla nuca (degli altri colleghi) e un crescendo sonoro fenomenale, otto minuti di pura magia, sentire per credere. E anche la successiva Can I Change My Mind, per usare un eufemismo, non è niente male, un glorioso R&B cantato splendidamente da Price, prima di arrivare alla sua versione di Hey Joe di Jimi Hendrix, che non era nell’album originale, una rilettura colossale, Buchanan è stato uno dei pochissimi, forse l’unico che poteva suonare i brani di Jimi. (quasi) meglio dell’originale, anche perché era arrivato alle stesse soluzione sonore, in particolare l’uso forsennato del wah-wah, quasi contemporaneamente al mancino di Seattle, che peraltro ammirava e rispettava.

Un attimo per riprenderci con la leggera Too Many Drivers e poi si riprende alla grande con un’altra rilettura quasi criminale e illegale nella sua bellezza, Down By The River di Neil Young, un fiume di note in un crescendo inarrestabile e dolcissimo che probabilmente, forse, supera pure  l’originale del canadese, anche per il cantato veramente ispirato di Price, altri nove minuti memorabili. E che dire di I’m A Ram, presente nel Live Stock originale, altro blues-rock lancinante dal repertorio di Al Green, la suadente In the Beginning, un altro strumentale, quasi alla Santo & Johnny, quasi, e per concludere il primo dischetto un altro lentone veramente splendido e raffinato come Driftin’ & Driftin’, sempre costruito intorno ai crescendo strumentali quasi preternaturali della sua chitarra. Il secondo concerto si apre con un altro blues di quelli folgoranti come I’m Evil, altro brano dove la sua Telecaster viene strapazzata e portata ancora una volta ai limiti delle capacità tecniche del 99% dei chitarristi viventi e vissuti. Poi troviamo altre differenti, ma sempre ottime,  versioni di Too Many Drivers, Done Your Daddy Dirty, Roy’s Bluz, ancora più indemoniata del precedente set, Furthre On Up The Road, Hey Joe, Can I Change My Mind, In The Beginning e per concludere in gloria il tutto, in omaggio a B.B. King, una sontuosa All Over Again (I’ve Got A Mind to Give Up Living), un altro lunghissimo  slow blues di nuovo cantato con passione da Billy Price e con Roy Buchanan che inchioda un’altra performance da sballo alla solista, fluida, ricca di inventiva, dal timbro unico, e con una tecnica e un misto di  feeling e finezza veramente sopraffini, per quello che è stato, devo ribadirlo, uno dei più grandi chitarristi della storia del rock, conosciuti e sconosciuti, qui ai suoi vertici assoluti. Mi tocca, ma ci sta: ristampa imperdibile!

Bruno Conti

Nessun “Paradosso”, Solo Grande Musica! Neil Young – Roxy: Tonight’s The Night Live

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Neil Young – Roxy: Tonight’s The Night Live – Reprise/Warner CD – LP

Il titolo del post è un gioco di parole che coinvolge anche l’altro album pubblicato da Neil Young in questo mese di Aprile, cioè la colonna sonora del film Paradox, un disco strano, non brutto ma dalla qualità altalenante come ho avuto modo di illustrare nella mia disamina di tre settimane fa circa https://discoclub.myblog.it/2018/04/02/una-colonna-sonora-strana-ma-qualcuno-si-aspettava-il-contrario-neil-young-promise-of-the-real-paradox/ . Invece questo Roxy: Tonight’s The Night Live, nuovo episodio tratto dagli archivi del musicista canadese, è un album bellissimo senza se e senza ma, preso da un concerto del 1973 tenuto dal nostro nella settimana di apertura del mitico Roxy Theatre di Los Angeles (una venue nella quale verranno registrati una lunga serie di lavori da parte di una moltitudine di artisti, per esempio il recente cofanetto di Frank Zappa). Come il titolo lascia intuire, in quella serata Neil ed i suoi Santa Monica Flyers (una versione allargata dei Crazy Horse, con la sezione ritmica di Billy Talbot e Ralph Molina affiancata da Ben Keith alla steel guitar e da Nils Lofgren stranamente al pianoforte, propongono in anteprima l’album Tonight’s The Night, che originariamente sarebbe dovuto uscire proprio in quelle settimane, ma poi venne posticipato al 1975 dato che la Reprise era un po’ spaventata dalla natura poco commerciale del disco.

Tonight’s The Night è infatti il lavoro più drammatico di Young, il punto più alto della cosiddetta “trilogia del dolore” (insieme a Time Fades Away e On The Beach), un album con testi cupi e senza speranza che parlano di morte, ispirati dalle premature scomparse del roadie Bruce Berry e del chitarrista del Cavallo Pazzo Danny Whitten, un disco in cui Neil non si preoccupa di mettere a nudo la sua fragilità ed il fatto che la sua voce suoni spesso stonata o ubriaca. Durante la serata al Roxy le cose sono in parte diverse, in quanto sia Young che la band sembrano più sobri (ho detto sembrano), i suoni sono forti, centrati e più rock che sul disco in studio, e le stonature vocali sono limitate al minimo sindacale. In più Neil tende a sdrammatizzare i temi trattati con brevi e divertiti monologhi in cui affronta svariati argomenti (da Perry Como a David Geffen, che oltre ad essere il famoso discografico che tutti conosciamo e il suo manager, era anche uno dei soci fondatori del Roxy), e la performance risulta dunque splendida, dato che comunque Tonight’s The Night è sempre stato un grande disco. I brani sono presentati non nell’ordine che verrà dato nella versione in studio del 1975, e mancano anche tre canzoni che finiranno sull’album ma che non fanno parte di quelle sessions (Come On Baby, Let’s Go Downtown, Borrowed Tune e Lookout Joe), ma quello che c’è basta ed avanza, ed è eccellente: si comincia ovviamente con Tonight’s The Night, la canzone, una lettura lunga, solida e vigorosa, tra le più riuscite tra quelle da me sentite negli anni, molto più rock che in studio e con Lofgren che si destreggia ottimamente al piano.

Dopo un breve accenno al divertente brano popolare Roll Out The Barrel (o Beer Barrel Polka, da noi nota come Rosamunda), abbiamo una bellissima Mellow My Mind, ballata tipica di Neil, tra rock e country e cantata con sforzo vocale notevole, seguita dalla roccata e pressante World On A String, uno dei classici minori del nostro, che ancora oggi la ripropone dal vivo ogni tanto.  Speakin’ Out è un gustoso slow blues con notevoli performance di chitarra e piano (il Lofgren pianista è, almeno per me, una sorpresa), Albuquerque una fluida ballad tipicamente californiana, che profuma di tramonti sul Laurel Canyon e di grigliate a base di peyote https://www.youtube.com/watch?v=UCWD9Qq4-Fc , mentre la breve New Mama vede Neil solo all’acustica (ma con piano e coro alle spalle) per un folk blues puro e cristallino, dall’aura malinconica. L’honky-tonk elettrico ed un po’ sbilenco Roll Another Number (For The Road) è sempre stata una delle mie preferite, e questa splendida versione e perfino superiore a quella “ubriaca” che finirà poi sul disco; la performance di Tonight’s The Night volge al termine, ma c’è ancora spazio per la tristissima Tired Eyes, una delle canzoni più drammatiche di Young https://www.youtube.com/watch?v=BPDvY6-mU0M , e per una ripresa della title track, che però dura praticamente quanto quella messa in apertura. Come bonus abbiamo una elettrica e vibrante Walk On, anch’essa all’epoca sconosciuta (finirà l’anno successivo su On The Beachhttps://www.youtube.com/watch?v=wNNAc9V_jJU . Quando Neil Young attinge ai suoi archivi non sbaglia un colpo, e questo nuovo episodio live è uno dei più brillanti, oltre ad essere un documento di grande valore storico.

Marco Verdi

Il Gabbiano Jonathan Vola Sempre Alto! Jonathan Wilson – Rare Birds

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Jonathan Wilson – Rare Birds – Bella Union Records

La prima volta che vidi sul palco Jonathan Wilson non sapevo neppure chi fosse. Mi trovavo con alcuni amici a San Sebastian per assistere ad un concerto di Jackson Browne , che, per l’occasione, doveva suonare insieme alla giovane band californiana dei Dawes, talentuosi esordienti il cui secondo disco, Nothing Is Wrong, era stato prodotto proprio da Jonathan Wilson. Il calendario datava 24 luglio ma sembrava ottobre inoltrato, la magnifica spiaggia su cui torreggiava il grande palco del festival Jazzaldia era zuppa per la pioggia che era caduta quasi incessantemente tutto il giorno, accompagnata dal vento freddo proveniente dall’oceano. A riscaldarci furono prima gli stessi Dawes, con un’esibizione sanguigna e coinvolgente, poi, a mezzanotte e mezza passata (ma per gli spagnoli è ancora presto…), il buon Jackson con i suoi classici immortali, supportato egregiamente dal gruppo dei fratelli Goldsmith e dal loro produttore. Alto e magro, capello lungo e barba incolta, Wilson sembrava una di quelle tipiche icone californiane degli anni settanta. Mostrò subito la stoffa del leader, come ottimo chitarrista e corista, e Browne gli cedette la scena per fargli eseguire Gentle Spirit, la lunga e affascinante ballad che dà il titolo all’ album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ .

Esattamente due anni dopo la scena si è ripetuta al Carroponte, spazio concertistico alle porte di Milano, con la sostanziale differenza che stavolta Jonathan era l’unico protagonista della serata con la sua band. Io, gli amici e ciascuno dei presenti ci siamo goduti un’esibizione esaltante di rock imbevuto di psichedelia e divagazioni folk di chiara matrice californiana. I brani, spesso dilatati da pregevoli parti strumentali in cui giganteggiava la chitarra del leader, ben coadiuvato dai suoi compagni, davano l’idea di un musicista maturo, abile riesumatore di suoni del passato assemblati con gusto ed intelligenza. Questa impressione fu pienamente confermata dall’uscita del successivo album Fanfare, nell’ottobre del 2013, che fece incetta di critiche positive un po’ ovunque, generando al contempo un equivoco che perdura ancora oggi, ovvero il considerare Jonathan Wilson come una sorta di erede del suono californiano degli anni d’oro di quella comunità di musicisti che si era formata nei dintorni di Los Angeles nell’area di Laurel Canyon (dove tuttora Jonathan possiede uno studio di registrazione, rinomato per le sue preziose apparecchiature analogiche). La varietà delle fonti d’ispirazione da cui Wilson attinge è molto più ampia e complessa, riguarda tanto il contesto americano quanto quello britannico, come testimonia la sua produzione e collaborazione con una colonna del folk rock inglese come Roy Harper, oppure la recente partecipazione all’ultimo album di Roger Waters e al successivo tour che è appena andato in scena nei palasport italiani, dove Jonathan si esibisce come seconda chitarra, cantando le parti che erano di David Gilmour.

Rare Birds , il nuovo album pubblicato all’inizio di marzo, lo evidenzia ancora di più, nelle tredici lunghe tracce che il suo autore ha definito cosmiche, originate da uno stato d’animo spesso non positivo, il tentativo di superare una situazione di abbandono e di solitudine. Wilson mescola sapientemente sonorità vintage usando l’elettronica accanto a strumenti tradizionali, creando un connubio quasi sempre riuscito e piacevole. L’iniziale Trafalgar Square si apre come una citazione della pinkfloydiana Breathe, con le voci registrate e la languida steel guitar sullo sfondo, poi una sventagliata di mandola apre la strada ad un’elettrica dal suono sporco e la canzone prende corpo in modo efficace. Ancora meglio Me, che parte sonnacchiosa e si sviluppa in modo avvolgente fino all’esplosione finale che vede protagonista una chitarra distorta e urticante. Over The Midnight, coi suoi furbi campionamenti stile anni ottanta, ha una struttura melodica che inevitabilmente conquista e invita a premere sull’acceleratore durante le guide notturne. There’s A Light ci rituffa in California, con una bella lap steel a condurre le danze e una melodia ancora accattivante, con le belle armonie vocali delle Lucius. Il pianoforte domina la nostalgica Sunset Blvd, fino alla conclusiva stratificazione di suoni che rimanda a certe composizioni del suo quasi omonimo, l’inglese Steven Wilson. La title track offre acide sventagliate di chitarra che è facile accostare al maestro Neil Young, nulla di nuovo, ma certamente gradevole. 49 Hairflips scava ancora nel melodramma di un amore finito, il piano si fonde in un magma di tastiere dall’effetto evocativo e malinconico.

In Miriam Montague convivono i Kinks e l’Electric Light Orchestra in una specie di mini suite non particolarmente esaltante. Meglio il mantra ipnotico Loving You che, grazie ai vocalizzi del guru della new age Laraaji ci conduce in territori insoliti ed evocativi. Ancora atmosfere notturne dominano la successiva Living With Myself che gioca sul contrasto tra le strofe crepuscolari ed un ritornello solare. Il synth sullo sfondo sembra rubato a quello che Roy Bittan suonava in Downbound Train o in I’m On Fire  Boss, e che dire allora della rullata di batteria campionata su cui si basa tutta la ritmica della successiva Hard To Get Over? Andate a riascoltare l’intro di Don’t Come Around Here No More di Tom Petty (e Dave Stewart) e non potrete ignorarne la somiglianza. Dall’episodio meno riuscito del disco ad uno dei più positivi, il country scanzonato e un po’ ruffiano di Hi Ho To Righteous, in cui convivono lap steel e disturbi rumoristici quasi a voler parodiare inni del passato come Teach Your Children. Notevole anche qui il finale in crescendo che ci conduce alla rarefatta e conclusiva Mulholland Queen, una intensa e disperata confessione che si sviluppa sulle note del piano e dell’orchestra in sottofondo. Fra echi e rimandi non si può dire che Rare Birds sia un disco innovativo e neppure un capolavoro (e certo non merita le critiche negative che qualcuno, pochi, a torto gli hanno appioppato), eppure ascoltarlo fa lo stesso effetto che guidare su una strada panoramica: ad ogni curva ti puoi imbattere in uno scorcio bello ed emozionante.

Marco Frosi

Una Colonna Sonora “Strana”, Ma Qualcuno Si Aspettava Il Contrario? Neil Young & Promise Of The Real – Paradox

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Neil Young & Promise Of The Real – Paradox – Reprise/Warner CD – 2LP

Quello tra Neil Young e le colonne sonore non è mai stato un rapporto normale, se escludiamo i film-concerto come Rust Never Sleeps e Year Of The Horse: il musicista canadese ha spesso scelto la strada più tortuosa anche per i suoi album “regolari”, figuriamoci per quelli di commento alle immagini. A partire dal “mitico” Journey Through The Past, passando per il quasi dimenticato Where The Buffalo Roam (nel cui soundtrack album erano però presenti diversi classici della musica americana), per finire con Dead Man di Jim Jarmush (per chi scrive il lavoro più pesante e noioso in assoluto di Neil), il Bisonte ha sempre seguito il credo del “famolo strano”: forse l’unico caso di disco fruibile separatamente dalla pellicola è quello di Greendale, album del 2003 con i Crazy Horse. Ed anche la colonna sonora di Paradox, film girato per Netflix dall’attrice Daryl Hannah (fidanzata di Young), non sfugge alla regola; non ho visto il film, che dovrebbe essere un bizzarro western futuristico/ambientalista interpretato dallo stesso Neil con i Promise Of The Real (cioè i figli di Willie Nelson, Lukas e Micah…e nel film c’è pure Willie), ma il disco con i brani tratti dal lungometraggio non è privo di stranezze, anche se tutto sommato non è indispensabile vedere il film per ascoltarlo. Neil è accompagnato da una versione un po’ spuria dei POTR (che con questo giungono quindi al quarto album con il Bisonte, dopo The Monsanto Years, The Visitor ed il live Earth), in quanto tra i musicisti presenti figurano anche il bassista Paul Bushnell ed il grande batterista Jim Keltner.

Paradox è quindi un disco strano, forse non indispensabile se non siete dei fan sfegatati di Neil, ma che contiene diverso materiale interessante ed almeno un capolavoro, oltre però a diverse bizzarrie (e vere e proprie canzoni nuove non ce ne sono). L’album si può dividere in tre sezioni: i pezzi incisi in studio, quelli dal vivo e le stranezze vere e proprie. I primi iniziano con Show Me, breve ripresa acustica (ma con la sezione ritmica) di un brano presente su Peace Trail, album del 2016 di Young, direi discreta ma nulla più; dallo stesso album è presente anche un rifacimento della title track, un brano tipico del nostro, dalla melodia scorrevole ed un buon ritornello, forse meglio dell’originale. Poi troviamo Hey, uno strano strumentale tra il distorto e l’allucinato, non particolarmente accattivante, una country song eseguita come se fossero tutti riuniti attorno ad un falò (Diggin’ In The Dirt), un altro strumentale, stavolta interessante, tra rock e blues (Running To The Silver Eagle), che sembra Bo Diddley sotto l’effetto di qualche sostanza proibita, ed una riuscita ripresa per voce, ukulele ed un accenno di orchestra di Tumbleweed (era su Storytone). Oltre a sei diversi brani strumentali intitolati Paradox Passage, quasi esclusivamente per chitarra elettrica solista (o, come nel caso del # 3, acustica), di difficile ascolto se separati dalle immagini. Il capitolo “stranezze” inizia con la breve introduzione parlata Many Moons Ago In The Future, con la voce narrante di Willie Nelson, il quale è solista anche nella sua Angels Flying Too Close To The Ground, uno dei suoi pezzi più noti, che però qui è eseguita in maniera fin troppo informale ed eccessivamente rilassata.

Lo stesso trattamento low-fi viene riservato al classico di Jimmy Reed Baby What You Want Me To Do?, cantata quasi sottovoce, ed a Happy Together dei Turtles, appena accennata e poi tutti giù a cazzeggiare. Offerings sembrava l’inizio di una bella folk song, ma si interrompe dopo appena cinquanta secondi, mentre il blues acustico How Long? è più un esercizio fine a sé stesso che una vera canzone. E veniamo ai brani dal vivo, che sono solo due ma fanno la differenza (registrati entrambi al Desert Trip di due anni fa): una suggestiva Pocahontas per voce ed organo a pompa, sempre bellissima anche in questa veste insolita, e soprattutto una strepitosa Cowgirl Jam, che altro non è che una rilettura solo strumentale di Cowgirl In The Sand, dieci minuti di puro rock infuocato alla maniera del nostro, con i POTR che sembrano i migliori Crazy Horse (ma con più tecnica), assoli a ripetizione ed un feeling mostruoso, il classico pezzo che da solo varrebbe l’acquisto https://www.youtube.com/watch?v=vQxfoRpbijM .(*NDB Anche se la canzone completa al Desert Trip era durata più di 21 minuti!) La versione in doppio vinile di Paradox è appena uscita, ma solo in America: nel nostro continente arriverà il 13 Aprile in LP ed una settimana dopo in CD: non è un disco indispensabile, ma la bellezza dei due brani dal vivo (soprattutto Cowgirl Jam) è tale che un pensierino ce lo potreste anche fare.

Marco Verdi

Uscite Prossime Venture 8: Eccolo Di Nuovo. Doppia Razione Di Neil Young Al 20 Aprile. Roxy Tonight’s The Night Live + Paradox (Original Music From The Film) With Promise Of The Real.

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Neil Young – Roxy Tonight’s The Night Live – Reprise/Rhino CD

Neil Young + Promise Of The Real – Paradox (Original Music From The Film) – Reprise

Erano già ben tre mesi (facciamo quattro per arrivare alla data di uscita, il prossimo 20 aprile), che uno dei due “Hardest Working Musicians In The Business”, almeno a livello di uscite discografiche, non si faceva sentire: ma ecco che Neil Young a breve pubblicherà non uno ma ben due “nuovi” album. Se siete curiosi di sapere chi è l’altro (a parte il defunto Jerry Garcia con i Grateful Dead, che è il più prolifico di di tutti), ovviamente parliamo di Joe Bonamassa (ma niente paura, anche per lui, dopo il disco con Beth Hart, al 18 maggio è prevista la pubblicazione di un doppio CD, doppio DVD, Blu-Ray British Blues Explosion – Live, relativa al breve tour inglese del 2016, ma ne parliamo più avanti, come pure del Live della Hart, anche lei in azione di nuovo, che uscirà ad Aprile). Torniamo però al soggetto del post odierno: il canadese ormai è sempre più “intrippato” in un inestricabile viluppo di uscite, sia di di materiale nuovo, come pure d’archivio (ma il seguito del box Archive, uscito nel lontano 2009, latita, visto che il buon Neil è impegnato anche con il proprio sito dove sta rendendo disponibili tonnellate di cose). Comunque cosa volete che sia per lui trovare il tempo di pubblicare non uno ma ben due dischi “nuovi”? E quindi, detto fatto ecco arrivare questi due CD singoli, ma anche in doppi vinili e download digitale.

Partiamo con Roxy:Tonight’s The Night, il dischetto dedicato ai concerti tenuti al Roxy di LA il 20-21-22 settembre del 1973., locale sul Sunset Strip all’epoca appena aperto, anzi fu inaugurato da loro con ben tre serate di doppi concerti, quindi sei in tutto, dove Neil Young con i  Santa Monica Flyers, come faceva chiamare la sua band a quel tempo, e che era composta da  Nils Lofgren (piano), Ben Keith (pedal steel guitar), Billy Talbot (basso) e Ralph Molina (batteria), presentava in anteprima il suo nuovo album Tonight’s The Night, appena registrato, disco che però poi non sarebbe uscito fino al 20 giugno del 1975. Ecco la lista completa dei brani contenuti nell’album dal vivo di prossima uscita:

1. Intro
2. Tonight’s the Night
3. Roll Out the Barrel
4. Mellow My Mind
5. World on a String
6. Band Intro
7. Speakin’ Out
8. Candy Bar Rap
9. Albuquerque
10. Perry Como Rap
11. New Mama
12. David Geffen Rap
13. Roll Another Number (For the Road)
14. Candy Bar 2 Rap
15. Tired Eyes
16. Tonight’s the Night (Pt. II)
17. Walk On
18. Outro

neil young promise of the real paradox

Altro discorso per Paradox, che è la colonna sonora del film (documentario?) girato dalla compagna Daryl Hanna e previsto per la piattaforma Netflix. Presentato come una sorta di western contro gli ogm e il suono di internet, il film contiene materiale d’archivio molto più recente, registrato con i Promise Of The Real, ovvero i fratelli Lukas Nelson e Micah Nelson, sotto gli pseudonimi di “Jail Time”e “The Particle Kid”, oltre a Jim Keltner alla batteria e Paul Bushnell al basso. Il CD contiene pure del materiale dal vivo registrato al Desert Trip di due anni fa, e Neil Young live è sempre una forza della natura, a giudicare dalla versione strepitosa di Cowgirl In the Sand che qui diventa Cowgirl Jam. Ma come direbbe Marzullo, una domanda sommessa, non sarebbe stato meglio pubblicare quel concerto completo? Qui l’ho detto e qui lo nego, perché poi il vecchio Neil mi sgrida. Comunque nel CD della colonna sonora ci sono anche sei segmenti da Paradox Passage 1 Paradox Passage 6, come pure cover di
Angel Flying Too Close To The Ground di Willie Nelson (che appare nel film come Red), non memorabile, meglio Peace Trail, Show Me, Pocahontas, con Young all’organo a pedali, la versione di Tumbleweed da Storytone, suonata all’ukulele, e anche versioni acustiche di Baby What You Want Me To Do di Jimmy Reed How Long di Lead Belly, oltre a qualche brano strumentale, ma spesso sono versioni brevi o frammenti, tipo la cover di Happy Together dei Turtles, che dura 30 secondi e finisce con tutti che ridono come dei pirla, va bene il cinema verità, ma almeno nella colonna sonora si poteva fare meglio. In ogni caso l’album esce tra un mesetto e lascio a Marco Verdi il compito di parlarne all’uscita. Per il momento ecco la lista completa anche dei brani di Paradox, oltre al trailer del film:

1. Many Moons Ago In The Future
2. Show Me
3. Paradox Passage 1
4. Hey
5. Paradox Passage 2
6. Diggin’ In The Dirt (Chorus)
7. Paradox Passage 3
8. Peace Trail
9. Pocahontas
10. Cowgirl Jam
11. Angel Flying Too Close To The Ground
12. Paradox Passage 4
13. Diggin’ In The Dirt
14. Paradox Passage 5
15. Running To The Silver Eagle
16. Baby What You Want Me To Do?
17. Paradox Passage 6
18. Offerings
19. How Long?
20. Happy Together
21. Tumbleweed

 Nel suo sito, finché è gratuito, si può già ascoltare, e lì ho curiosato anch’io https://www.neilyoungarchives.com/#/album?id=A_102&_k=qffovl, non brutto comunque, devo dire.

Alla prossima.

Bruno Conti

Una Splendida Seconda Carriera “Contromano”. Grant-Lee Phillips – Widdershins

grant-lee phillips widdershins

Grant-Lee Phillips – Widdershins – Yep Roc Records

Da qualche anno a questa parte questo signore non sbaglia un colpo, a partire diciamo da Walking In The Green Corn (12) http://discoclub.myblog.it/2012/12/30/un-cantastorie-nativo-americano-grant-lee-phillips-walking-i/ , seguito dall’ottimo The Narrows (16) http://discoclub.myblog.it/2016/03/24/grande-narratore-della-tribu-creek-grant-lee-phillips-the-narrows/ , sino ad arrivare a questo nuovo album solista Widdershins (il nono se non ho sbagliato il conto), e chiunque abbia ascoltato negli anni il suono della sua prima band The Shiva Burlesque, come pure dei mai dimenticati Grant Lee Buffalo, deve convenire che il buon Grant Lee Phillips, è uno dei migliori talenti espressi della scena “alternative rock” americana. Widdershins è stato registrato in soli quattro giorni a Nashville presso gli studi Sound Emporium, con la stessa e fidata sezione ritmica utilizzata da Phillips nel precedente The Narrows, composta dal bassista Lex Price, e da Jerry Roe alla batteria e percussioni (praticamente un trio con Grant Lee alle chitarre e tastiere), con l’apporto del tecnico del suono Mike Stankiewicz e mixato dal bravo e professionale Tucker Martine (uno che ha lavorato, tra i tanti, con  My Morning Jacket e Decemberists), per un lavoro prodotto e scritto interamente dallo stesso Phillips, album dove trovano spazio una manciata di brani, che riflettono i temi dell’attuale società americana.

La partenza con la “pettyana” Walk In Circles è quanto di meglio posso ricordare dai primi dischi dei citati Grant-Lee Buffalo, con squillanti chitarre “byrdsiane”, a cui fanno seguito la grintosa Unruly Mobs, la gentile e delicata King Of Catastrophes, per poi passare ad una robusta ballata in stile anni ’60 come Something’s Gotta Give, con un ritornello martellante. Si riparte con il rock di una trascinante Scared Stiff, il folk saltellante di una vivace Miss Betsy, viene anche riproposta la spina dorsale chitarre e batteria nel rock gagliardo di The Wilderness, e omaggiato ancora il “pop” anni ’60, con il ritmo regolare che accompagna Another, Another, Then Boom. Sentori di George Harrison si manifestano nella melodia di Totally You Gunslinger, per poi emozionare l’ascoltatore con la sua bellissima voce in una ballata folk-rock di spessore come History Has Their Number (perfetta per Neil Young), ritornare al rock teso e sincopato di una intrigante Great Acceleration, e chiudere con il grido “liberatorio” di una infuocata e tonificante Liberation.

Molto spesso (si dice) il terzo disco è quello cruciale, il più difficile, la famosa prova della verità, e questo era già successo prima con i Grant-Lee Buffalo dopo lo splendido album d’esordio Fuzzy, un seguito meno entusiasmante ma comunque riuscito come Mighty Joe Moon, arrivando al disco della maturità con il terzo Copperopolis. La stessa procedura si può applicare, se mi concedete la licenza, per quest’ultima parte di carriera solista dell’artista californiano (ma nativo americano), che completa questa “trilogia” musicale, che si sta rafforzando vieppiù, dopo il precedente The Narrows, con Phillips e i suoi “partner che” in questo Widdershins suonano come un perfetto “power trio”, dove la musica che si sprigiona dalle canzoni è piena di forza sonora e emotiva. In conclusione, i nostalgici dei Grant Lee Buffalo continueranno a sognare un passato forse irripetibile, ma per tutti gli altri in questi ultimi dischi c’è abbastanza materiale per innamorarsi ancora una volta di Grant-Lee Phillips. Splendido e consigliatissimo!

Tino Montanari

Le Origini Di Un Genio Della Chitarra, Parte Prima. Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1)

bert jansch a man i'd rather be part 1

Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part 1) – Earth 4CD Box Set

Quando lo scorso anno la label londinese Earth ha raccolto in due box da quattro CD ciascuno (Living In The Shadows e On The Edge Of A Dream, oltre a Live In Australia pubblicato a parte http://discoclub.myblog.it/2017/07/18/gli-ultimi-bellissimi-episodi-di-una-carriera-luminosa-bert-jansch-on-the-edge-of-a-dream/ ) tutti gli album pubblicati negli anni novanta e duemila dal grande Bert Jansch, non pensavo che ci fosse in previsione anche il recupero del catalogo più antico del chitarrista scozzese. Invece oggi esce, con la medesima veste grafica degli altri due cofanetti, questo A Man I’d Rather Be, che raccoglie i primi tre album pubblicati da Bert negli anni sessanta  prima di unirsi ai Pentangle (Bert Jansch, It Don’t Bother Me e Jack Orion), oltre all’unico album accreditato a lui in duo con John Renbourn, Bert & John. Per chi possiede già questi dischi (la Sanctuary li ha ristampati non molti anni fa) l’acquisto del box non è per nulla essenziale, in quanto non c’è neppure mezzo inedito, mentre nei due pubblicati lo scorso anno il quarto CD era costituito esclusivamente da canzoni mai sentite prima: qua non ci sono nemmeno le bonus tracks incluse nelle ristampe della Sanctuary, e di certo qualcosina in più in tal senso si poteva/doveva fare (a breve, il 23 Febbraio, uscirà la seconda parte di questo box, con i seguenti quattro lavori di Bert come solista, ancora senza inediti però).

Per chi non possedeva queste incisioni, come il sottoscritto, il box è comunque essenziale, in quanto ci mostra i primi passi di un artista sublime, un chitarrista che, pur suonando acustico, ha influenzato gente del calibro di Jimmy Page, Neil Young, Nick Drake e Mike Oldfield. E dire che già all’epoca, quando Bert emigrò da Edimburgo a Londra, non riuscì a trovare una major che scommettesse su un giovane armato solo di chitarra che non scriveva canzoni adatte ad essere pubblicate su singolo, e così si accasò presso l’indipendente Transatlantic, che diede al nostro la possibilità di far sentire la sua musica. Il cofanetto (con le note scritte ex novo da Bill Leader, il produttore originale di questi album) inizia con un vero e proprio classico: Bert Jansch (1965) è stato infatti indicato dalla rivista NME come uno dei venti album di folk più importanti di tutti i tempi, un lavoro che ci mostra un artista in completa solitudine ma già padrone assoluto dello strumento, e già capace di scrivere brani che sembrano dei vecchi traditionals. Quaranta minuti che si ascoltano tutti d’un fiato, con canzoni cristalline sospese tra folk e blues (Strolling Down The Highway, I Have No Time, la bella Rambling’s Going To Be The End Of Me, la purissima Running From Home) e scintillanti strumentali (la strepitosa Smokey River, la complessa Alice’s Wonderland, influenzata da Charlie Mingus, la cover di Angie di Davy Graham, ripresa anche da Simon & Garfunkel col titolo di Anji). E’ anche il disco della celebre Needle Of Death, una drammatica canzone (ma melodicamente splendida) contro la droga, che Neil Young ha volutamente “plagiato” nella sua Ambulance Blues e molti anni dopo ha ripreso nel controverso A Letter Home.

It Don’t Bother Me (ancora 1965) forse non è bello come il suo predecessore, ma è comunque un signor disco di folk, con elementi blues forse più marcati (Ring-A-Ding Bird, Tinker’s Blues, Want My Daddy Now), e comunque con cose splendide come la suggestiva Anti Apartheid, la dylaniana A Man I’d Rather Be o la fluida 900 Miles, con Bert al banjo. Ci sono anche due pezzi dove Jansch è affiancato per la prima volta da John Renbourn, My Lover e Lucky Thirteen: sono in due ma sembrano in cinque. E questo ci porta a Jack Orion (1966), album che vede la partecipazione di Renbourn in tutti i brani, che qui sono al 90% tradizionali (a parte una breve ma incisiva versione strumentale di The First Time I Ever Saw Your Face di Ewan McColl). Il pezzo centrale è senza dubbio la strepitosa title track, quasi dieci minuti di goduria assoluta, una vera lezione su come si suona la chitarra acustica. Ma sono imperdibili anche l’iniziale The Waggoner’s Lad, con uno splendido duello chitarristico, la vibrante Nottamun Town, antica ballata che servì da base a Bob Dylan per scrivere Masters Of War, e che in seguito venne ripresa anche dai Fairport Convention, o la scintillante Pretty Polly. Gran disco. In Bert & John (1966), costituito perlopiù da brani strumentali (i pochi pezzi cantati vedono comunque Bert alla voce solista), i due futuri Pentangle fanno vedere di cosa sono capaci (East Wind è qualcosa di fantastico), solo 26 minuti ma di un’intensità incredibile, da ascoltare tutti d’un fiato, con altre punte di eccellenza nella superba Soho e nella swingata e strepitosa Red’s Favorite.  Un tesoro da riscoprire, come d’altronde, se non ne possedete già il contenuto, il resto del box.

Marco Verdi

Da Nashville, Con Orgoglio. Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound

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Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound – Southeastern Records

Jason Isbell, ormai giunto al sesto album da solista dopo la positiva parentesi come chitarrista e compositore nei Drive By Truckers dal 2001 al 2007, rivendica con forza e con le armi della buona musica la sua appartenenza ad una delle città musicali per eccellenza degli U.S.A., la celeberrima Nashville, da molti considerata il simbolo della musica country da classifica, banale e stereotipata, che spesso si mescola al pop. Jason sostiene che questa sia una falsa immagine, provocata dalle scelte di importanti case discografiche che investono su artisti fasulli mandandoli ad incidere nei rinomati studi nashvilliani, ma i musicisti veri, che a Nashville ci vivono e ci lavorano, come il grande veterano John Prine o l’emergente Chris Stapleton, sono fatti di altra pasta e producono musica di assoluto valore. Diventa allora pienamente giustificato, per il nostro songwriter originario della vicina Alabama, intitolare orgogliosamente la propria ultima fatica The Nashville Sound, pubblicato a metà dello scorso giugno e già premiato da critica e pubblico come uno dei migliori dischi di Americana dell’anno appena concluso (*NDB Di cui colpevolmente non avevamo recensito, per motivi misteriosi, neppure i due dischi precedenti e quindi rimediamo, nell’ambito della serie di recuperi “importanti” di album usciti nel 2017). Squadra che vince non si cambia, e così, per confermare i brillanti esiti dei due precedenti lavori, Southeastern del 2013 e Something More Than Free del 2015, Isbell ha rivoluto con sé in cabina di regia il richiestissimo Dave Cobb, produttore che sa plasmare il suono di un album con utili suggerimenti senza mai risultare troppo invadente.

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https://www.youtube.com/watch?v=w8mMXEUFWu0

Ad affiancare il protagonista, gli ormai fedeli e collaudati componenti della sua band, i 400 Unit (nome che deriva da un reparto psichiatrico dell’ospedale di Florence, in Alabama): la moglie Amanda Shires, al violino e ai cori, già autrice di cinque pregevoli dischi da solista più uno in coppia con Rod Picott, Sadler Vaden alle chitarre, già membro dei Drivin’ N’ Cryin’, Jimbo Hart al basso, Derry DeBorja tastierista co-fondatore dei Son Volt e Chad Gamble alla batteria. Come già accadeva nei due precedenti CDs, come brano di apertura viene scelta un’intensa e malinconica folk ballad: intitolata Last Of My Kind,  prende corpo lentamente fino al pregevole finale in cui ogni musicista dà il suo efficace contributo. Il suono si fa decisamente più duro ed elettrico nella successiva Cumberland Gap, che scorre veloce su territori che rimandano al grande ispiratore Neil Young, noto a tutti per le sue memorabili invettive chitarristiche. Nell’alternanza di ritmi ed atmosfere, si torna alla struttura della ballata con Tupelo (il richiamo nel titolo alla Tupelo Honey del maestro Van The Man non è, secondo me, per nulla casuale), un vero gioiello arrangiato in modo sopraffino, con una linea melodica che conquista al primo ascolto. Altra grande canzone è la drammatica White Man’s World, il cui testo denuncia il razzismo di cui ancora purtroppo sono permeati gli States, soprattutto i vasti territori agricoli del Sud. Notevole il duetto a metà del brano tra la slide di Vaden e il violino della Shires.

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https://www.youtube.com/watch?v=JV7c8V5XLk8

La delicata e acustica If We Were Vampires dà all’album un tocco di romanticismo che non guasta, Jason la canta con tono accorato ed il cuore in mano, doppiato nel ritornello dalla tenue voce della moglie. Anxiety è il pezzo più lungo e strutturato del disco, che ricorda certi epici episodi del mai troppo compianto Tom Petty. Si apre con un aggressivo attacco di chitarre per poi rallentare durante il cantato delle strofe, mantenendo comunque una bella tensione emotiva fino alla parte conclusiva che riesplode in un bel sovrapporsi di tastiera e sei corde acustiche ed elettriche. Molotov non lascia particolarmente il segno, è associabile ad una serie di canzoni elettro-acustiche che rimandano ad un altro illustre collega di Isbell, Ryan Adams. Meglio la graziosa e beatlesiana Chaos And Clothes, chitarra e voce, con qualche piacevole ricamo in sottofondo. Con Hope The High Road torniamo a correre, grazie ad una melodia vincente condotta dalle chitarre e dal limpido hammond sullo sfondo, una splendida song che esprime voglia di vivere e quella speranza a cui fa riferimento il titolo. Conclusione in chiave country-folk con la deliziosa Something To Love, altro fulgido esempio del notevole talento compositivo del suo autore che cresce disco dopo disco, confermandosi uno dei più validi protagonisti dell’attuale scena cantautorale americana. Orgogliosamente Made in Nashville!

Marco Frosi

Si Potrebbero Fare Anche Meno Dischi, Ma Più Centrati! Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor

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Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor – Reprise/Warner CD

Negli ultimi anni Neil Young è più attivo che mai: esattamente un anno fa, a dicembre, aveva pubblicato il non eccelso Peace Trail (che avevo indicato come delusione del 2016) http://discoclub.myblog.it/2016/12/11/supplemento-della-domenica-disco-normale-neil-forse-anche-troppo-neil-young-peace-trail/ , mentre quest’anno fino a questo momento si era occupato di archivi, prima con l’inedito Hitchhiker (molto bello) http://discoclub.myblog.it/2017/09/01/anteprima-bis-una-gradita-sbirciatina-agli-archivi-neil-young-hitchhiker/ , poi con i due cofanettini contenenti i suoi album degli anni settanta http://discoclub.myblog.it/2017/08/27/uno-sguardo-al-passato-per-il-bisonte-parte-2-neil-young-original-release-series-discs-8-5-12/  , fino al primo di questo mese, quando ha messo online (e gratuitamente, per ora) sul proprio sito il suo intero archivio, una mossa senza precedenti che spero non precluda in futuro la pubblicazione dello stesso anche su supporti fisici. *NDB Se volete divertirvi, finché non si paga, perché dopo l’iscrizione vi arriverà una mail che vi avvisa di quanto segue: (And don’t worry; once your trial is up, you’ll be able to sign up for a subscription at a very modest cost.) Nel frattempo  https://www.neilyoungarchives.com/#/?_k=o9fnm8

Nella stessa data è uscito anche The Visitor, nuovissimo album registrato insieme ai Promise Of The Real, messo sul mercato un po’ a sorpresa anche se si sapeva della sua esistenza (ma con il Bisonte, fino a quando un disco non è nei negozi, non si sa mai). The Visitor è il terzo lavoro che Neil pubblica con il gruppo guidato da Lukas Nelson (figlio di Willie, e nel CD suona anche l’altro figlio Micah anche se non farebbe tecnicamente parte dei POTR) dopo The Monsanto Years ed il live Earth. The Monsanto Years era un buon disco, ma non un grande disco, comunque da classificare tra quelli riusciti del rocker canadese, mentre Earth, aldilà della bizzarria dei versi degli animali tra un brano e l’altro, secondo me non rendeva assolutamente la potenza di uno show di Young coi POTR (li ho visti lo scorso anno a Milano e, credetemi, ho goduto come un riccio).

Con The Visitor (prodotto da Neil con John Manlon) purtroppo ci risiamo, in quanto si tratta di un disco discontinuo e troppo variegato negli stili, ma anche con diverse canzoni che avrebbero fatto meglio a restare inedite: Young non è uno al quale va detto quello che deve fare, ha sempre fatto ciò che voleva anche da giovane figuriamoci adesso, ma il problema di The Visitor è che ci sono fin troppe idee, ma mescolate non nel modo migliore, ed i POTR, che sono ottimi musicisti (oltre ai due fratelli Nelson abbiamo Corey McCormick al basso, Anthony LoGerfo alla batteria e Tato Melgar alle percussioni), fanno comunque fatica a star dietro al vulcanico canadese. Dal punto di vista dei testi, se The Monsanto Years se la prendeva con le multinazionali produttrici di OGM, in maniera anche ironica, qui c’è invece un attacco frontale all’amministrazione Trump, ma con modalità un po’ banalotte e con slogan a mio parere un po’ stereotipati e poco efficaci (e poi parlar male dell’attuale presidente sta diventando lo sport nazionale americano, oggi non sei nessuno se non hai la tua bella canzone contro Trump). Ma il problema, lo ripeto, è la musica: ci sono troppi stili, si passa dal rock, al folk, al blues, alla ballata e perfino al rock latino ed al musical: l’album è comunque migliore di Peace Trail, se non altro per quelle due-tre canzoni che fanno la differenza. L’iniziale Already Great è fin dal titolo la risposta allo slogan elettorale di Trump (“Make America great again”, con Young che si professa innamorato degli USA nonostante sia canadese), e musicalmente è un buon avvio, una ballatona rock lenta ma potente (stile Cortez The Killer, ma non a quel livello), con anche il piano che si fa sentire con nitidezza, anche se il testo procede un po’ troppo per slogan.

La breve Fly By Night Deal ha un buon ritmo, ma non è una canzone, in quanto Neil si limita a parlare con tono declamatorio su un ritornello corale ripetuto all’infinito, mentre la tenue Almost Always ci riporta lo Young che conosciamo: una ballata acustica (ma full band) deliziosa, che sembra provenire dal periodo Harvest Moon: anzi, il riff iniziale di chitarra è identico a quello di Unknown Legend. Ottima Stand Tall, una rock ballad potente ed epica, molto Crazy Horse nella ritmica “sporca” e con un ritornello di quelli a cui il nostro ci ha abituato; splendida poi Change Of Heart, una canzone acustica ma dal ritmo spedito, con Neil che canta con una tonalità molto bassa ed atipica, ed uno sviluppo melodico decisamente intenso e toccante: forse il capolavoro del CD. Carnival è il già citato brano di rock latino, dal ritmo accelerato e melodia un po’ bizzarra, con un gioco di percussioni che ricorda non poco Carlos Santana: non posso dire che sia brutta, ma non è il tipo di canzone che associo a Neil (che tra l’altro gigioneggia oltremodo con la voce), ed è pure troppo lunga, più di otto minuti. Diggin’ A Hole è un altro brano con poco senso, un blues elettrico monotono e ripetitivo, che mi ricorda un po’ T-Bone da Re-Ac-Tor (e non è un complimento), quasi un’offesa al Neil Young songwriter.

Children Of Destiny è la cosa più strana del CD, un pezzo che sembra preso pari pari da un musical di Broadway, con un accompagnamento orchestrale tronfio ed un coro da varietà del sabato sera che non è da meno: Neil aveva già usato l’orchestra in Storytone con esiti ottimi, ma qui si sfiora il ridicolo (ed il testo è di una banalità sconcertante per uno come lui). L’album si chiude con il brano più corto e quello più lungo: When Bad Got Good, due minuti di rock dal ritmo spezzettato e senza il minimo accenno di melodia, e Forever, un’altra ballata acustica intensa e rassicurante, tra le più riuscite del lavoro (ma dieci minuti sono decisamente troppi). Diciamo che se Neil Young voleva cantarle a Trump adesso con The Visitor si è tolto il pensiero, ed auspico per il prossimo disco una maggior serietà nell’approccio musicale e, perché no, un impegno più profondo.

Marco Verdi

Tra Country E Cantautorato Puro, Proprio Un Bel Dischetto! Elijah Ocean – Elijah Ocean

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Elijah Ocean – Elijah Ocean – New Wheel CD

Non avevo mai sentito parlare di Elijah Ocean, musicista originario del Maine, anche se poi ho scoperto che aveva già tre album alle spalle, l’ultimo dei quali, Bring It All In, risale al 2014. Sulla copertina del suo nuovo lavoro, l’omonimo Elijah Ocean, vediamo un giovane con un look molto anni settanta, quasi da chitarrista blues (stile Rory Gallagher per intenderci), ma la musica contenuta nel dischetto è tutt’altro che blues. I vari siti parlano di Ocean come di un countryman influenzato da gente come Neil Young e Gram Parsons, ma queste informazioni sono perfino riduttive (anche se tracce dell’ex Byrds ci sono): Elijah ha infatti un suo stile, non è country nel senso stretto del termine, ma un cantautore dallo stile molto classico, decisamente anni settanta (quindi non solo nel look), che però usa il country come veicolo espressivo: a me personalmente ha rammentato Lee Clayton, un bravissimo outsider di cui oggi non si ricorda più nessuno, sia nello stile diretto ed asciutto che per il tipo di canzoni, belle ed orecchiabili nello stesso tempo.

Elijah Ocean è infatti una vera sorpresa, un piccolo grande disco di puro songwriting country, con dieci canzoni una più bella dell’altra, suonate con stile classico da un manipolo di musicisti bravi ma sconosciuti, e prodotto in maniera asciutta, senza fronzoli. Chitarre, pianoforte, steel ed un violino ogni tanto, oltre alla voce espressiva del nostro, che dimostra in questi dieci pezzi di avere una penna mica da ridere, riuscendo a coinvolgere fin dal primo ascolto, con sonorità che profumano di West Coast (mentre, come abbiamo visto, lui arriva dal lato opposto degli States), un album che inizia nel migliore dei modi con la splendida Bad Dreams, rockin’ country di grande presa, suono molto seventies e ritmo e melodia vincenti. Niente male anche Chain Of Gold, una ballata cristallina e solare, ancora con un motivo limpido ed un approccio da cantautore classico, mentre Malibu Moon è una toccante ballata costruita intorno ad un splendido pianoforte, chitarra ed un violino malinconico, davvero bella anche questa (il ragazzo deve aver sicuramente ascoltato anche il leggendario primo album solista di John Phillips, John, The Wolfking Of L.A.): solo tre canzoni, e la mia attenzione è già catturata al 100%.

Highway riporta al centro il ritmo, un travolgente rock’n’roll dal sapore country, con una bella slide ed il solito refrain accattivante, Desert Rain è lenta ed intensa, sembra una ballad californiana scritta nel 1971 o 1972, con uno script solidissimo, a conferma che Elijah sa il fatto suo. La gentile Barricade profuma di country & western, Heavy Head è di nuovo tersa, diretta, godibile, una delle più riuscite del disco, mentre Still Where You Left Me è puro country, chitarrone twang e solito sviluppo vibrante. Chiudono la cadenzata e deliziosa Time Passes Slow, dal consueto ritornello eccellente, e Days Are Long, una squisita folk ballad che sembra uscita di botto da Harvest (sentire per credere). Elijah Ocean non è uno qualunque, dategli una chance e sono convinto che non ve ne pentirete.

Marco Verdi