Una Validissima Rock’n’Roll Band Guidata Da Un Personaggio “Problematico”! Hawks And Doves – From A White Hotel

hawks and doves from a white hotel

Hawks And Doves – From A White Hotel – Jullian CD

Gli Hawks And Doves sono in realtà l’ultima creatura di Kasey Anderson, rocker di Portland, Oregon, che ha già all’attivo tre album come solista e due come leader di un’altra band, The Honkies. Anderson è anche però un personaggio molto particolare, da prendere con le molle, in quanto nel 2012 è stato dichiarato affetto da disordine bipolare (e ha dovuto dunque affrontare una terapia decisamente intensa), ed in seguito si è fatto pure due anni di galera (era stato condannato a quattro), per aver chiesto finanziamenti al fine di produrre un fantomatico album a scopo benefico, arrivando addirittura a falsificare le mail di Jon Landau, potente manager di Bruce Springsteen. Non esattamente uno stinco di santo quindi, ma il mio dovere è quello di giudicare la sua musica, e devo riconoscere che in From A White Hotel, album di debutto degli Hawks And Doves (nome preso da un disco del 1980 di Neil Young, invero non memorabile) di musica buona, ed a tratti ottima, ce n’è parecchia.

Kasey, che è il compositore, cantante e chitarrista ritmico del gruppo, è affiancato da Jordan Richter, chitarra solista, Ben Landsverk, basso, tastiere e viola, e Jesse Moffat, batteria, oltre ad essere coadiuvato da qualche ospite selezionato, tra i quali spiccano il sassofonista Ralph Carney, Kurt Bloch, già musicista per conto proprio, e soprattutto Eric Ambel, ex chitarrista dei Del Lords. From A White Hotel è un bel disco di puro rock americano, chitarristico e diretto, con canzoni che piacciono al primo ascolto e che si rifanno ai luminari di questo tipo di suono; Anderson sa comporre, ha il senso della melodia ed è anche creativo, in quanto il disco non è per nulla monotematico, ma invade qua e là anche territori diversi dal rock puro e semplice, ma senza mai dare la sensazione di dispersività. L’inizio è davvero ottimo con The Dangerous Ones, un brano rock elettrico di presa immediata, chitarristico e trascinante, che ricorda molto lo Steve Earle del periodo Copperhead Road, anche per la similarità del timbro vocale di Kasey con quello di Steve. Decisamente bella anche Chasing The Sky, altra rock song pulsante e diretta, che stavolta fa pensare al compianto Tom Petty: puro rock’n’roll chitarristico, davvero godibile (e la presenza di Ambel ha un senso, qui è nel suo elemento); Every Once In A While è cadenzata, con un sapore errebi dato da una piccola sezione fiati ed un’atmosfera vintage, mentre Get Low è annerita, bluesata e paludosa, ancora con i fiati che fanno capolino ed un feeling notevole, un pezzo che fa capire che il nostro ha ascoltato molto anche Tom Waits.

Geek Love è una ballata pianistica decisamente intensa, con un mood romantico che contrasta con la voce roca di Kasey, ma riesce lo stesso a toccare le corde giuste (ed anche qui Waits fa capolino, il suo lato più melodico), mentre con Bulletproof Hearts torniamo al rock di stampo californiano, un brano terso, vibrante e che coinvolge fin dalle prime note; Lithium Blues è scura e cupa, un blues che pare influenzato dalle paludi della Louisiana, un pezzo di grande fascino e suonato in maniera splendida. A Lover’s Waltz è una canzone suggestiva, per voce, organo e viola, un brano di grande pathos che dimostra che Anderson non è solo un rocker, ma un musicista a tutto tondo; il CD si chiude con la lenta Clothes Off My Back, dalla calda atmosfera southern soul, e con la title track, uno slow elettrico dalla ritmica quasi tribale. Forse Kasey Anderson potrebbe non essere la persona più adatta alla quale prestare dei soldi, ma se vorrete dare un ascolto ai suoi Hawks And Doves secondo me non ve ne pentirete.

Marco Verdi

Una Delle Sorprese Piacevoli Di Quest’Ultimo Periodo. E Che Voce! Ann Wilson – Immortal

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Ann Wilson – Immortal – BMG CD

Mi sono sempre piaciute le Heart, duo femminile formato dalle sorelle Ann e Nancy Wilson, sia nelle loro espressioni più rock (spesso influenzate dai Led Zeppelin), sia nelle pagine più AOR della loro carriera (la seconda metà degli anni ottanta) https://discoclub.myblog.it/2016/12/24/un-po-di-sano-classic-rock-al-femminile-heart-live-at-the-royal-albert-hall/ , anche se non le ho mai seguito più di tanto né i loro progetti collaterali (The Lovemongers) né i loro album solisti. Sono stato però da subito incuriosito da questo Immortal, nuova fatica di Ann Wilson senza la sorella Nancy (ad undici anni dal suo primo solo album Hope & Glory, mentre i due EP a nome Ann Wilson Thing sono storia recente), in quanto trattasi di un album di cover. Fin qui nulla di strano, anche Hope & Glory non presentava brani originali, ma qui Ann ha deciso di omaggiare artisti che l’hanno influenzata od altri che semplicemente le piacciono, però con il comune denominatore del fatto che tutti i dieci nomi omaggiati sono ormai passati a miglior vita. Un tributo quindi sentito a musicisti che non sono più tra noi, con alcune scelte logiche ed altre decisamente più sorprendenti (lo dico subito, gli Zeppelin non ci sono, forse Ann ha considerato John Bonham un personaggio “collaterale” per quanto riguarda le composizioni dello storico gruppo).

Il disco, prodotto dalla Wilson insieme a Mike Flicker, è decisamente riuscito, in quanto Ann nella maggior parte dei casi reinterpreta brani più o meno noti con indubbia personalità, senza riproporre delle copie carbone degli originali, ed in più confermando di avere una delle più belle e potenti voci dell’intero panorama rock femminile. Un valido aiuto glielo ha dato anche la house band (Craig Bartok, chitarre, Andy Stoller, basso, Daniel Walker, tastiere, e Denny Fongheiser, batteria) ed un ridotto numero di validissimi ospiti che vedremo tra poco. Da un cover album di Ann Wilson mi sarei forse aspettato una preponderanza di omaggi a cantanti donne, ma in realtà ne troviamo solo due: You Don’t Own Me, grande successo della quasi dimenticata Lesley Gore, apre il CD in maniera splendida, con nientemeno che Warren Haynes alla chitarra solista, una versione solida, potente e bluesata, molto diversa dall’originale, cantata in maniera divina da Ann e con Warren che fende l’aria da par suo (e la mente va alle migliori pagine della collaborazione tra Beth Hart e Joe Bonamassa), mentre la nota Back To Black, di Amy Winehouse, è tutta giocata sulla vocalità profonda e ricca di sfaccettature della Wilson, un’interpretazione drammatica e densa di pathos (il languido violino è di Ben Mink, noto per le sue collaborazioni con k.d. lang) che rende giustizia nel modo migliore alla cantautrice inglese entrata a far parte del cosiddetto “Club dei 27”.

Ann si ricorda anche di Chris Cornell, ma non ripropone un pezzo dei Soundgarden, bensì degli Audioslave, I Am The Highway, che diventa una toccante rock ballad elettroacustica, cantata ancora splendidamente e con voce leggermente arrochita, mentre l’accompagnamento è limpido e scintillante, quasi di stampo californiano: bella canzone e grandissima interpretazione, una delle migliori del disco. Non viene dimenticato Tom Petty, anche se viene scelta la poco nota Luna (dal disco d’esordio del 1976 del biondo rocker), ancora con Haynes protagonista: la struttura del pezzo rimane “pettyana”, ma Warren le dona un tocco blues ed Ann canta in maniera decisamente sensuale, aiutata anche dal ritmo soffuso del brano. Grande classe. Anche I’m Afraid Of Americans non è tra i pezzi più noti di David Bowie (scritta dal Duca Bianco con Brian Eno, era sul controverso Earthling del 1997), ed Ann elimina le sonorità techno e drum’n’bass dell’originale e la indurisce oltremodo, con un mood quasi zeppeliniano (eccallà, direbbero a Roma), complici anche certi passaggi strumentali orientaleggianti: versione tosta di un brano comunque non memorabile. Con Politician (Cream, l’omaggio è chiaramente per Jack Bruce) la Wilson è invece nel suo ambiente naturale: canzone che già in origine era possente e granitica, e la “sorellona” non deve far altro che sfoderare la sua voce più “plantiana” per portare a casa il risultato, aiutata anche dagli ottimi interventi alla solista di Doyle Bramhall II https://www.youtube.com/watch?v=5qLRh6vYqqU .

Cambio completo di registro con la soffusa A Thousand Kisses Deep di Leonard Cohen, guidata ancora dal violino di Mink e con un background musicale da club jazz-lounge (ed anche i rumori di sottofondo sembrano provenire dall’interno di un bar), con la Wilson che mostra di saper usare anche il fioretto, modulando la voce con un tono confidenziale da femme fatale. Forse per omaggiare Glenn Frey c’erano canzoni più rappresentative di Life In The Fast Lane, che vede sì Glenn tra gli autori ma è sempre stata una canzone più di Henley e Walsh: Ann elimina il noto riff chitarristico, rallenta il tempo e le dona un sapore funky ed un arrangiamento moderno che non mi convince molto, anche se un mezzo scivolone si può perdonare. Come chiusura dell’album ecco due brani che non mi aspettavo: A Different Corner è un pezzo di George Michael, uno che non mi sarebbe mai passato per la testa di omaggiare, ma Ann non la pensa come me e ne fornisce una rilettura fin troppo sofisticata, che non solleva i dubbi del sottoscritto né sulla canzone né sull’arrangiamento un po’ artefatto; meglio Baker Street, il classico per antonomasia di Gerry Rafferty: ritmo accelerato, arrangiamento anche qui moderno ma con un marcato mood folk-rock, ed un notevole crescendo elettrico che rinuncia al celebre riff di sax: quasi un’altra canzone.

A parte un paio di incertezze, Immortal è quindi un gran bel disco, ed Ann Wilson conferma di avere una voce straordinaria, unita ad una capacità interpretativa non comune.

Marco Verdi

Al Quarto Album Di Buon Country-Rock Made In Nashville Si Può Proprio Dire Che Sono Una Certezza. Wild Feathers – Greetings From The Neon Frontier

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Wild Feathers – Greetings From The Neon Frontier – Reprise Records  

Quarto album per la band di Nashville, Tennessee, dopo il Live At The Ryman del 2016  https://discoclub.myblog.it/2017/02/16/dal-vivo-sono-veramente-bravi-wild-feathers-live-at-the-ryman/ ,  sono tornati in studio con il loro storico produttore Jay Joyce per registrare questo Greetings From The Neon Frontier, che presumo prenda il titolo proprio dai Neon Cross Studios di Joyce, ubicati nella capitale del Tennessee, dove è stato realizzato il disco. I Wild Frontiers sono catalogati come una delle ormai quasi rare (ma non scomparse) band che vengono definite country-rock, non Americana, roots, alternative, southern, proprio il caro vecchio country rock che poi comunque contiene un poco di tutti i generi appena ricordati. Il primo album omonimo del 2013 non dico che mi aveva folgorato, ma mi aveva colpito più che favorevolmente https://discoclub.myblog.it/2013/09/15/ho-visto-il-futuro-del-rock-n-roll-e-il-suo-nome-e-the-wild/ , il secondo Lonely Is A Lifetime un filo inferiore e più “lavorato”, restava un buon album, e il disco dal vivo aveva confermato tutte le vibrazioni positive della loro musica.

La formazione è un quartetto classico che ruota intorno alle voci e alle chitarre di Taylor Burns e Ricky Young, al bassista e vocalist Joel King, che sono gli autori della quasi totalità del materiale, ed al batterista Ben Dumas, entrato in formazione dal secondo album, Brett Moore degli ottimi Apache Relay alla pedal steel e chitarra aggiunta è un elemento importante nel sound del gruppo, e Rachel Moore, moglie di Brett e fotografa, appare al violino in un brano. Quittin’ Time parte subito forte, chitarre spianate ed energiche, con la pedal steel e l’organo suonato da Joyce ad aumentare un sound vibrante e poderoso, con intrecci vocali splendidi che rimandano ai migliori Jayhawks e alle bande southern, Wildfire ricorda le atmosfere sonore dei primi Eagles, quelli di Desperado e On The Border per intenderci, sempre con l’evocativa steel di Moore a sottolineare i bellissimi impasti vocali che ci riportano al miglior country-rock degli anni che furono https://www.youtube.com/watch?v=sKw5XlDpIj4 , derivativo? Forse, ma chi se ne frega, finché è fatto così bene e con passione sincera; Stand By You è decisamente più rock’n’roll, ci sono elementi alla Tom Petty e le chitarre sono sempre vibranti ed onnipresenti, mentre la cadenzata No Man’s Land, dell’accoppiata King/Young, ha ancora il classico suono del miglior country-rock, con i suoi 5 oltre minuti è la canzone più lunga dell’album e le chitarre nella parte centrale e finale si lasciano andare in piena libertà, ben supportate dall’organo.

La delicata e deliziosa Two Broken Hearts, scritta in solitaria dal solo Taylor Burns, ha uno spirito country-folk accentuato dall’interscambio tra la pedal steel e il violino della coppia Moore, veramente una piccola gemma https://www.youtube.com/watch?v=LktTWx6LsDw ; Golden Days torna subito ad un suono decisamente più roccato a tutte chitarre, sempre con la produzione cristallina di Joyce che evidenzia con precisione l’uso degli strumenti  e con le voci che si alternano alla guida del pezzo, a conferma che questa volta le buone canzoni ci sono. Anche quando il tempo rallenta come in Big Sky, l’unico brano a non portare la firma della band, si respira comunque un’aria anni ’70 veramente rinfrescante, tra CSN&Y e Matthews Southern Comfort, sound elettroacustico, le solite armonie vocali splendide e crescendo strumentali da sballo https://www.youtube.com/watch?v=L_shcc6EneQ , e pure Hold On To Love, anche se è un po’ più leggerina e zuccherosa, si regge comunque sul lavoro vocale sempre di gran qualità della band, che nel finale di brano schiaccia nuovamente il pedale dell’acceleratore sul ritmo e sulla elettricità del brano ,con le chitarre che si fanno nuovamente sentire, anche in modalità slide. Every Morning I Quit Drinkin’ è uno strano valzerone country di Ricky Young, molto sixties ma anche alquanto irrisolto e non memorabile,  forse l’unico brano scarso del disco, mentre Daybreaker (Into The Great Unknown) è di nuovo un galoppante e gagliardo brano di stampo rock classico americano con chitarre a volontà, al limite con qualche reminiscenza dei migliori U2. Ancora una volta un bel disco, questa volta senza cadute di tono.

Bruno Conti

Tom Petty – An American Treasure. A Quasi Un Anno Dalla Scomparsa Viene Doverosamente Annunciato Per Il 28 Settembre Uno Splendido Box Commemorativo

tom petty an american treasure front tom petty an american treasure box

Tom Petty – An American Treasure – 4 CD – 2 CD – 4 CD Super Deluxe con libro rilegato 84 pagine (la versione normale libro di 48 pagine), litografia, riproduzione di 4 testi scritti a mano e certificato di autenticità numerato – 6 LP Reprise/Warner – 28-09-2018

Tom Petty ci ha lasciati circa un anno fa, nella notte tra l’1 e il 2 ottobre del 2017. La morte ha colpito tutti gli appassionati in modo devastante, perché è stata improvvisa e senza quelle che sembravano motivazioni certe; dopo parecchi mesi si è saputo che il decesso è avvenuto per una overdose di medicinali antidolorifici che Petty usava per lenire il dolore dovuto a vari fattori: un enfisema, problemi al ginocchio e un anca fratturata, soprattutto quest’ultimo era peggiorato causandogli probabilmente dolori lancinanti che ha cercato di calmare usando troppe medicine.

In questo lasso di tempo la famiglia e i suoi collaboratori hanno preparato questo cofanetto che verrà pubblicato dalla sua ultima etichetta discografica, la Reprise, intorno alla fine di settembre. Come leggete sopra ci saranno la solita pletora di versioni di An American Treasure. Dalle prime informazioni pare che quella Super Deluxe e quella in vinile saranno anche super costosissime, con un prezzo indicativo intorno e oltre i 150 euro, mentre quella quadrupla costerà sempre indicativamente, e molto più onestamente, intorno ai 30 euro o poco più. La Super Deluxe ovviamente mi pare indirizzata sopratutto verso i collezionista incalliti e facoltosi, visto che poi il contenuto musicale sarà identico, anche se cambia l’involucro e i memorabilia vari della confezione. Se ve la potete permettere, è questa sotto.

tom petty an american treasure super deluxe

Scorrendo velocemente i contenuti, forse si poteva evitare di inserire tra i 60 brani del cofanetto18 canzoni nelle versioni già conosciute (anche se non sono tra le più note), dato che di antologie di Tom Petty ne esistono comunque a iosa. Però rimangono 8 brani totalmente inediti, una b-side e 33 pezzi in versioni mai pubblicate prima. Qui sotto potete leggere la lista completa.

 [CD1]
1. Surrender (Previously unreleased track from Tom Petty and the Heartbreakers sessions—1976)
2. Listen To Her Heart (Live at Capitol Studios, Hollywood, CA—November 11, 1977)
3. Anything That’s Rock ‘N’ Roll (Live at Capitol Studios, Hollywood, CA—November 11, 1977)
4. When The Time Comes (Album track from You’re Gonna Get It!—May 2, 1978)
5. You’re Gonna Get It (Alternate version featuring strings from You’re Gonna Get It! sessions—1978)
6. Radio Promotion Spot 1977
7. Rockin’ Around (With You) (Album track from Tom Petty and the Heartbreakers —November 9, 1976)
8. Fooled Again (I Don’t Like It) (Alternate version from Tom Petty and the Heartbreakers—1976)
9. Breakdown (Live at Capitol Studios, Hollywood, CA—November 11, 1977)
10. The Wild One, Forever (Album track from Tom Petty and the Heartbreakers—November 9, 1976)
11. No Second Thoughts (Album track from You’re Gonna Get It!—May 2, 1978)
12. Here Comes My Girl (Alternate version from Damn The Torpedoes sessions—1979)
13. What Are You Doing In My Life (Alternate version from Damn The Torpedoes sessions—1979)
14. Louisiana Rain (Alternate version from Damn The Torpedoes sessions—1979)
15. Lost In Your Eyes (Previously unreleased single from Mudcrutch sessions—1974)

[CD2]
1. Keep A Little Soul (Previously unreleased track from Long After Dark sessions—1982)
2. Even The Losers (Live at Rochester Community War Memorial, Rochester, NY—1989)
3. Keeping Me Alive (Previously unreleased track from Long After Dark sessions—1982)
4. Don’t Treat Me Like A Stranger (B-side to UK single of “I Won’t Back Down”—April, 1989)
5. The Apartment Song (Demo recording (with Stevie Nicks)—1984)
6. Concert Intro (Live introduction by Kareem Abdul-Jabbar, The Forum, Inglewood, CA—June 28, 1981)
7. King’s Road (Live at The Forum, Inglewood, CA—June 28, 1981)
8. Clear The Aisles (Live concert announcement by Tom Petty, The Forum, Inglewood, CA—June 28, 1981)
9. A Woman In Love (It’s Not Me) (Live at The Forum, Inglewood, CA—June 28, 1981)
10. Straight Into Darkness (Alternate version from The Record Plant, Hollywood, CA—May 5, 1982)
11. You Can Still Change Your Mind (Album track from Hard Promises—May 5, 1981)
12. Rebels (Alternate version from Southern Accents sessions—1985)
13. Deliver Me (Alternate version from Long After Dark sessions—1982)
14. Alright For Now (Album track from Full Moon Fever—April 24, 1989)
15. The Damage You’ve Done (Alternate version from Let Me Up (I’ve Had Enough) sessions—1987)
16. The Best Of Everything (Alternate version from Southern Accents sessions—March 26, 1985)
17. Walkin’ From The Fire (Previously unreleased track from Southern Accents sessions—March 1, 1984)
18. King Of The Hill (Early take (with Roger McGuinn)—November 23, 1987)

[CD3]
1. I Won’t Back Down (Live at The Fillmore, San Francisco, CA—February 4, 1997)
2. Gainesville (Previously unreleased track from Echo sessions—February 12, 1998)
3. You And I Will Meet Again (Album track from Into The Great Wide Open—July 2, 1991)
4. Into The Great Wide Open (Live at Oakland-Alameda County Coliseum Arena—November 24, 1991)
5. Two Gunslingers (Live at The Beacon Theatre, New York, NY—May 25, 2013)
6. Lonesome Dave (Previously unreleased track from Wildflowers sessions—July 23, 1993)
7. To Find A Friend (Album track from Wildflowers—November 1, 1994)
8. Crawling Back To You (Album track from Wildflowers—November 1, 1994)
9. Wake Up Time (Previously unreleased track from early Wildflowers sessions—August 12, 1992)
10. Grew Up Fast (Album track from Songs and Music from “She’s the One”—August 6, 1996)
11. I Don’t Belong (Previously unreleased track from Echo sessions—December 3, 1998)
12. Accused Of Love (Album track from Echo—April 13, 1999)
13. Lonesome Sundown (Album track from Echo—April 13, 1999)
14. Don’t Fade On Me (Previously unreleased track from Wildflowers—sessions—April 20, 1994)

[CD4]
1. You And Me (Clubhouse version—November 9, 2007)
2. Have Love Will Travel (Album track from The Last DJ—October 8, 2002)
3. Money Becomes King (Album track from The Last DJ—October 8, 2002)
4. Bus To Tampa Bay (Previously unreleased track from Hypnotic Eye sessions—August 11, 2011)
5. Saving Grace (Live at Malibu Performing Arts Center, Malibu, CA—June 16, 2006)
6. Down South (Album track from Highway Companion—July 25, 2006)
7. Southern Accents (Live at Stephen C. O’Connell Center, Gainesville, FL—September 21, 2006)
8. Insider (Live (with Stevie Nicks) at O’Connell Center, Gainesville, FL—September 21, 2006)
9. Two Men Talking (Previously unreleased track from Hypnotic Eye sessions—November 16, 2012)
10. Fault Lines (Album track from Hypnotic Eye—July 29, 2014)
11. Sins Of My Youth (Early take from Hypnotic Eye sessions—November 12, 2012)
12. Good Enough (Alternate version from Mojo sessions—2012)
13. Something Good Coming (Album track from Mojo—July 15, 2010)
14. Save Your Water (Album track from Mudcrutch 2—May 20, 2016)
15. Like A Diamond (Alternate version from The Last DJ sessions—2002)
16. Hungry No More (Live at House of Blues, Boston, MA—June 15, 2016)

Come detto è confermata l’uscita per il 28 settembre.

Bruno Conti

P.s. Nel frattempo si sono perse le tracce del Wildflowers II, però noto che un paio di brani di quelle sessions sono finiti in questo cofanetto.

Un Moderno Power Trio Di Ottimo Livello, Ma Non Solo! The Record Company – All Of This Life

record company all of this life

The Record Company – All Of This Life – Concord/Universal CD

A due anni dall’interesse suscitato con il loro album di debutto Give It Back To You https://discoclub.myblog.it/2016/02/12/anche-bravi-blues-rock-nuova-promessa-the-record-company-give-it-back-to-you/ , ecco di nuovo tra noi The Record Company, trio di Los Angeles che ci dà un nuovo saggio della propria bravura con questo ottimo All Of This Life, sicuramente superiore al già positivo esordio. I RC non sono il classico power trio chitarra-basso-batteria, ma un gruppo rock moderno con un suono più articolato che comprende anche piano ed organo: la base di partenza sono le sonorità rock e blues tipiche degli anni settanta, con anche influenze punk e garage (gli Stooges sono una delle band di riferimento) e qualcosa di southern. Ogni singola nota di All Of This Life è farina del loro sacco, sia dal punto di vista della scrittura, che del suono ed anche della produzione, senza sessionmen od ospiti di sorta: puro e solido rock’n’roll, suonato benissimo e con una predisposizione comunque elevata per melodie e refrain diretti. Il leader e voce principale è Chris Vos, che suona anche la chitarra solista, ed è coadiuvato dal bassista Alex Stiff e dal batterista Marc Cazorla, che a turno si cimentano anch’essi con le chitarre, acustiche ed elettriche (e Cazorla anche con le tastiere). Un bel disco di puro rock (blues), tonificante e degno di stare in qualsiasi collezione che si rispetti.

Il CD, che “stranamente” non presenta versioni limitate o deluxe, inizia con Life To Fix, introdotta da un giro di basso subito seguito da un drumming pressante, una rock song potente, diretta e senza fronzoli, anche se il ritornello corale si presta comunque al singalong: il suono è tosto, vigoroso e ben definito, non male come avvio. I’m Getting Better (And I’m Feeling It Right Now) è anche meglio, un rock-blues saltellante e coinvolgente, con un ottimo intervento di armonica e ritmo decisamente sostenuto, pervaso dalla sfrontatezza tipica di una garage band giovanile e, perché no, con qualcosa dei primi Who; Goodbye To The Hard Life è invece una splendida ballata tra soul e blues, dal suono caldo, un motivo vincente ed una performance vocale notevole, un pezzo che alla fine risulterà tra i migliori: sembra quasi un megagruppo alla Tedeschi Trucks Band, ma in realtà sono sempre e solo loro tre e basta. Anche Make It Happen ha elementi blues, ma è più dura ed annerita grazie soprattutto ad una slide sporca al punto giusto, ma l’attitudine del gruppo per le melodie immediate viene fuori anche qui.

You And Me Now è un altro slow molto bello e dalle classiche sonorità anni settanta, una slide ancora protagonista (stavolta suonata alla maniera di George Harrison) e l’organo a dare calore al tutto. Coming Home è una solidissima rock’n’roll song con la sezione ritmica che pesta di brutto, e ci vedo echi del Tom Petty più “cattivo”, davvero trascinante https://www.youtube.com/watch?v=qxoTUFwS7Vw , The Movie Song è uno scintillante soul-rock, immediato e godibilissimo, e che sa di fango, polvere e Rolling Stones https://www.youtube.com/watch?v=7HUL5xevK1I , mentre Night Games sposta nuovamente il disco verso territori bluesati e paludosi, quasi swamp. Il CD, tre quarti d’ora spesi benissimo, si chiude con la vibrante Roll Bones, forse la più blues del lotto (e con strepitoso assolo di slide alla Ry Cooder), e con I’m Changing, unico pezzo acustico ma sempre dal mood annerito, che chiude più che positivamente un album che conferma il talento dei Record Company, e che non mancherà di deliziare gli appassionati di vero rock’n’roll.

Marco Verdi

Crisi Del Settimo Album Brillantemente Superata! Kim Richey – Edgeland

kim richey edgeland

Kim Richey – Edgeland – Yep Roc Records

Cinque anni sono trascorsi dal suo precedente lavoro Thorn In My Heart https://discoclub.myblog.it/2013/07/19/due-signorine-da-sposare-musicalmente-kim-richey-thorn-in-my/ , ma finalmente ora possiamo goderci il ritorno di Kim Richey, una delle cantautrici che meglio esprimono quel sound che tanto amiamo denominato Americana. La bionda Kim, nata in una cittadina dell’Ohio sessantuno primavere fa (ooops, non si dovrebbe rivelare l’età di una signora!) ha girovagato parecchio prima di prender casa a Nashville, collaborando con una vasta schiera di colleghi in qualità di vocalist (Jason Isbell, Ryan Adams, Shawn Colvin, Rodney Crowell, Gretchen Peters, di cui proprio in questi giorni sta aprendo i concerti inglesi, oltre a fare parte del progetto Orphan Brigade ed apparire anche nel nuovo album di Ben Glover) e scrivendo ottime canzoni che altri hanno fatto diventate hit in odore di Grammy, come Believe Me Baby (I Lied) cantata da Trisha Yearwood o Nobody Wins ceduta a Radney Foster. Anche per questo nuovo album, Edgeland, l’ottavo in studio, Kim si è circondata di un folto gruppo di validissimi collaboratori che suonano e partecipano alla composizione dei brani, gente del calibro di Chuck Prophet, Pat Mc Laughlin, Robin Hitchcock, Pat Sansone dei Wilco e lo stesso Brad Jones che si occupa della produzione.

Il risultato è davvero ottimo, dodici canzoni godibili dalla prima all’ultima nota, guidate dalla limpida voce della protagonista e realizzate con suoni ed arrangiamenti brillanti, mai eccessivi o inadeguati. Si parte a tutto ritmo con la solare The Red Line, intima riflessione sulla vita che scorre nell’attesa di un treno che tarda ad arrivare. Chuck Prophet e Doug Lancio conducono la danza con le chitarre, supportati dall’energico violino di Chris Carmichael. Pat Mc Laughlin (le cui lodi non smetterò mai di decantare e che non ha mai avuto i riconoscimenti che merita) offre il suo bel contributo come musicista alla splendida Chase Wild Horses (scritta con Mike Henderson), suonandoci mandolino e bouzouki. Inoltre duetta con Kim nella successiva Leaving Song, caratterizzata da un mid-tempo molto bluesy, arricchita dal banjo elettrico di Dan Cohen e dalla turgida resonator guitar di Pat Sansone. L’atmosfera si fa tesa e drammatica non appena si diffondono le prime note di Pin A Rose, scritta a quattro mani con Prophet, che racconta una triste storia di abusi domestici. Azzeccatissima ancora una volta la strumentazione in cui troviamo slide (pregevole lo stacco nel finale), bouzouki, banjo e pure un sitar elettrico a sottolineare la frase portante del ritornello. Piacevole e rigenerante come un sorso di acqua fresca scorre la folk ballad High Time, che vede la partecipazione ai cori e alla chitarra di Gareth Dunlop e reclama con malinconica consapevolezza la necessità di dare un calcio al passato superando le piccole e grandi tragedie personali. Il romantico duetto vocale con il co-autore Mando Saenz, intitolato The Get Together,  rappresenta il singolo perfetto per scalare le country charts, facendosi apprezzare per la fluida melodia ed l’apporto sullo sfondo della pedal steel di Dan Dugmore che si sovrappone al tappeto orchestrale.

Meglio, per i miei gusti, la seguente Can’t Let You Go che pare un vero tributo al compianto Tom Petty, per il suono delle chitarre e la struttura melodica. Molto gradevole anche I Tried, che avvicina la Richey al bello stile delle composizioni di illustri colleghe come Rosanne Cash e Mary Chapin Carpenter. Oltre al delicato arpeggio della chitarra acustica, le tastiere (addirittura un mellotron) si ergono protagoniste dell’intensa e crepuscolare Black Trees, uno dei vertici dell’intero album, che evoca cieli traboccanti di stelle e profonde meditazioni esistenziali. Non è da meno Your Dear John, composta insieme alla collega Jenny Queen, che esalta la sua componente malinconica grazie all’uso assai efficace di un violoncello. Anche Not for Money Or Love mantiene questo pathos, raccontando del ritorno a casa di un reduce di guerra, con le chitarre e un mandolino che danzano al ritmo di uno struggente valzerone, irrobustito adeguatamente da violino e pedal steel. Come brano di chiusura troviamo un altro duetto, questa volta insieme al già citato Chuck Prophet, un limpido acquarello acustico dai colori tenui, intitolato Whistle On Occasion, ottimo suggello per un album che mantiene alto e costante il suo tasso emotivo, impeccabilmente realizzato da tutti i musicisti che hanno dato il loro personale contributo. Se già non vi faceva parte, non vi resta che aggiungere Kim Richey all’elenco delle migliori cantautrici americane, andando a ripescare, perché no, anche i suoi validissimi sette album precedenti, ne vale la pena.

Marco Frosi

Il Gabbiano Jonathan Vola Sempre Alto! Jonathan Wilson – Rare Birds

jonathan wilson rare birds

Jonathan Wilson – Rare Birds – Bella Union Records

La prima volta che vidi sul palco Jonathan Wilson non sapevo neppure chi fosse. Mi trovavo con alcuni amici a San Sebastian per assistere ad un concerto di Jackson Browne , che, per l’occasione, doveva suonare insieme alla giovane band californiana dei Dawes, talentuosi esordienti il cui secondo disco, Nothing Is Wrong, era stato prodotto proprio da Jonathan Wilson. Il calendario datava 24 luglio ma sembrava ottobre inoltrato, la magnifica spiaggia su cui torreggiava il grande palco del festival Jazzaldia era zuppa per la pioggia che era caduta quasi incessantemente tutto il giorno, accompagnata dal vento freddo proveniente dall’oceano. A riscaldarci furono prima gli stessi Dawes, con un’esibizione sanguigna e coinvolgente, poi, a mezzanotte e mezza passata (ma per gli spagnoli è ancora presto…), il buon Jackson con i suoi classici immortali, supportato egregiamente dal gruppo dei fratelli Goldsmith e dal loro produttore. Alto e magro, capello lungo e barba incolta, Wilson sembrava una di quelle tipiche icone californiane degli anni settanta. Mostrò subito la stoffa del leader, come ottimo chitarrista e corista, e Browne gli cedette la scena per fargli eseguire Gentle Spirit, la lunga e affascinante ballad che dà il titolo all’ album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ .

Esattamente due anni dopo la scena si è ripetuta al Carroponte, spazio concertistico alle porte di Milano, con la sostanziale differenza che stavolta Jonathan era l’unico protagonista della serata con la sua band. Io, gli amici e ciascuno dei presenti ci siamo goduti un’esibizione esaltante di rock imbevuto di psichedelia e divagazioni folk di chiara matrice californiana. I brani, spesso dilatati da pregevoli parti strumentali in cui giganteggiava la chitarra del leader, ben coadiuvato dai suoi compagni, davano l’idea di un musicista maturo, abile riesumatore di suoni del passato assemblati con gusto ed intelligenza. Questa impressione fu pienamente confermata dall’uscita del successivo album Fanfare, nell’ottobre del 2013, che fece incetta di critiche positive un po’ ovunque, generando al contempo un equivoco che perdura ancora oggi, ovvero il considerare Jonathan Wilson come una sorta di erede del suono californiano degli anni d’oro di quella comunità di musicisti che si era formata nei dintorni di Los Angeles nell’area di Laurel Canyon (dove tuttora Jonathan possiede uno studio di registrazione, rinomato per le sue preziose apparecchiature analogiche). La varietà delle fonti d’ispirazione da cui Wilson attinge è molto più ampia e complessa, riguarda tanto il contesto americano quanto quello britannico, come testimonia la sua produzione e collaborazione con una colonna del folk rock inglese come Roy Harper, oppure la recente partecipazione all’ultimo album di Roger Waters e al successivo tour che è appena andato in scena nei palasport italiani, dove Jonathan si esibisce come seconda chitarra, cantando le parti che erano di David Gilmour.

Rare Birds , il nuovo album pubblicato all’inizio di marzo, lo evidenzia ancora di più, nelle tredici lunghe tracce che il suo autore ha definito cosmiche, originate da uno stato d’animo spesso non positivo, il tentativo di superare una situazione di abbandono e di solitudine. Wilson mescola sapientemente sonorità vintage usando l’elettronica accanto a strumenti tradizionali, creando un connubio quasi sempre riuscito e piacevole. L’iniziale Trafalgar Square si apre come una citazione della pinkfloydiana Breathe, con le voci registrate e la languida steel guitar sullo sfondo, poi una sventagliata di mandola apre la strada ad un’elettrica dal suono sporco e la canzone prende corpo in modo efficace. Ancora meglio Me, che parte sonnacchiosa e si sviluppa in modo avvolgente fino all’esplosione finale che vede protagonista una chitarra distorta e urticante. Over The Midnight, coi suoi furbi campionamenti stile anni ottanta, ha una struttura melodica che inevitabilmente conquista e invita a premere sull’acceleratore durante le guide notturne. There’s A Light ci rituffa in California, con una bella lap steel a condurre le danze e una melodia ancora accattivante, con le belle armonie vocali delle Lucius. Il pianoforte domina la nostalgica Sunset Blvd, fino alla conclusiva stratificazione di suoni che rimanda a certe composizioni del suo quasi omonimo, l’inglese Steven Wilson. La title track offre acide sventagliate di chitarra che è facile accostare al maestro Neil Young, nulla di nuovo, ma certamente gradevole. 49 Hairflips scava ancora nel melodramma di un amore finito, il piano si fonde in un magma di tastiere dall’effetto evocativo e malinconico.

In Miriam Montague convivono i Kinks e l’Electric Light Orchestra in una specie di mini suite non particolarmente esaltante. Meglio il mantra ipnotico Loving You che, grazie ai vocalizzi del guru della new age Laraaji ci conduce in territori insoliti ed evocativi. Ancora atmosfere notturne dominano la successiva Living With Myself che gioca sul contrasto tra le strofe crepuscolari ed un ritornello solare. Il synth sullo sfondo sembra rubato a quello che Roy Bittan suonava in Downbound Train o in I’m On Fire  Boss, e che dire allora della rullata di batteria campionata su cui si basa tutta la ritmica della successiva Hard To Get Over? Andate a riascoltare l’intro di Don’t Come Around Here No More di Tom Petty (e Dave Stewart) e non potrete ignorarne la somiglianza. Dall’episodio meno riuscito del disco ad uno dei più positivi, il country scanzonato e un po’ ruffiano di Hi Ho To Righteous, in cui convivono lap steel e disturbi rumoristici quasi a voler parodiare inni del passato come Teach Your Children. Notevole anche qui il finale in crescendo che ci conduce alla rarefatta e conclusiva Mulholland Queen, una intensa e disperata confessione che si sviluppa sulle note del piano e dell’orchestra in sottofondo. Fra echi e rimandi non si può dire che Rare Birds sia un disco innovativo e neppure un capolavoro (e certo non merita le critiche negative che qualcuno, pochi, a torto gli hanno appioppato), eppure ascoltarlo fa lo stesso effetto che guidare su una strada panoramica: ad ogni curva ti puoi imbattere in uno scorcio bello ed emozionante.

Marco Frosi

Un’Ottima Band Dal Nobile Lignaggio! Midnight North – Under The Lights

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Midnight North – Under The Lights – Trazmick CD

I Midnight North sono un quintetto californiano con già due album in studio ed un live all’attivo, e sono guidati da un giovane chitarrista e cantante, Grahame Lesh, che è anche figlio d’arte, e non uno qualsiasi: infatti il padre è proprio Phil Lesh, storico bassista dei Grateful Dead, una delle colonne portanti del leggendario gruppo di San Francisco sin dalla prima ora. Quindi Grahame non ha avuto un’infanzia ed un’adolescenza qualunque, ma è cresciuto respirando grande musica ogni singolo giorno, cosa che sicuramente gli è servita a formarsi un background culturale di tutto rispetto: questo è evidente ascoltando questo Under The Lights, terzo album della sua band, che è indubbiamente un signor disco. Lesh Jr. (che è coadiuvato dalla seconda voce solista di Elliott Peck, che nonostante il nome è una ragazza, dal polistrumentista Alex Jordan e dalla sezione ritmica formata da Alex Koford e Connor O’Sullivan) ha però uno stile diverso dal gruppo di suo padre, in quanto è fautore di un rock chitarristico decisamente diretto ed imparentato con il genere Americana: Graheme scrive canzoni semplici e fruibili, ma non banali, ha un senso della melodia non comune e le sue canzoni sono tutte estremamente piacevoli; l’unico punto in comune con i Dead può essere una certa tendenza alla jam nella coda strumentale di alcuni pezzi, anche perché se ci pensiamo un attimo anche il combo guidato da Jerry Garcia nei dischi in studio era spesso piuttosto diverso che durante i concerti.

Under The Lights è quindi un disco di puro rock, con qualche aggancio al country ed una brillante propensione alle melodie corali e dirette, un lavoro fresco e piacevole, che spero metta in luce questo gruppo aldilà del cognome del suo leader. Anche se poi mi viene in mente che i due più bei dischi di studio dei Dead, Workingman’s Dead ed American Beauty, erano anch’essi esempi di Americana ante litteram, e quindi in un certo senso il cerchio si è chiuso. Il CD parte col piede giusto con la bella title track, una rock song fluida e scorrevole, dall’ottimo refrain corale, un tocco country ed un uso scintillante di piano e chitarra. E Grahame è un cantante migliore di suo padre (non che ci volesse molto). Playing A Poor Hand vede la Peck alla voce solista (lei e Lesh si alterneranno per tutto il disco), per una rock ballad ariosa, cadenzata e decisamente gradevole, con un bel gusto melodico che è un po’ il fiore all’occhiello del gruppo; la gioiosa Everyday è una via di mezzo tra un errebi con tanto di fiati ed un pop-rock alla Fleetwood Mac, mentre Greene County è chiaramente una country ballad, sempre di stampo californiano, con qualcosa di Eagles e del Bob Seger più bucolico (Fire Lake).

Roamin’ ha un approccio più rock, con sonorità anni settanta ed il solito ritornello immediato, Headline From Kentucky è una ballata elettrica dal ritmo sostenuto e dal mood intrigante, con un ottimo motivo senza sbavature: tra le più belle del CD; una bella chitarra introduce la fluida Back To California, fino ad ora la più dead-iana (più nella parte strumentale che nella melodia), ed anche qui siamo di fronte ad un brano coi fiocchi, mentre la saltellante e coinvolgente One Night Stand dona al disco un altro momento di allegria e buona musica. Echoes è un rock a tutto tondo, tra le più elettriche del lavoro e con tracce di Tom Petty, con ottime parti di chitarra e solito refrain vincente, The Highway Song è vera American music, un pop-rock terso ed altamente godibile, che porta in un soffio alla conclusiva Little Black Dog, puro country elettroacustico ancora corale e gioioso, che ricorda quasi la Nitty Gritty Dirt Band dei bei tempi. Midnight North è un nome da tenere a mente, il nome di un’altra piccola grande band sotto il sole della California.

Marco Verdi

Un Esordio Fulminante: Garantisce La “Regia” Di Dwight Yoakam! King Leg – Meet King Leg

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King Leg – Meet King Leg – Sire/Warner CD

Devo essere sincero: mi sono avvicinato a questo disco solo quando ho visto che il produttore era Dwight Yoakam, cosa resa ancora più interessante dal fatto che colui che io considero il miglior countryman degli ultimi trent’anni solitamente non presta i suoi servizi su album altrui (perfino i suoi ha iniziato a produrli da poco, cioè da quando ha interrotto la sua lunga collaborazione con Pete Anderson). King Leg è una band proveniente da Los Angeles, ma può benissimo essere considerato anche il nome d’arte del suo leader Bryan Joyce, un rocker originario del Nebraska che del gruppo è cantante solista, autore dei brani e chitarrista ritmico (gli altri membri rispondono ai nomi di Stefano Capobianco – dalle chiare origini – alla chitarra solista, Kelly King alla batteria, Daniel Rhine al basso e tastiere e Dylan Durboraw al calliope, una sorta di strano organetto vintage che fa molto Tom Waits). Dopo aver mosso i primi passi a Nashville, Joyce/King Leg si è spostato a L.A., dove è stato notato dal leggendario Lenny Waronker, uno che nella sua carriera credo abbia imparato a riconoscere il talento, che lo ha voluto nei Capitol Studios ad incidere il suo debut album per la Sire, altra etichetta dal glorioso passato.

Ed il disco, Meet King Leg (uscito lo scorso Ottobre) è una piccola bomba, un concentrato davvero stimolante di rock’n’roll, pop, atmosfere vintage ed un vago approccio punk in alcuni brani: la presenza di Yoakam ha garantito il fatto di avere un suono perfetto (ed infatti è davvero scintillante), molto basato sulle chitarre, anche se lo stile di Bryan non è per niente country (tranne che in un pezzo), ma piuttosto una fusione di puro rock californiano alla Tom Petty con atmosfere alla Byrds, qualcosa dei Ramones ed un grande amore per Roy Orbison (anche dal punto di vista vocale ci sono dei riferimenti, ed anche una certa somiglianza con Morrissey, ed infatti a Nashville il nostro per un periodo ha guidato una cover band degli Smiths). Capisco che letti così questi nomi potrebbero fare anche a pugni, ma credetemi se vi dico che, come inserirete il CD nel lettore, tutto si amalgamerà subito alla perfezione: per certi versi questo disco mi fa venire in mente l’esordio degli Shelters (lì il produttore era Petty), la stessa bravura, lo stesso tipo di canzoni dirette (anche se in quel caso erano più rock), la stessa freschezza nella proposta musicale. E Dwight, che non è uno sprovveduto, ha addirittura voluto che Joyce e compagni aprissero i suoi concerti. Apre il CD Great Outdoors (che è anche il primo singolo), un brano tra rock’n’roll e power pop, con un gran ritmo, chitarre jingle-jangle ed un motivo molto diretto, condito dalla caratteristica voce tenorile di Bryan.

Cloud City è una rock ballad decisamente particolare: dopo un inizio acustico ed attendista il suono si elettrifica di brutto, con la sezione ritmica che pesta alla grande ed il nostro che gorgheggia da par suo. La deliziosa Walking Again è un honky-tonk elettrico, unico pezzo vicino al sound di Yoakam, guizzante e chitarristico, mentre Another Man è una ballata gentile e squisita, puro folk cantautorale, che ci fa capire che i nostri hanno parecchie frecce al loro arco. Your Picture è un coinvolgente pop’n’roll ancora con il suono ruspante delle chitarre ben in evidenza (ed un bellissimo ancorché breve assolo di slide), Comfy Chair è uno slow profondo, fluido e toccante, ma con la sua bella dose di rock che entra sottopelle, con una chitarrina molto anni sessanta (in pratica una grande canzone), ed è unita in medley alla tersa A Dream That Never Ends, uno splendido brano in puro stile vintage, alla Orbison, cantato molto bene e col solito bellissimo tappeto di chitarre, una delle migliori e più evocative del CD. Wanted è ritmata, limpida ed orecchiabile ancora tra The Big O e Tom Petty, con una melodia deliziosamente fruibile, Loneliness è un’ottima e solare pop song, anch’essa potenzialmente un singolo di grande presa: più va avanti e più mi sento di metterla tra le meglio riuscite. Il disco si chiude con la cristallina Seeing You Tonight, decisamente pettyiana e con il consueto splendido suono di chitarra, la strepitosa Moaning Lisa Screaming, con il suo bel chitarrone alla Duane Eddy, una rock song strumentale nella quale però Bryan si produce in suggestivi vocalizzi, e con la cover di Running Scared, proprio il classico di Orbison: materia pericolosa, ma Joyce e compagnia se la cavano alla grande, e senza fare il verso al leggendario rocker texano, senza sfigurare neppure nel famoso crescendo finale.

Ci sarà stato anche l’aiutino dalla regia (Dwight Yoakam), ma i King Leg si dimostrano un gruppo coi controfiocchi e Bryan Joyce un frontman con carattere, personalità e talento: alla faccia di chi pensa che il rock’n’roll sia morto o morente.

Marco Verdi

Da Nashville, Con Orgoglio. Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound

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Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound – Southeastern Records

Jason Isbell, ormai giunto al sesto album da solista dopo la positiva parentesi come chitarrista e compositore nei Drive By Truckers dal 2001 al 2007, rivendica con forza e con le armi della buona musica la sua appartenenza ad una delle città musicali per eccellenza degli U.S.A., la celeberrima Nashville, da molti considerata il simbolo della musica country da classifica, banale e stereotipata, che spesso si mescola al pop. Jason sostiene che questa sia una falsa immagine, provocata dalle scelte di importanti case discografiche che investono su artisti fasulli mandandoli ad incidere nei rinomati studi nashvilliani, ma i musicisti veri, che a Nashville ci vivono e ci lavorano, come il grande veterano John Prine o l’emergente Chris Stapleton, sono fatti di altra pasta e producono musica di assoluto valore. Diventa allora pienamente giustificato, per il nostro songwriter originario della vicina Alabama, intitolare orgogliosamente la propria ultima fatica The Nashville Sound, pubblicato a metà dello scorso giugno e già premiato da critica e pubblico come uno dei migliori dischi di Americana dell’anno appena concluso (*NDB Di cui colpevolmente non avevamo recensito, per motivi misteriosi, neppure i due dischi precedenti e quindi rimediamo, nell’ambito della serie di recuperi “importanti” di album usciti nel 2017). Squadra che vince non si cambia, e così, per confermare i brillanti esiti dei due precedenti lavori, Southeastern del 2013 e Something More Than Free del 2015, Isbell ha rivoluto con sé in cabina di regia il richiestissimo Dave Cobb, produttore che sa plasmare il suono di un album con utili suggerimenti senza mai risultare troppo invadente.

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https://www.youtube.com/watch?v=w8mMXEUFWu0

Ad affiancare il protagonista, gli ormai fedeli e collaudati componenti della sua band, i 400 Unit (nome che deriva da un reparto psichiatrico dell’ospedale di Florence, in Alabama): la moglie Amanda Shires, al violino e ai cori, già autrice di cinque pregevoli dischi da solista più uno in coppia con Rod Picott, Sadler Vaden alle chitarre, già membro dei Drivin’ N’ Cryin’, Jimbo Hart al basso, Derry DeBorja tastierista co-fondatore dei Son Volt e Chad Gamble alla batteria. Come già accadeva nei due precedenti CDs, come brano di apertura viene scelta un’intensa e malinconica folk ballad: intitolata Last Of My Kind,  prende corpo lentamente fino al pregevole finale in cui ogni musicista dà il suo efficace contributo. Il suono si fa decisamente più duro ed elettrico nella successiva Cumberland Gap, che scorre veloce su territori che rimandano al grande ispiratore Neil Young, noto a tutti per le sue memorabili invettive chitarristiche. Nell’alternanza di ritmi ed atmosfere, si torna alla struttura della ballata con Tupelo (il richiamo nel titolo alla Tupelo Honey del maestro Van The Man non è, secondo me, per nulla casuale), un vero gioiello arrangiato in modo sopraffino, con una linea melodica che conquista al primo ascolto. Altra grande canzone è la drammatica White Man’s World, il cui testo denuncia il razzismo di cui ancora purtroppo sono permeati gli States, soprattutto i vasti territori agricoli del Sud. Notevole il duetto a metà del brano tra la slide di Vaden e il violino della Shires.

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https://www.youtube.com/watch?v=JV7c8V5XLk8

La delicata e acustica If We Were Vampires dà all’album un tocco di romanticismo che non guasta, Jason la canta con tono accorato ed il cuore in mano, doppiato nel ritornello dalla tenue voce della moglie. Anxiety è il pezzo più lungo e strutturato del disco, che ricorda certi epici episodi del mai troppo compianto Tom Petty. Si apre con un aggressivo attacco di chitarre per poi rallentare durante il cantato delle strofe, mantenendo comunque una bella tensione emotiva fino alla parte conclusiva che riesplode in un bel sovrapporsi di tastiera e sei corde acustiche ed elettriche. Molotov non lascia particolarmente il segno, è associabile ad una serie di canzoni elettro-acustiche che rimandano ad un altro illustre collega di Isbell, Ryan Adams. Meglio la graziosa e beatlesiana Chaos And Clothes, chitarra e voce, con qualche piacevole ricamo in sottofondo. Con Hope The High Road torniamo a correre, grazie ad una melodia vincente condotta dalle chitarre e dal limpido hammond sullo sfondo, una splendida song che esprime voglia di vivere e quella speranza a cui fa riferimento il titolo. Conclusione in chiave country-folk con la deliziosa Something To Love, altro fulgido esempio del notevole talento compositivo del suo autore che cresce disco dopo disco, confermandosi uno dei più validi protagonisti dell’attuale scena cantautorale americana. Orgogliosamente Made in Nashville!

Marco Frosi