Un Piccolo Grande Disco Di Puro Garage Rock’n’Roll! Bones Owens – Bones Owens Esce il 26 Febbraio

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Bones Owens – Bones Owens – Black Ranch/Thirty Tigers CD 26-02-2021

Confesso che quando ho visto la copertina dell’omonimo album di esordio di Bones Owens, giovane musicista del Missouri, ho pensato ad un disco di country, anche perché il ragazzo (il cui vero nome è Caleb Owens) ha alle spalle due EP dal suono piuttosto roots. Nulla di più sbagliato: Bones è un rocker dal pelo duro la cui musica è una vigorosa e stimolante miscela di garage rock anni sessanta, Rolling Stones, qualcosa dei Creedence ed un pizzico di blues, ed è depositario di un suono al fulmicotone con la chitarra sempre in primo piano. Bones Owens, prodotto da Paul Moak (che in passato ha lavorato con Marc Broussard e Blind Boys Of Alabama), è registrato in presa diretta e vede la presenza esclusiva di Bones alla chitarra, Jonathan Draper al basso e Julian Dorio alla batteria. Musica senza fronzoli, puro rock’n’roll suonato con grande potenza e feeling, ed in più con una serie di canzoni coinvolgenti e ben scritte che dimostrano che il nostro non sa mostrare solo i muscoli ma è un musicista che sa il fatto suo nonostante la giovane età.

credit Spidey Smith

credit Spidey Smith

Il CD si apre con la potente Lightning Strike, ritmo alto e chitarra in evidenza ma allo stesso tempo un motivo trascinante https://www.youtube.com/watch?v=vr8Y-6z1z1E : un termine di paragone azzeccato possono essere anche i Black Keys. Ancora più riuscita Good Day, una rock’n’roll song figlia degli Stones dal tempo cadenzato, un riff insistito e refrain corale immediato https://www.youtube.com/watch?v=qliGsJiIe2o , mood che si ripete con White Lines, puro rock chitarristico senza fronzoli ma diretto come un pugno nello stomaco, con un retrogusto blues. Il disco non conosce momenti di rilassatezza né concede tregua, ed è una sorta di roboante festival rock’n’roll lungo 37 minuti: When I Think About Love è dura ma piacevole, con un ritmo coinvolgente ed un breve ma incisivo assolo https://www.youtube.com/watch?v=B0fj6OBIgUs , Wave è puro garage rock moderno ma con un orecchio ai sixties (ed il consueto ritornello vincente), Blind Eyes molla leggermente la presa e si rivela come la cosa più vicina ad una ballata, ma in realtà è una rock song coi controfiocchi che a differenza delle precedenti è solo meno pressante (e la chitarra è sempre in tiro) https://www.youtube.com/watch?v=qliGsJiIe2o .

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Con Keep It Close siamo ancora in puro periodo Nuggets, sembra quasi una outtake dei Sonics (sentite basso e batteria, due macigni) https://www.youtube.com/watch?v=CyCk8HZGxrA , Ain’t Nobody è un rock-blues tosto ma godibile ancora con i Black Keys in testa, mentre Come My Way è ancora ruspante e godurioso rock’n’roll tutto ritmo e chitarra. Il CD si chiude con le energiche Country Man e Tell Me, ennesime sventagliate elettriche di livello egregio, bluesata la prima e con un riff quasi heavy la seconda, e c’è spazio anche per la “ghost track” Keep On Running, cadenzato e gustoso pezzo dal crescendo travolgente. Questo album di debutto da parte di Bones Owens è dunque una delle prime grandi sorprese del 2021, ed è un disco da far sentire in loop a chi sostiene che il rock sia morto.

Marco Verdi

Dopo Un Grande Album In Studio, Ecco Un Ottimo Live. Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman

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Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman – Loma Vista/Universal CD

That’s How Rumors Get Started, ultimo album di Margo Price, è stato per il sottoscritto uno dei dischi del 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/07/11/nuovi-e-splendidi-album-al-femminile-parte-1-margo-price-thats-how-rumors-get-started/ . Un album profondo e coinvolgente con una serie di canzoni splendide da parte di un’artista matura che è andata oltre i suoi esordi country e si è presentata come una singer-songwriter a 360 gradi, proponendo un sound di stampo californiano vicino a certe cose dei Fleetwood Mac e di Tom Petty. L’album, che doveva uscire agli inizi di maggio, è stato però posticipato a luglio a causa della pandemia, ma per consolare i fans Margo ha pubblicato più o meno nello stesso periodo sulla piattaforma Bandcamp (e quindi solo in formato download) un disco dal vivo inedito intitolato Perfectly Imperfect At The Ryman, registrato nel maggio 2018 presso la mitica location del titolo, vero tempio della musica country a Nashville.

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Ora Margo ha deciso di far uscire l’album anche in CD, e devo dire che l’idea è davvero gradita in quanto ci troviamo tra le mani un ottimo live di puro country-rock elettrico, eseguito dalla Price con piglio da vera rocker, cantato benissimo e suonato da una band coi fiocchi formata dal marito Jeremy Ivey alle chitarre (insieme a Jamie Davis), Micah Hulscher alle tastiere, Luke Schneider alla steel e dobro e con la sezione ritmica formata dal bassista Kevin Black e dal batterista Dillon Napier, oltre ad un nutrito gruppo di backing vocalist e tre ospiti d’eccezione che vedremo a breve. Chiaramente essendo un concerto di più di due anni fa non ci sono le canzoni di That’s How Rumors Get Started, ma una selezione del meglio dei primi due album di Margo ed un paio di cover azzeccate. L’iniziale A Little Pain è una ballata a tempo di valzer ma suonata con molto vigore: la Price possiede una gran voce ed il brano ha un delizioso sapore anni 60, compreso l’assolo chitarristico in stile twang.

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Weekender è una bella canzone dalla tipica melodia country (ricorda parecchio Dolly Parton), ma con un arrangiamento funk-rock che crea un contrasto interessante (e che voce). Il tutto precede la squisita Wild Women, vivace e coinvolgente country-rock con Emmylou Harris che raggiunge Margo per un duetto tutto da godere https://www.youtube.com/watch?v=DetT8QUvp1w . La Price saluta Emmylou ed invita sul palco l’amico Sturgill Simpson (che tra l’altro ha prodotto il suo ultimo disco) per una rilettura tutta ritmo e chitarre del classico di Rodney Crowell I Ain’t Living Long Like This https://www.youtube.com/watch?v=iw1MOT4W6sc , controbilanciato subito dalla tenue e gentile Revelations, mentre Worthless Gold di country non ha praticamente nulla essendo una rock song elettrica e riffata, che dimostra la versatilità di Margo ed anche la sua grinta.

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Il trascinante honky-tonk medley intitolato Hurtin’ (On The Bottle), in cui compare anche un accenno a Whiskey River di Willie Nelson, fa da apripista per una versione inizialmente rallentata e sinuosa dell’evergreen dei Creedence Proud Mary, quasi come se l’autore invece di Fogerty fosse Tony Joe White https://www.youtube.com/watch?v=IYhYhzjugFU , ma poi arriva una decisa accelerata ed il pezzo assume la veste di un travolgente gospel-rock grazie anche al botta e risposta con il Gale Mayes Nashville Friends Choir. Chiusura con All American Made, slow di quasi otto minuti molto intensi per voce, piano e armonica  https://www.youtube.com/watch?v=E9-ORYUNqhw, l’energico rockin’ country Honey, We Can’t Afford To Look This Cheap, in cui Margo duetta con un acclamatissimo Jack White (co-autore del pezzo) https://www.youtube.com/watch?v=ngyvtmMA_6Q , e con la delicata ballata acustica World’s Greatest Loser. Scusate il bisticcio di parole, ma questo Perfectly Imperfect At The Ryman è un live molto “vivo”, ed un altro bel disco per la bravissima Margo Price.

Marco Verdi

Un Altro “Grosso” Protetto Di Mike Zito. Kevin Burt – Stone Crazy

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Kevin Burt – Stone Crazy – Gulf Coast Records

Il famoso detto recita “una ne fa e cento ne pensa”, ma nel caso di Mike Zito dovremmo modificarlo in “cento ne pensa e cento ne fa”, in quanto il nostro texano preferito è sempre impegnatissimo con nuovi progetti. Certo aiuta molto il fatto che avere una studio casalingo vicino a casa, soprattutto in questo periodo di pandemia durante il quale i musicisti non possono andare in giro in tour e quindi si occupano delle loro cose: nel caso di Zito anche il fatto di avere una propria etichetta è ulteriore stimolo. E quindi in questi mesi di quarantena ha “prodotto” molto: andando a ritroso troviamo nuovi album di Kat Riggins, il ritorno dei Louisiana’s Le Roux, l’ottimo disco della Mark May Band, quello dei Proven Ones, lo stesso Zito con Quarantine Blues. Il comune denominatore è che sono tutti belli: ora si aggiunge anche questo CD di Kevin Burt, registrato a giugno ai Marz Studios di Nederland. Texas, dove vive il buon Mike.

Come si rileva facilmente dalla foto di copertina Burt è una “personcina” più o meno delle dimensioni di Popa Chubby, e che brandisce la sua Gibson come fosse uno stuzzicadenti: alla registrazione di Stone Crazy hanno partecipato alcuni dei fedelissimi di Zito, ovvero l’ottimo Lewis Stephens a piano e organo, e la sezione ritmica formata da Doug Byrkit al basso e Matthew Johnson alla batteria, con lo stesso Zito che aggiunge anche le sue chitarre a profusione. Burt scrive tutte le canzoni, con l’eccezione della cover di Better Off Dead di Bill Withers. Ah dimenticavo, Mr. Burt, che suona anche l’armonica nel disco, è uno di quelli bravi, ottimo strumentista e voce potente, ma anche duttile, influenzata sia dal blues come dal soul, forgiata in 25 anni di musica on the road, che lo ha portato in giro in tour per gli States, a registrare un paio di CD precedenti autogestiti e a vincere alcuni premi nelle consuete classifiche blues.

Si parte subito forte con il blues di I Ain’t Got No Problem With It, dove l’armonica guida le volute di un brano fortemente influenzato da funky e R&B, mentre Kevin canta con brio, nella successiva Purdy Lil Thang si viaggia su territori cari allo swamp rock di Tony Joe White o al sound dei Creedence, chitarre acustiche ed elettriche in bella vista, l’ottima voce sempre in evidenza, mentre Rain Keeps Comin’ Down, con slide ed armonica a guidare le danze ha forti elementi sudisti nella costruzione del brano, ed un ottimo lavoro al bottleneck; la title track è una bella soul ballad, calda e suadente, sempre con la voce espressiva di Kevin in primo piano, per un sound che non è giocato su un lavoro da axeman, ma più da musicista raffinato, quale e è il nostro amico. In Busting Out entra in azione l’organo di Stephens e il suono si fa più pressante ed incisivo, sempre con derive funky e southern vintage anni ‘70 e un bel groove della band, mentre la chitarra inizia a lavorare di fino con un bel assolo.

Same Old Thing è un’altra piacevole ballata mid-tempo più influenzata dal blues, con Kevin che canta con fervore e lascia andare la solista con classe e feeling, You Get What You See è un boogie-shuffle dal bel drive, dove appare anche un sassofono non accreditato e un sound che richiama alla Marshall Tucker Band, con il plus della voce di Burt che è veramente un cantante espressivo. La musica sudista classica torna anche nella elettroacustica Something Special About You un rock got soul in crescendo di grande fascino, ottima anche Should Have Never Left Me Alone, un blues con uso R&B, che grazie anche alla presenza costante dell’armonica mi ha ricordato i non dimenticati Wet Willie di Jimmy Hall, ed eccellente anche la cover di Better Off Dead di Withers, dove il soul dell’artista nero viene coniugato con il rock in modo impeccabile, con la conclusiva Got To Make A Change dove una slide minacciosa ed incombente caratterizza un altro brano di ottima fattura dove la band e Kevin Burt hanno modo di mettere in evidenza con personalità la loro bravura. Ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

A Volte, Fortunatamente, Ritornano Come Un Tempo! Ray LaMontagne – Monovision

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Ray Lamontagne – Monovision – Rca Records

I primi quattro album di Ray LaMontagne, da Trouble del 2004 a God Willin’ & The Creek Don’t Rise del 2010, mi erano piaciuti moltissimo, e non solo a me, perché erano dischi veramente bellissimi e furono anche di grande successo, perché complessivamente avevano venduto quasi 2 milioni di copie solo negli Usa, gli ultimi due arrivando fino al 3° posto delle classifiche, tanto che Ray (dopo una vita in cui aveva girovagato dal nativo New Hampshire, poi nello Utah e nel Maine) si era potuto permettere di comprare una fattoria di 103 acri a Ashfield, Massachusetts, per oltre un milione di dollari, dove vive tuttora e ci ha costruito anche uno studio di registrazione casalingo. Brani in serie televisive, colonne sonore, VH1 Storytellers, un duetto con Lisa Hannigan nel disco Passenger del 2011, Insomma lo volevano tutti: poi nel 2014 esce il disco Supernova, prodotto da Dan Auerbach, un disco dove il suono a tratti vira verso la psichedelia, un suono molto più “lavorato” e con derive pop barocche, non brutto nell’insieme, tanto che molte critiche sono ancora eccellenti e il disco arriva nuovamente al terzo posto delle classifiche di Billboard, alcuni brani ricordano il suo suono classico, ma nel complesso è “diverso”. Nel 2016 ingaggia Jim James dei My Morning Jacket per Ouroboros dove il pedale viene schacciato ulteriormente verso una psichedelia ancora più spinta, chitarre elettriche distorte, rimandi al suono dei Pink Floyd in lunghi brani con improvvisazoni strumentali, voce filtrata o utilizzata in un ardito falsetto, per chi scrive anche un po’ irritante, benché ci siano dei passaggi quasi bucolici e sereni che si lasciano apprezzare, sempre se non avesse fatto i primi quattro album.

Il disco va ancora abbastanza bene, per cui si ritira per la prima volta nel suo studio The Big Room e decide di proseguire con la sua svolta “cosmica” pubblicando nel 2018 Part Of The Light, che però cerca di coniugare lo spirito rock dei dischi precedenti ad altri momenti più intimi e ricercati che rimandano al folk astrale dei primi album, un ritorno alle sonorità più amate della prima decade. Che giungono a compimento in questo nuovo Monovision dove, come ricordo nel titolo, LaMontagne ritorna, per citare altre frasi celebri e modi di dire, sulla diritta via e lo fa tutto da solo (d’altronde “chi fa da sé fa per tre”) suonando tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, sezione ritmica e componendo una serie di brani ispirati a sonorità più morbide, rustiche e “campagnole”, l’amato Van Morrison e il suo celtic soul, il primo Cat Stevens, mai passato di moda, la West Coast californiana e il Neil Young degli inizi, il tutto ovviamente rivisto nell’ottica di Ray che prende ispirazione da tutto quanto citato ma poi, quando l’ispirazione lo sorregge, come in questo disco, è in grado di emozionare l’ascoltatore anche con la sua voce particolare ed evocativa.

Prendiamo l’iniziale Roll Me Mama, Roll Me, una chitarra acustica arpeggiata, la voce sussurata che diventa roca e granulosa, un giro di basso palpitante che contrasta con l’atmosfera più intima ed improvvise aperture bluesy, che qualcuno ha voluto accostare, non sbagliando, ai Led Zeppelin più rustici e fok de terzo album. I Was Born To Love You è una di quelle ballate meravigliose in cui il nostro amico eccelle, un incipit acustico alla Cat Stevens che si trasforma all’impronta in una lirica melodia westcoastiana, con fraseggi deliziosi dell’elettrica e il cantato solenne di un ispirato LaMontagne che fa una serenata alla sua amata. Strong Enough è la canzone più mossa e ottimista del disco, un ritmo che prende spunto dalla soul music miscelato con il groove del rock classico dei Creedence, la voce di Ray che si fa “nera”, sfruttando al massimo la sua potenza di emissione.

Summer Clouds torna al suono di una solitaria acustica arpeggiata, alla quale il nostro amico aggiunge una tastiera che riproduce il suono degli archi, un cantato quieto ed avvolgente, uguale e diverso al contempo da quello malinconico di Nick Drake e dei folksingers britannici dei primi anni ’70, ma anche di un Don McLean; We’ll Make It Through, il brano più lungo con i suoi sei minuti, si avvale del suono dolcissimo di una armonica soffiata quasi con pudore, senza volere disturbare, un omaggio al soft rock delle ballate dolci e pacatamente malinconiche dei cantautori californiani dei primi anni ’70.

Misty Morning Rain ci riporta al suono dell’esordio Trouble, quando LaMontagne veniva giustamente presentato come un epigono del Van Morrison più mistico, con il suo celtic soul, dove la forza impetuosa del cantato solenne di Ray e la musica incalzante convergono in un tutt’uno assolutamente radioso ed affascinante, mentre Rocky Mountain Healin’ sembra uscire dai solchi di After The Gold Rush o di Harvest di Neil Young, LaMontagne armato di armonica, questa volta fa la serenata alle Montagne Rocciose, che anche il sottovalutato John Denver aveva cantato in una delle sue composizioni più belle e il nostro amico non è da meno in un altro brano di qualità eccellente. In Weeping Willow LaMontagne si sdoppia alla voce in una canzone che rende omaggio a gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel in un adorabile quadretto sonoro demodé, ma ricco di affettuose sfumature. Delicata ed avvolgente anche la bucolica Morning Comes Wearing Diamonds è un piccolo gioiellino acustico di puro folk pastorale con Ray che ci regala ancora squisite armonie vocali di superba fattura. E nella conclusiva Highway To The Sun il buon Ray si avventura anche nelle languide atmosfere country-rock che avremo sentito mille volte ma quando sono suonate e cantate con questa passione e trasporto ti scaldano sempre il cuore. Semplicemente bentornato!

Bruno Conti

Mike Zito: Un Texano Onorario Tra Rock E Blues, Parte II

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Gli Anni Della Ruf 2012-2019: dai Royal Southern Brotherhood al lavoro come produttore e scopritore di talenti, ai dischi da solista.

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Nel 2011, dopo avere firmato per la tedesca Ruf, forma i Royal Southern Brotherhood con Cyril Neville dei Neville Brothers, Devon Allman, il figlio di Gregg, e una potente sezione ritmica con Charlie Wooton al basso e Yonrico Scott alla batteria, pubblicando nel 2012 Royal Southern Brotherhood – Ruf Records 2012 ***1/2 un eccellente omonimo esordio, prodotto da Jim Gaines, che fonde mirabilmente le diverse attitudini dei tre protagonisti, e con Mike che firma tre brani con Cyril e due in proprio, Hurts My Heart, un robusto rocker alla Seger e la sudista All Around The World, oltre alla collettiva Brotherhood, e lo stesso anno, registrano in Germania il potente CD+DVD dal vivo Songs From The Road – Ruf Records 2013 ***1/2, che ai brani dell’esordio unisce due gagliarde tracce finali come Sweet Little Angel di B.B. King e la pimpante Gimme Shelter degli Stones.

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Il terzo e ultimo album con i RSB è heartsoulblood – Ruf Records 2014 ***, poi Zito e Allman saluteranno, sostituiti da Tyrone Vaughan, figlio di Jimmy e Bart Walker: ancora una volta prodotto da Jim Gaines (che ai tempi non amavo particolarmente, ma poi ho rivalutato in virtù anche delle sue collaborazioni con Albert Cummings, splendida l’ultima); disco che una volta di più è buono ma non eccelso, insomma Live a parte la band non ha mai sfruttato a fondo le proprie potenzialità, con Zito che presenta una buona ballata come Takes A Village e il rock-blues sinistro di Ritual, e tra le collaborazioni, la corale e poderosa World Blues, puro southern rock, il funky-latin santaniano di Groove On con Devon, nonché Callous con Cyril, oltre ad altri tre brani scritti collettivamente Trapped, She’s My Lady, e Love And Peace, che ogni tanto sconfinano in un funky-soul di maniera, anche se il lavoro delle chitarre, soprattutto di Zito, è sempre eccellente, però complessivamente mi aspettavo di più.

mike zito gone to texas

Nel frattempo Mike Zito pubblica il suo primo album da solista per la Ruf (e inizia anche il suo lavoro di produttore e scopritore di talenti conto terzi, ma ne parliamo alla fine): Gone To Texas – Ruf Records 2013 **** il suo primo lavoro con i Wheel è un gran bel disco, un album autobiografico che raccoglie le storie del suo viaggio ideale e reale da St. Louis al Texas, attraverso una serie di brani che raccontano la sua redenzione dai demoni del passato, l’incontro con la moglie che lo ha salvato dalla sua lunga dipendenza dalle droghe: il disco, registrato comunque a Maurice in Louisiana, vede la presenza di un ispirato Sonny Landreth alla slide nella gagliarda Rainbow Bridge, una canzone che è una via di mezzo tra il miglior John Hiatt e Bob Seger, con l’aiuto dei Little Feat, e con Susan Cowsills che lo “aizza” con il suo contributo vocale.

Gone To Texas è una ballata sudista che rivaleggia con le migliori degli Allman Brothers, con l’interplay sapido tra il sax di Jimmy Carpenter e la chitarra di Zito, sostenuti dall’organo del bravissimo Lewis Stephens e dalla voce della Cowsills, una vera meraviglia. Molto bello anche il duetto con Delbert McClinton in The Road Never Ends, scritta con Devon Allman, dove bisogna scomodare ancora una volta il miglior Bob Seger, in un florilegio di armonica (suonata da McClinton) e piano che interagiscono con la slide sinuosa di Mike. McClinton che firma anche il delizioso blue-eyed soul di Take It Easy, con grande interpretazione vocale di Zito: non manca ovviamente il blues “cattivo” e distorto di Don’t Think Cause You’re Pretty di Lightnin’ Hopkins e quello più gentile, acustico e canonico di Death Row, oltre a quello meticciato, tra New Orleans e Little Feat, di Subtraction Blues, o una scorrevole Wings Of Freedom che ricorda ancora una volta, indovinate, Bob Seger, grazie anche alla presenza del sax di Carpenter che rammenta Alto Reed della Silver Bullet Band.

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Uno dei dischi migliori della sua discografia, che viene festeggiato con il CD+DVD Songs From The Road – Ruf Records 2014 ***1/2, registrato nel gennaio del 2014, sempre accompagnato dai Wheel, in quel di Dosey Doe, The Woodlands, TX., un piccolo locale della cittadina texana: al solito, come in altri titoli della serie della etichetta tedesca, il repertorio del CD differisce da quello del DVD, ma complessivamente il risultato è esplosivo: si apre con il funky-rock misto a soul, tra James Brown e l’Average White Band, di Don’t Break A Leg, con Carpenter sugli scudi, poi oltre ai brani di Gone To Texas troviamo una versione tra Stones e southern rock di Greyhound, con grande lavoro di Zito alla slide, l’imperiosa Pearl River, dove il blues la fa da padrone, e sempre da quel disco una grande versione di C’Mon Baby, mentre Judgment Day viene da Greyhound, con assolo torcibudella di wah-wah nel finale e nel DVD anche una splendida One Step At A Time.

mike zito keep coming back

Con la solita cadenza l’anno successivo esce Keep Coming Back – Ruf Records 2015 ***1/2, l’ultimo album con i Wheel, quello forse con il suono più alla Creedence di tutti, tanto che in conclusione del CD è posta una cover eccellente della band di Fogerty, ovvero Bootleg, ma prima nel disco, questa volta prodotto da Trina Shoemaker, troviamo la title track, un boogie-rock con bottleneck a manetta, un terzetto di brani firmati con Anders Osborne, tra cui spiccano il delizioso ed ottimista mid-tempo Get Busy Living, una ballatona delicata e bellissima come I Was Drunk, anche una ariosa country song come Early In The Morning e per completare la lista delle sue influenze una versione tiratissima di Get Out Of Denver di Bob Seger e la stonesiana Nothin’ But The Truth, a tutto riff.

mike zito make blues not war

Per la serie non sbaglia un album neanche a pagarlo Make Blues Not War – Ruf Records 2016 ***1/2, questa volta registrato negli studi di Nashville di Tom Hambridge, che cura la produzione oltre a suonare la batteria, manco a dirlo è un album di qualità superiore, a partire dalla torrida Highway Mama dove lui e Walter Trout se le “suonano” di santa ragione, coadiuvati da Tommy MacDonald al basso, Rob McNelley alla seconda chitarra solista, in più il magico Kevin McKendree alle tastiere, nella title track e in One More Train appare anche Jason Ricci all’armonica, per due pezzi che ricordano gli Stones dell’era Mick Taylor, mentre nel duetto con il figlio Zach in Chip Off The Block, viene reso omaggio al Texas Blues del grande Stevie Ray Vaughan e nella lancinante Bad News Is Coming viene rivisitata una delle più belle slow blues ballads di Luther Allison.

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Nel 2018 doppia razione, prima con First Class Life – Ruf 2018 ***1/2 un altro dei suoi dischi migliori in assoluto, dove Zito torna a prodursi in proprio e per l’occasione richiama il vecchio amico, il tastierista Lewis Stephens, mentre Terry Dry e Matthew Johnson sono la nuova sezione ritmica: in Mississippi Nights, di nuovo tra CCR e Seger, fa vibrare quella “voce che ti risuona nell’anima”, come l’ha definita l’amico Anders Osborne, e pure la cover di I Wouldn’t Treat a Dog (The Way You Treated Me), un vecchio brano di Bobby “Blue” Bland, non scherza, cadenzata e vicina allo spirito R&B dell’originale (mi sono autocitato dalla mia vecchia recensione), Mama Don’t Like No Wah Wah, scritta con Bernard Allison, rivela una debolezza personale di Koko Taylor che era refrattaria all’uso nelle sue bands del wah-wah, che però naturalmente viene usato con libidine nel pezzo.

Molto bella The World We Live In tra blue eyed soul e le ballate alla B.B. King, e pure la title track, una southern song che ricorda le alluvioni in Texas dell’anno prima, ha un suo fascino innegabile, come pure Dying Day un brillante e pimpante shuffle dedicato alla moglie Laura, con la solista che viaggia sempre di gusto, tornando poi al Seger Sound per l’ottima Time For A Change, un altro dei brani migliori del CD, che conferma il valore effettivo del nostro amico.

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Pubblicato come Blues Caravan 2018 – Ruf Records ***1/2 Zito fa comunella con Bernard Allison e Vanja Sky per un altro dei CD+DVD dell’etichetta tedesca, con il secondo che riporta ben sette brani in più della versione audio, registrato a gennaio viene pubblicato nel mese di settembre: con il figlio Bernard che omaggia abbondantemente il repertorio del babbo Luther, Zito si ritaglia una parte nella corale Low Down & Dirty posta in apertura, nel terzetto Keep Coming Back, Wasted Time e Make Blues Not War, le ultime due tratte dal disco omonimo, all’epoca del concerto non ancora pubblicato, mentre nel DVD, oltre ad altri due pezzi in trio, troviamo anche l’ottima One More Train. Del disco a nome Mike Zito & Friends, intitolato Rock’n’Roll – A Tribute To Chuck Berry ****, vi ho già cantato le lodi sul blog, andate a rileggervi quanto detto https://discoclub.myblog.it/2019/12/11/ventuno-anzi-ventidue-chitarristi-per-un-disco-fantastico-mike-zito-friends-rock-n-roll-a-tribute-to-chuck-berry/ : 21 chitarristi per rendere omaggio ad un degli uomini che ha inventato il Rock and Roll.

E per finire un cenno alle collaborazioni e alle produzioni del nostro amico, che definire prolifico è dire poco: nel 2011 produce il disco delle Girls With Guitars: la bravissima Samantha Fish, Dani Wilde e Cassie Taylor ***, poi nel 2014 Temptation *** di Laurence Jones, nel 2017 Up All Night***1/2 il disco di Albert Castiglia, dove appaiono come ospiti Sonny Landreth e Johnny Sansone, nel 2018 l’esordio di Vanja Sky Bad Penny ***, lo stesso anno anche Inspired*** di David Julia per la VizzTone e per la Ruf Straitjacket ***1/2 del bravo Jeremiah Johnson. Nel 2019 esce l’esordio della chitarrista texana Ally Venable Texas Honey e anche il disco per la Ruf di Katarina Pejak Roads That Cross ***, protagonista pure del Blues Caravan 2019 con Ally Venable e Ina Forsman. E per non farsi mancare nulla ha partecipato come ospite ai dischi, andando a ritroso, di Mike Campanella nel 2019, Billy Price Dog Eat Dog, sempre nel 2019, Walter Trout We’re All In This Together del 2017, il disco di Fabrizio Poggi & the Amazing Texas Blues Voices del 2016, Cyril Neville Magic Honey del 2013 e dei Mannish Boys Shake For Me del 2010, tanto per citarne solo alcuni.

Grande chitarrista e cantante, attendiamo ora le prossime mosse di Mike Zito, nel frattempo, se volete investigare, dove cascate cascate, trovate solo ottima musica nei suoi CD.

Bruno Conti

Mike Zito: Un Texano Onorario Tra Rock E Blues, Parte I

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Sul finire dello scorso anno è uscito un bellissimo disco, attribuito a Mike Zito & Friends, intitolato Rock’n’Roll – A Tribute To Chuck Berry, nel quale il musicista di St. Louis (ma Texano onorario, visto che da parecchi anni vive a Nederland, una piccola cittadina nella contea di Jefferson, sulla Gulf Coast, vicino a Viterbo – giuro! – dove ha aperto degli studi di registrazione, Marz Studios, casalinghi, ma bene attrezzati, dove pianifica le sue mosse in ambito musicale, sia come cantante e chitarrista in proprio, che come produttore)  rendeva omaggio al suo illustre concittadino https://discoclub.myblog.it/2019/12/11/ventuno-anzi-ventidue-chitarristi-per-un-disco-fantastico-mike-zito-friends-rock-n-roll-a-tribute-to-chuck-berry/ . Anche lui, come altri bluesmen, ha avuto una lunga gavetta, e vari problemi con droghe e alcol nel corso degli anni, ma ora sembra avere trovato la sua strada e si sta sempre più affermando come una sorta di “Renaissance Man” in ambito rock e blues, ma nella sua musica, praticamente da sempre, sono comunque presenti elementi country e southern, soul e R&B, per uno stile che definire eclettico è fargli un torto.

Le origini e il periodo Eclecto Groove 1996-2011

Mike Zito, grande chitarrista, ma anche ottimo cantante, con una voce che potremmo avvicinare, per chi non lo conoscesse e per dare una idea, a quella del Bob Seger più rock: la sua progressione verso il successo e i giusti riconoscimenti è stata lunga e tortuosa, già in azione a livello locale da quando era poco più di un teenager (è del 1970) Zito ha poi in effetti iniziato a pubblicare album indipendenti e distribuiti in proprio da metà anni ’90, il primo Blue Room è del 1996 ed è stato ristampato dalla sua attuale etichetta, la Ruf, nel 2018.

mike zito blue room mike zito today

In seguito ne sono usciti altri due o tre negli anni 2000, ma andiamo sulla fiducia, perché non mi è mai capitato né di vederli, né tantomeno di sentirli, per cui diciamo che l’inizio della carriera ufficiale avviene con la pubblicazione di Today – Eclecto Groove 2008 *** che esce appunto per la piccola ma gloriosa Eclecto Groove, una propaggine della Delta Groove, che cerca di lanciarlo con tutti i crismi del caso: il suo stile è già quasi perfettamente formato, il disco è co-prodotto da Tony Braunagel, che suona anche la batteria, e da David Z, tra i musicisti coinvolti ci sono Benmont Tench alle tastiere, James “Hutch” Hutchinson al basso, Mitch Kashmar all’armonica, Joe Sublett e Darrell Leonard ai fiati, più Cece Bullard e la texana Teresa James alle armonie vocali. Le canzoni sono tutte firmate da Zito, meno la cover di Little Red Corvette di Prince, e l’album lascia intravedere il futuro potenziale di Mike.

Love Like This suona come un incrocio tra John Fogerty e Bob Seger, da sempre grandi punti di riferimento, con la voce da vero rocker del nostro, aspra e potente, mentre la chitarra è meno prominente rispetto ai dischi attuali, Superman è un funky non perfettamente formato e acerbo, mentre Holding Out For Love, tra jazz alla Wes Montgomery e smooth soul non convince e pure la cover di Prince non è eccelsa.Tra le canzoni migliori la lunga e potente Universe, altro brano dal piglio rock, dove Mike comincia a strapazzare la sua chitarra, il mid-tempo elettroacustico di Blinded, lo slow blues urticante di Slow It Down, il country-southern piacevole di Today, Big City che anticipa in modo embrionale il futuro sound dei Royal Southern Brotherhood e in finale l’eccellente ballata autobiografica Time To Go Home.

mike zito pearl river

L’anno successivo esce Pearl River- Eclecto Groove 2009 ***1/2, registrato tra Austin, New Orleans e Nashville, illustra le diverse anime della musica di Zito, ma soprattutto il blues, e presenta un ulteriore step positivo nello sviluppo della sua musica, Dirty Blonde è un eccitante shuffle texano alla Stevie Ray con Mike Zito che mulina la sua chitarra assistito da Reese Wynans all’organo, Pearl River è uno intenso blues lento scritto con Cyril Neville e cantato alla grande, ottima anche la bluesata Change My Ways, molto bella inoltre la collaborazione con Anders Osborne nella delicata One Step At A Time e la brillante versione di Eyesight To The Blind di Sonny Boy Williamson con Randy Chortkoff all’armonica e un ondeggiante pianino che fa tanto New Orleans.

Come ribadisce la deliziosa e scandita Dead Of Night con Jumpin’ Johnny Sansone alla fisarmonica, per un tuffo nel blues made in Louisiana, 39 Days è un blues-rock di quelli gagliardi e tirati con Susan Cowsill alle armonie vocali, che rimane anche a duettare nella stonesiana Shoes Blues, ma questa volta non c’è un brano scarso in tutto il disco, fantastica pure la cover di Sugar Sweet di Mel London, con un groove di basso libidinoso e Zito e Wynans che duettano alla grande, e in Natural Born Lover Mike sfodera il bottleneck per un altro blues di quelli tosti.

mike zito live from the top

Nel 2009 esce anche Real Strong Feeling, un disco dal vivo uscito per la sua etichetta personale di cui non vi so dire nulla, ma sono le prove generali per il disco Live From The Top – Mike Zito.Com 2010/Ruf Records 2019 ***1/2, ristampato dalla etichetta tedesca sul finire dello scorso anno, con il repertorio pescato a piene mani dall’album del 2009, più alcune cover di pregio e una sfilza di ospiti notevoli: intanto c’è Jimmy Carpenter, futuro sassofonista dei The Wheel, Ana Popovic alla solista per una robusta e super funky versione di Sugar Sweet, con la chitarrista serba in modalità wah-wah e Mike che ribatte colpo su colpo.

E ancora una bellissima versione elettrica di One Step At A Time di Osborne, che sembra una brano del miglior Seger anni ’70, e ancora una torrida 19 Years Old di Muddy Waters, con Nick Moss alla slide e Curtis Salgado all’armonica, e un gran finale con lo slow blues All Last Night di George Smith, una tiratissima Hey Joe di Mastro Hendrix a tutto wah-wah, che pare uscire dal disco con i Band Of Gypsys e Ice Cream Man un oscuro brano di John Brim, contemporaneo di Elmore James, brano ripreso anche dai Van Halen, dove Zito va di nuovo a meraviglia di slide.

mike zito greyhound

L’anno successivo, registrato ai Dockside Studios di Lafayette, Louisiana, con la produzione di Anders Osborne, che appare anche come secondo chitarrista, esce Greyhound – Eclecto Groove 2011 ***1/2, altro solido album dal suono più roots e swampy, vista la location, e la sezione ritmica di Brady Blade alla batteria e Carl Dufrene al basso, abituali collaboratori di Tab Benoit, e quindi già orientati verso quel tipo di sound: tutto materiale originale di Mike, con due collaborazioni con Osborne e Gary Nicholson, si passa dal solido groove rock di Roll On, ancora con la slide in evidenza, alla brillante title track che sembra un brano perduto dei Creedence di John Fogerty.

Passando per il blues acustico e malinconico di Bittersweet e Motel Blues, ben supportato sempre da Anders, passando ancora per il robusto sound della poderosa e chitarritistica The Southern Side, il riff & roll di una quasi hendrixiana Judgement Day, alle sferzate potenti della zeppeliniana The Hard Way, entrambe con i due solisti in modalità “cattiva”, con Stay che sembra uscire dalle paludi della Louisiana, sempre con le slide che imperano https://www.youtube.com/watch?v=fjdawkVl10A , per chiudere con l’intensa Please Please Please, una canzone d’amore quasi disperata.

Fine della prima parte.

Bruno Conti

Dieci Anni Fa Nasceva Questo Blog Con Un Breve Post Sulla Live Anthology Di Tom Petty & The Heartbreakers. Dopo Più Di 4.000 Articoli Siamo Ancora Qui A Tenervi Compagnia!

tom petty live anthologynumero uno alan ford

Purtroppo Tom Petty non c’è più, ci ha lasciato prematuramente, e il mio alter ego Numero Uno non appare più a pontificare da queste pagine, ma la rubrica nata dal suo motto “Non Tutti Sanno Che…” continua ad essere attiva e senza lasciarsi andare a particolari celebrazioni è l’occasione per ricordare che il Blog Disco Club Passione Musica continua giornalmente a tenervi compagnia (ogni tanto anche più di una volta al giorno, visto che questo che state leggendo è il Post n° 4027 da quel lontano giorno https://discoclub.myblog.it/2009/11/02/spendi-spandi-effendi-non-sempre-mourinho-ha-ragione-i-pirla/), e speriamo lo farà per molti altri anni ancora, fino a che la voglia, la passione e la salute reggeranno. Già da oggi troverete un nuovo Post e poi, come al solito, altri nei giorni a venire.

Per l’occasione quindi ricordiamo ancora una volta il grande Tom Petty che ci ha lasciato due anni fa a 66 anni: e non dimenticate, come diceva qualcuno (forse Carlo Massarini), “rock on and keep on rolling”, ma anche, più o meno lo stesso concetto, espresso da John Fogerty e i Creedence nel brano qui sotto. E quanto segue lo dicevo io ai tempi sul blog e continuo a  pensarlo sempre: la buona musica c’è ancora, basta solo cercarla, e qui lo facciamo.

Alla prossima.

Bruno Conti

Una Delle Più Belle Voci In Circolazione In Uno Splendido Omaggio Ad Uno Dei Grandi Della Musica Rock! Janiva Magness – Sings John Fogerty Change In The Weather

janiva magness sings john fogerty

Janiva Magness – Sings John Fogerty/Change In The Weather – Blue Elan

Il germoglio per la nascita di questo album era stato piantato nel 2016, quando Janiva Magness, all’interno di un album fatto tutto di brani originali, Love Wins Agains (detto per inciso il suo unico ad essere candidato ad un Grammy come miglior album di blues contemporaneo dell’anno https://discoclub.myblog.it/2016/05/11/piu-che-lamore-la-voce-che-vince-volta-janiva-magness-love-wins-again/ ), aveva inciso una splendida cover tra soul e gospel di Long As I Can See tTe Light dei Creedence, una delle tantissime perle uscite dal songbook di John Fogerty. Janiva poi quel Grammy purtroppo non lo ha vinto, ma per fortuna detiene almeno sette Blues Music Awards, in quanto si tratta, a mio parer,e di una delle più belle voci espresse dalla musica americana nell’ultimo trentennio. La cantante di Detroit, che con questo Change In The Weather giunge al suo disco n° 15, non ne ha mai sbagliato uno, ogni uscita almeno pari alla precedente, in questo aiutata dal suo fido collaboratore storico Dave Darling, che ancora una volta si occupa della produzione, al solito molto curata, ma anche molto essenziale nella sua linearità, con l’impiego della nuova touring band della Magness,  il batterista Steve Wilson, il bassista Gary Davenport e il chitarrista Zachary Ross, anche al dobro, ai quali si affianca lo stesso Darling alla chitarra e l’ottimo tastierista Arlan Oscar, oltre ad un paio di ospiti che vediamo subito.

L’approccio nell’affrontare queste dodici canzoni (7 dei Creedence e 5 non notissime del Fogerty solista) è un po’ quello dei grandi cantanti jazz e dei crooner del passato nelle interpretazioni dei songbook della canzone americana d’autore: quindi non rigorosamente simili all’originale, ma mediati dalla sensibilità di questa interprete sopraffina. C’è del blues, del soul, del gospel, ma anche uno spirito fortemente rock, tutti amalgamati alla perfezione: prendiamo l’iniziale title track Change In The Weather, che viene da Eye Of The Zombie, su un insistito battito di mani e un serrato ritmo di chitarra, basso e batteria, si innesta un drive incalzante tra boogie e blues-rock, con le chitarre cattive e sporche e la voce roca, calda ed espressiva di Janiva che scalda subito i motori. Lodi era uno dei capolavori “country” dei CCR, un brano bellissimo, che qui viene rivisitato sotto forma di duetto insieme alll’eccellente cantautore outlaw country di LA Sam Morrow, in un perfetto equilibrio tra la voce alla carta vetrata di Morrow e quella vellutata di Janiva, diventa un urgente blues-rock tirato e chitarriistico, non privo di elementi Memphis soul, grazie ad un organo scivolante e al call and response dei due cantanti, una meraviglia; Someday Never Comes, un brano tratto da un album minore dei Creedence come Mardi Gras, è uno di quelli che addirittura superano l’originale, su un ritmo ondeggiante tra accelerazioni rock e tempo da ballata, la nostra amica ci regala una prestazione vocale sontuosa https://www.youtube.com/watch?v=nf0W6N05_yE .

A proposito di ballate, la prima del lotto è Wrote A Song For Everyone, che non casualmente era il titolo dell’album del 2013 dove Fogerty riprendeva i suoi vecchi brani https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/  (e anche Someday Never Comes ne usciva rivitalizzata), ma anche uno dei brani più belli di Green River e dell’opera omnia dei Creedence, partendo da una capolavoro la Magness e Darling hanno pensato di dargli una veste deep soul come quella che avevano le grandi versioni degli artisti Stax quando attingevano dal repertorio rock, cantata sempre in modo incantevole  . Altro duetto delizioso è quello con il decano Taj Mahal nella non notissima Don’t You Wish It Was True, un pezzo tratto da Revival del 2007, che diventa un agile Delta Blues con il banjo di Taj a doppiare il dobro di Ross, e il vocione di Mahal ad accarezzare la voce quasi mielosa ed ammiccante di Janiva, e un divertente finale ad libitum, mentre Have You Ever Seen The Rain una delle canzoni più politiche dei Creedence (ma anche tra le più belle ed indimenticabili) viene rallentata ad arte per adattarla all’attuale pesante clima sociale americano, e diventa una soffusa e sofferta soul ballad, con organo d’ordinanza, armonie vocali avvolgenti e un’altra interpretazione da sballo della Magness, ma quanto canta bene?

Anche Bad Moon Rising era una dichiarazione di intenti del vecchio Fogerty, trasformata in un trasognato blues a tutta slide, molto Cooderiano, che però a tratti non dimentica l’urgenza dell’originale, e come si potrebbe? https://www.youtube.com/watch?v=K9AEbz0hY1g  Anche Blueboy, presa da Blue Moon Swamp, non è un brano celeberrimo, ma è l’occasione per un tuffo nel classico suono swamp dell’originale, ancora con dobro ed elettrica in azione, e non mancano neppure i classici coretti. Fortunate Son cantata da un punto di vista femminile è inconsueta, ma il riff non manca, la grinta rock neppure, questa canzone si può fare solo così, magari rallentarla appena, ma mantenendo la forza dirompente del brano, caratterizzato da un bel assolo di piano di Oscar, e anche Déjà Vu (All Over Again), dopo un inizio attendista sprigiona la consueta potenza delle canzoni di Fogerty, magari più raffinata e meno sparata a tutta forza, diciamo un ottimo mid-tempo. A Hundred And Ten In The Shade, ancora da Blue Moon Swamp, profuma nuovamente di blues usciti da paludi misteriose e profonde, lasciando la conclusione ad un incantevole tuffo nel country/bluegrass di una vivacissima e ruspante Looking Out My Back Door, con il dobro di Rusty Young, le acustiche di Darling e Jesse Dayton e il violino di Aubrey Richmond. Idea complessiva brillante e personale, esecuzione anche migliore, trai i dischi più belli di quest’anno.

Bruno Conti

Novità Prossime Venture 26. Altri Due Grandissimi Artisti Con “Nuovi” Album A Novembre: John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks/Leonard Cohen – Thanks For The Dance

john fogerty 50 year trip live at red rocksleonard cohen thanks for the dance

John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks – BMG – 08-11-2019

Leonard Cohen – Thanks For The Dance – Sony Legacy – 22-11-2019

Il presente mese di Ottobre ed il prossimo Novembre metteranno (come tutti gli anni) a durissima prova le finanze degli appassionati di musica, dato che oltre alla consueta messe di cofanetti ed edizioni celebrative di dischi del passato (dei quali Bruno vi sta puntualmente tenendo aggiornati), ci sono anche nuove proposte discografiche di veri e propri big del panorama mondiale, alcuni dei quali già annunciati in post precedenti a questo: Van Morrison, Bruce Springsteen, Nick Cave, Ringo Starr, The Who (questi tre ancora da fare) e Neil Young & Crazy Horse. Un’altra uscita a sorpresa da poco annunciata è quella di John Fogerty, che discograficamente è fermo all’album di duetti del 2013 Wrote A Song For Everyone https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/  ma addirittura a Revival del 2007 se si parla di canzoni nuove.

L’8 Novembre l’ex leader dei Creedence Clearwater Revival tornerà tra noi con un nuovo lavoro, però si tratta “solo” di un altro album dal vivo (ma sembra che stia lavorando anche ad un disco in studio in programma per il 2020), intitolato 50 Year Trip: Live At Red Rocks, registrato il 20 Giugno di quest’anno nella suggestiva location del titolo e nell’ambito del tour che vede John autocelebrare il mezzo secolo di carriera (che in realtà coi Creedence è iniziata nel 1968, mentre se parliamo dei Golliwogs anche prima). Forse avere un nuovo live di Fogerty non è una cosa proprio originalissima, dato che dal 1998 il nostro ne ha pubblicati ben tre (Premonition, The Long Road Home ed il DVD Comin’ Down The Road registrato alla Royal Albert Hall) e che le scalette dei suoi concerti girano intorno un po’ sempre alle stesse canzoni, ma per il sottoscritto ascoltare certi capolavori del rock americano è sempre un’esperienza goduriosa.

Questa comunque la setlist del CD, che dovrebbe uscire pure in versione video (anche se non è ancora certo, ma le immagini ci sono in quanto verrà proiettato sempre a Novembre in poche selezionate sale cinematografiche americane):

Tracklist
1. Born On The Bayou
2. Green River
3. Lookin’ Out My Back Door
4. Susie Q
5. Who’ll Stop the Rain
6. Hey Tonight
7. Up Around The Bend
8. Rock And Roll Girls
9. I Heard It Through The Grapevine
10. Long As I Can See The Light
11. Run Through The Jungle
12. Keep On Chooglin’
13. Have You Ever Seen The Rain
14. Down On The Corner
15. Centerfield
16. The Old Man Down The Road
17. Fortunate Son
18. Bad Moon Rising
19. Proud Mary

Il 22 Novembre uscirà in maniera ancora più sorprendente Thanks For The Dance, album postumo del grande Leonard Cohen, una collezione formata da canzoni alle quali il songwriter canadese stava lavorando negli ultimi mesi della sua vita e che non avevano trovato posto in You Want It Darker https://discoclub.myblog.it/2016/10/20/la-bellezza-le-tenebre-leonard-cohen-you-want-it-darker/ , in alcuni casi per il fatto che erano semplici tracce vocali. Il figlio di Leonard, Adam, ha recentemente assemblato nove di quelle registrazioni e le ha completate con l’aiuto di sessionmen e musicisti della cerchia del padre, tra cui lo spagnolo Javier Mas, e con l’aggiunta di ospiti di fama come Jennifer Warnes (le cui strade si erano già incrociate con Cohen in passato), Damien Rice, il chitarrista Bryce Dessner dei National, Beck, Richard Reed Parry degli Arcade Fire ed addirittura Daniel Lanois che ha curato alcuni arrangiamenti.

Ecco la tracklist di Thanks For The Dance:

  1. Happens to the Heart
    2. Moving On
    3. The Night of Santiago
    4. Thanks for the Dance
    5. It’s Torn
    6. The Goal
    7. Puppets
    8. The Hills
    9. Listen to the Hummingbird

Dovrebbe trattarsi di un dischetto piuttosto corto (*NDB Dura 29 minuti, e il video di The Goal che vedete qui sopra, presentato come un teaser, in effetti è il brano completo 1 minuto e 12 secondi!), ma sarà sicuramente un piacere immenso risentire la voce del grande Leonard come se fosse ancora tra noi.

Alla prossima.

Marco Verdi

Ancora Un “Metallaro” Convertito Al Blues, E Lo Fa Pure Bene. Derek Davis – Resonator Blues

derek davis resonator blues

Derek Davis – Resonator Blues – Southern Blood Records

Devo dire che sono sempre stato sospettoso dei metallari pentiti, o anche non pentiti, che improvvisamente si scoprono bluesmen a tutto tondo: c’è stata qualche eccezione, penso a Gary Moore (che però aveva già ruotato intorno al genere ad inizio carriera), oppure nel country di recente Aaron Lewis https://discoclub.myblog.it/2019/07/13/un-ex-metallaro-che-ha-trovato-la-sua-reale-dimensione-aaron-lewis-state-im-in/ , anche Gary Hoey che non è un “metallaro” puro https://discoclub.myblog.it/2019/04/11/un-virtuoso-elettrico-ed-eclettico-questa-volta-senza-esagerazioni-gary-hoey-neon-highway-blues/ , e sinceramente al momento non me ne vengono in mente altri, che comunque ci sono, pensate a  tutti i vari gruppi e solisti che per definizione  inseriamo nel filone blues-rock o rock-blues, a seconda della durezza del suono. Derek Davis è stato, ed è tuttora (visto che mi risulta siano ancora in attività), leader dei Babylon A.D. , un gruppo hard rock/metal in pista da fine anni ’80, di cui Davis era la voce solista ma non il chitarrista. Per Resonator Blues il musicista si scopre quindi anche chitarrista, e in questo terzo album da solista, dopo due dischi che esploravano il rock e il soul/R&B, si rivela provetto praticante delle 12 battute più classiche, tuffandosi  nel Mississippi Delta blues con grande profusione di bottleneck e slide, oltre che di momenti acustici.

Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma si percepisce la sincerità di questa operazione, in cui Davis ha scritto dieci brani originali e scelto due cover di peso per estrinsecare il suo omaggio al blues:il nostro amico ha una voce roca e vissuta (visti i trascorsi musicali), a tratti “esagerata”, ma nell’insieme accettabile. Nell’iniziale Resonator Blues c’è un approccio vocale quasi (ho detto quasi) alla Rory Gallagher, voce ruspante e partecipe, un bel drive della ritmica, molto Chicago blues anni ’50 o se preferite tipo il Thorogood più tradizionale, un bel lavoro della slide e un delizioso assolo del piano di David Spencer, mentre alla batteria siede il fido Jamey Pacheco dei Babylon A.D., chitarre e basso le suona lo stesso Derek, risultato finale molto gradevole; Sweet Cream Cadillac sembra quasi un pezzo di R&R primi anni ’60, con Davis impegnato alla Silvertone acustica, sempre modalità slide e un approccio che rimanda al Brian Setzer meno attizzato, ma anche al Rory Gallagher appena citato. Mississippi Mud potrebbe essere un omaggio a Muddy Waters, ma anche al suono pimpante dei Creedence dei primi dischi,  sempre fatte le dovute proporzioni, con ripetute sventagliate di bottleneck, mentre fa la sua apparizione anche l’armonica di Charlie Knight; Penitentiary Bound è una vera sorpresa, una folk ballad deliziosa, solo voce, chitarra acustica e delle percussioni appena accennate, il consueto tocco di slide, e una bella melodia che si anima nel finale.

In Jesus Set Me Free troviamo Rich Niven all’armonica, per una incalzante cavalcata con qualche retrogusto di musica degli Appalachi, rivista nell’ottica più frenetica di Davis, che non fa mancare neppure la sua primitiva 3 string Cigar Box Guitar; Red Hot Lover è un gagliardo blues di stampo texano di quelli tosti e tirati, con chitarra ed armonica in evidenza. Death Letter è la prima cover, si tratta del celebre brano di Son House, ancora Delta Blues rigoroso ed intenso, vicino allo spirito dei grandi bluesmen del Mississippi, con Whiskey And Water e Unconditional Love, più elettriche e tirate entrambe, con l’armonica di Knight a fare da contraltare alla chitarra incattivita di Davis e il sound che quasi si avvicina a quello della vecchia sua band, più roots-rock ma sempre energico anziché no, con la slide costantemente mulinante, come viene ribadito in una potente cover di It Hurts Me Too di Elmore James, con il bottleneck distorto di Derek Davis che ricrea le atmosfere ferine di Stones e Led Zeppelin. Anche in Back My Arms lo spirito del blues più genuino viene rispettato, sembra quasi di ascoltare i vecchi Fleetwood Mac nei brani a guida Jeremy Spencer. E anche la conclusiva Prison Train non molla la presa su questo Festival della slide, sempre con il valido supporto dell’armonica di Knight.

Forse Davis non saprà ripetersi in futuro, ma per questa volta centra l’obiettivo di un bel disco di blues, solido e per certi versi rigoroso.

Bruno Conti