Questo E’ Veramente L’Ultimo? Leon Russell – On A Distant Shore

leon russell on a distant shore

Leon Russell – On A Distant Shore – Palmetto Records/Ird  

Leon Russell è morto a novembre del 2016, a 74 anni http://discoclub.myblog.it/2016/11/14/il-2016-maledetto-volta-se-ne-andato-leon-russell/ ma nei mesi precedenti alla sua scomparsa, si è poi scoperto, aveva fatto in tempo ad incidere un ultimo album: tre canzoni del quale preparate per il “Tommy LiPuma’s Big Birthday Bash”, in onore dell’80° compleanno del grande produttore americano (nel frattempo anche lui deceduto a marzo del 2017). Il disco che ne è risultato, non raggiunge ovviamente i livelli di quello del 2010, The Union, in coppia con Elton John  e di quello si pensava fosse il disco finale di Russell, Life Journey, un disco di standard fatto proprio con LiPuma. In questo ultimo lavoro, aiutato a livello di produzione da Mark Lambert, il nostro amico appare ancora vispo e pimpante in una sequenza di dodici canzoni, nove nuove e tre che sono riletture di alcuni suoi classici, resi celebri da altri artisti. Come ricorda Lambert nelle note del CD, una delle più grandi aspirazioni di Russell era quella di essere ricordato come compositore, grazie ai suoi brani che sono stati incisi da grandi artisti nel corso degli anni: ma comunque con la sua voce particolare, la sua maestria al piano e ad altri strumenti, la sua abilità come arrangiatore, il musicista dell’Oklahoma ha saputo regalarci in una lunga carriera una serie di album notevoli, soprattutto quelli del periodo degli anni ’70.

Nel disco in questione, registrato nello studio ThirtySeventeen di Nashville, suona un nutrito numero di musicisti, oltre ad una sezione fiati e archi (sintetici, credo), i più noti sono Gregg Morrow alla batteria, Mike Brignardello al basso, Andre Reiss e Chris Leuzinger alle chitarre, l’ottimo Russ Pahl alla steel guitar, e ospite in un brano il giovane fenomeno della chitarra Ray Goren, ora 17enne. L’iniziale title track On A Distant Shore, in un florilegio di fiati ed archi, vede un Russell in sorprendente buona voce, con il suo timbro caratteristico, rauco, vissuto e laconico, anche se le armonie vocali delle figlie Sugaree e Coco Bridges, sono forse fin troppo “esagerate”, dando un tono crossover e pop al CD, accentuato anche dalla strumentazione molto lussureggiante. Questa è quasi sempre presente nei brani, anche se il sound altrove è più brillante e tirato, come in Love This Way dove chitarre e piano si fanno largo nell’orchestrazione, il tutto anche con un bel sound, quasi da major, insomma più che per sottrazione si è lavorato per addizione, ma il risultato non è totalmente disprezzabile; Here Without You è una delle sue classiche ballate romantiche, forse un filo troppo “schmaltzy” (un termine americano che potremmo tradurre con sdolcinato), ma con elementi che potrebbero richiamare il Willie Nelson a cavallo tra country e standards, pur se ogni tanto verrebbe da sparare agli orchestrali per eliminarne alcuni, anche se probabilmente il tutto è ricreato con le tastiere sintetizzate di Larry Hall.

Prendete la ripresa di This Masquerade, uno dei suoi cavalli di battaglia, questa versione più che alla sua o a quella jazzy di George Benson, si avvicina a quella dei Carpenters, ma senza la voce fatata di Karen https://www.youtube.com/watch?v=ljWyIKyua8c . In Black And Blue, dove appare Goren alla chitarra solista (aiutato dal suo mentore Eddie Kramer, (mai dimenticato ingegnere del suono e collaboratore di Jimi Hendrix): il suono è più grintoso, tra blues e rock, ma subito in Just Leaves And Grass si torna in parte allo stile un po’ melodrammatico delle canzoni precedenti, troppo cariche per Russell che deve sforzare la sua voce oltre i limiti, cosa che si ripete anche in On The Waterfront dove si sfanga il risultato grazie alla classe del vecchio Leon, ma a fatica. La jazzata e notturna Easy To Love lascia intravedere il suo tocco magico al piano, sempre in questa produzione che maschera il resto dei musicisti; Hummingbird era nel suo disco omonimo del 1970 e anche in Mad Dogs And Englishmen, cantata da Joe Cocker, la canzone è sempre bellissima, malinconica ed avvolgente, ma non raggiunge i vertici delle versioni citate. The One I Love introdotta da un clarinetto, potrebbe quasi far parte di un disco di standard, grazie alla facilità con cui Russell ha sempre scritto melodie cantabili, però la sovrapproduzione non giova; meglio Where Do We Go From Here dove Lambert trattiene gli arrangiamenti orchestrali di Hall e lascia affiorare la melodia deliziosa del brano. A Song For You l’hanno incisa quasi tutti, una canzone splendida che chiude questa ultima fatica di Leon Russell https://www.youtube.com/watch?v=37dw2r45Xzg , un album che avrebbe potuto essere migliore senza tutte le “sovrastrutture.” ma rimane un discreto disco postumo, pur senza la qualità sopraffina di quello recente di Glenn Campbell http://discoclub.myblog.it/2017/08/10/se-lungo-addio-deve-essere-questo-e-uno-dei-migliori-glen-campbell-adios/ .

Bruno Conti

Era Già Bellissimo, Ora Lo E’ Ancor Di Più! Willie Nelson – Teatro

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Willie Nelson – Teatro – Light In The Attic/Universal CD/DVD

Il 2017 è stato un bell’anno per i fans di Willie Nelson, dato che hanno potuto godere dell’ottimo God’s Problem Child, uscito ad Aprile, del recente Willie & The Boys, ed ora della ristampa potenziata dello splendido album del 1998, Teatro (che quindi “festeggia” i 19 anni, ma che anniversario è?), all’unanimità uno dei lavori più belli della carriera del texano. Per il sottoscritto questo disco potrebbe addirittura rientrare nella Top 3 di Willie, insieme a Red Headed Stranger e Across The Borderline, ma rispetto a questi due titoli, che propongono il classico suono del nostro, Teatro è un episodio particolare ed unico nel suo genere. Infatti l’album vide l’incontro tra Nelson ed il grande produttore Daniel Lanois, un connubio difficile da immaginare negli anni ottanta, allorquando il canadese era dietro ai dischi di U2 e Peter Gabriel, oltre ad essere impegnato a rilanciare la carriera di Bob Dylan con Oh, Mercy! (operazione ripetuta nel 1997 con Time Out Of Mind), ma non così strano in quel periodo, dato che Lanois veniva dalla riuscita esperienza con Emmylou Harris, il cui bellissimo Wrecking Ball aveva riportato la cantante dai capelli d’argento agli onori della cronaca.

E Teatro, inciso in un vecchio cinema di Oxnard in California (lo stesso nel quale Neil Young ha registrato The Monsanto Years), è un disco splendido ancora oggi, con lo stile tipico di Willie che si sposa alla perfezione con le atmosfere rarefatte di Lanois, grazie anche ad una serie di musicisti da sogno: oltre agli habitué nei dischi di Nelson (la sorella Bobbie, l’armonicista Mickey Raphael), abbiamo lo stesso Lanois al basso e alle chitarre, Cyril Neville alle percussioni (strumento fondamentale nell’economia del suono del produttore canadese),Jeffrey Green, Victor Indrizzo Tony Mangurian alla batteria,Tony Hall al basso, Malcolm Burn all’organo, Brian Griffiths alla chitarra, slide e mandolino, il noto pianista jazz Brad Meldhau anche al vibrafono e, dulcis in fundo, la stessa Emmylou Harris alla seconda voce praticamente in tutti i brani (dieci su quattordici), una partecipazione talmente importante al punto che anche in copertina troviamo una foto della cantante. L’album è incentrato più che altro su vecchi classici di Willie, alcuni molto noti ed altri meno (ci sono solo tre canzoni nuove, più tre cover), che vengono completamente rivoluzionati dai nuovi arrangiamenti: la presenza di Lanois è inoltre di ulteriore stimolo per il nostro, che si trova a suonare la chitarra ancora meglio del solito, donando un feeling messicano a molte canzoni, che contrasta con il mood quasi jazzato della sezione ritmica e del pianoforte, al punto che sarebbe parecchio riduttivo definire country questo disco, talmente tante sono le sfaccettature del suono.

Il capolavoro dell’album è sicuramente The Maker, cover di un brano di Lanois tratto dal suo primo disco come solista, Acadie, una canzone straordinaria, impreziosita da un arrangiamento caldo, vibrante, decisamente musicale e cantata alla perfezione da Willie: anche meglio dell’originale di Daniel. Di alto livello anche lo strumentale che apre l’album, Ou Est-Tu, Mon Amour? (dal repertorio di Django Reinhardt), solo Willie alla chitarra e Bobbie al vibrafono, ma dall’intensità incredibile, o la classica I Never Cared For You, che da brano western diventa quasi una bossa nova, o Everywhere I Go, dall’intro rarefatto e tipico di Lanois, ma che Willie riesce a far sua non appena apre bocca (questa sì degna di stare in un western moderno), o ancora la struggente My Own Peculiar Way, che Nelson negli anni ha inciso più volte ma mai con questa intensità, centellinando ogni nota ed ogni parola. Ma poi ci sono anche la vivace These Lonely Nights, quasi caraibica, l’intensa Home Motel, solo voce e piano (Meldhau), classe pura, la strepitosa I’ve Just Destroyed The World, un honky-tonk che il “trattamento Lanois” rende ancora più scintillante, e l’emozionante Somebody Pick Up My Pieces, con Emmylou protagonista alla pari di Willie.

In questa nuova ristampa deluxe, oltre ad una nuova intervista a Nelson e Lanois inclusa nel booklet ed un DVD allegato con il film-concerto live in studio uscito all’epoca e diretto da Wim Wenders (che non ho ancora visto), abbiamo sette canzoni inedite tratte dalle stesse sessions: il bellissimo valzer lento It Should Be Easier Now, la saltellante One Step Beyond, molto bella (perché era stata esclusa all’epoca?), la dolce Send Me The Pillow You Dream On (di Hank Locklin, Willie l’ha ripresa anche sul recentissimo Willie & The Boys), o la superba Have I Told You Lately That I Love You (non è quella di Van Morrison, bensì di Scott Wiseman), malinconica ma tra le più belle del CD. Per finire con il classico di Rodney Crowell ‘Til I Gain Control Again, la toccante Lonely Little Mansion e la tonica Things To Remember, in bilico tra jazz e musica d’autore.

Ricordo che nel 1998 avevo votato Teatro come disco dell’anno, ed anche a distanza di quasi vent’anni non posso che confermare la mia scelta.

Marco Verdi

Nuove E Vecchie Medicine Proposte Dalla D.ssa “Buffy”. Buffy Sainte-Marie – Medicine Songs

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Buffy Sainte-Marie – Medicine Songs – True North Records/Ird – Deluxe Edition

A distanza di due anni dal precedente Power In The Blood (premiato con il riconoscimento del prestigioso Polaris Music Pride) http://discoclub.myblog.it/2015/06/08/delle-grandi-della-musica-folk-americana-lultima-pellerossa-buffy-sainte-marie-power-the-blood/ , torna questa arzilla “nativa americana” con questo nuovo lavoro Medicine Songs, una raccolta di canzoni recuperate dal suo vecchio e notevole “songbook”, dove il saccheggio più ampio viene dal bellissimo Coincidence And Likely Stories (5 brani), ma anche dal suo album d’esordio It’s My Way con tre brani storici, altre tre canzoni da Running For The Drum, due dal “seminale” Little Wheel Spin And Spin, senza dimenticareil giusto spazio, con un brano a testa, ad album dimenticati ma di grande importanza quali She Used To Wanna Be A Ballerina, Buffy, Sweet America e il recente Power In The Blood, con la meritoria aggiunta di due canzoni inedite. Per questa sorta di retrospettiva “rivisitata” Buffy Sainte-Marie si è affidata alla abituale produzione di Chris Birkett, valente polistrumentista, chitarre acustiche e elettriche, batteria, percussioni e tastiere, e di Jon Levine al basso, batteria e tastiere, che portano negli studi di registrazione 2 Mounties Media di Toronto e ai Buffy’s Home Studios di Kapaa, HL, musicisti di provata bravura come Justin Abedin alle chitarre, Michel Bruyere alla batteria e percussioni, Anthony King al basso, con il contributo alle armonie vocali della collega Tanya Tagaq (anche lei vincitrice del premio Polaris), per una ventina di brani (sette in versione digitale, ma scaricabili con un codice gratuito contenuto all’interno del CD), con intriganti sonorità antiche che confluiscono in un folk “moderno”.

Le Medicine Songs partono con le due canzoni inedite, una You Got To Run (Spirit Of The Wind) basata su un ritmo tribale e cantata in duetto con la brava Tanya Tagaq, e The War Racket, una poesia musicata che Buffy aveva letto nel lontano 2008 al Native American Museum di Washington, per poi passare al trascinante canto di battaglia Starwalker (lo trovate su Sweet America), seguito da un brano senza tempo come la commovente My Country ‘Tis Of Thy People You’re Dying. Si prosegue con la “patriottica” America The Beautiful, a cui fanno seguito una tambureggiante versione della recente Carry It On, e classici di protesta storici come Little Wheel Spin And Spin e una poderosa No No Keshagesh, che viene rivoltata come un calzino. Con Soldier Blue, forse la sua canzone più celebre, Buffy inizia un percorso a ritroso nei vecchi album, con gemme dimenticate come la bellissima The Priests Of The Golden Bull, la potente forza di denuncia contenuta in una straordinaria Bury My Heart At Wounded Knee (entrambe le trovate su Coincidence And Likely Stories), l’inno pacifista della altrettanto famosa Universal Soldier tratta dal film Soldato Blu (un western revisionista con la presenza abbagliante di Candice Bergen), e la moderna, elettrica (quasi tecno) Power In The Blood. E’ interessante notare che con il materiale bonus, la Sainte-Marie rivisita brani poco noti e celebrati come Disinformation e Fallen Angels, recupera una straordinaria Now That The Buffalo’s Gone (cercatela su It’s My Way), una sempre trascinante Generation, il moderno canto tribale di Working For The Government, per poi passare ad una ballata ariosa come The Big Ones Get Away, e chiudere il cerchio con la versione unplugged di The War Racket (il brano più politico dell’album).

Oggi come ieri Buffy Sainte-Marie (nata in una riserva di nativi americani Cree), nonostante i suoi 76 anni, per molti rimane l’icona e la testimone della dignità dei suddetti popoli, con canzoni e testi che negli anni sono diventati dei veri e propri “inni” del folk americano, con tematiche su guerre, repressione e razzismo, temi purtroppo ancora attuali nella società attuale. Se personalmente, ma sono parziale, devo trovare una piccola pecca a questa ottima retrospettiva, è il mancato inserimento della bellissima e commovente Song Of The French Partisan (cercatela su She Used To Wanna Be A Ballerina https://www.youtube.com/watch?v=ms2oSvejYMQ ), un brano adattato e reso famoso da Leonard Cohen con il titolo The Partisan (cantata anche da Joan Baez e dai bravi ma poco conosciuti Sixteen Horsepower). Augh e lunga vita a Beverly Sainte-Marie detta Buffy.

Tino Montanari

Se Amate Il Blues, Quasi Una Coppia Di Fatto: Ora Anche Candidati Ai Grammy 2018! Guy Davis & Fabrizio Poggi – Sonny & Brownie’s Last Train

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Guy Davis & Fabrizio Poggi  – Sonny & Brownie’s Last Train – M.C. Records/Ird 

*NDB Vi ripropongo questo Post in quanto, è notizia delle ultime ore, il disco è entrato nella cinquina dei Grammy, la 60esima edizione, che si terrà il prossimo 28 gennaio 2018 in quel di New York, nella categoria “Best Traditional Blues Album”: tra i concorrenti di Guy e Fabrizio anche i Rolling Stones!

Best Traditional Blues Album

• Migration Blues
Eric Bibb

• Elvin Bishop’s Big Fun Trio
Elvin Bishop’s Big Fun Trio

• Roll And Tumble
R.L. Boyce

• Sonny & Brownie’s Last Train
      Guy Davis & Fabrizio Poggi

• Blue & Lonesome
The Rolling Stones

E visto che il disco è bello e merita perché non metterlo di nuovo in evidenza?

In meno di un anno questo è il secondo CD dove il nome di Fabrizio Poggi campeggia in copertina, ma affiancato da quello di altri musicisti: per il disco della scorsa estate And The Amazing Texas Blues Voices Fabrizio si era “limitato” a suonare l’armonica in tutti i brani di una sorta di tributo alle voci del Lone Star State http://discoclub.myblog.it/2016/08/31/piccolo-aiuto-dai-amici-gran-bel-disco-fabrizio-poggi-and-the-amazing-texas-blues-voices/ . Questa volta ha unito le forze con Guy Davis per un sentito omaggio a Sonny Terry & Brownie McGhee, due veri miti del Blues acustico americano, e ancora una volta appare come armonicista in quella che è la sua seconda collaborazione con il bluesman di New York, dopo Juba Dance, mentre nel successivo Kokomo Kidd era presente solo in un brano. Questa volta Poggi cura anche la produzione dell’album, che è stato registrato lo scorso anno in Italia, in due giorni, all’inizio dell’estate, ed è socio alla pari di Davis, visto che il disco prevede la rivisitazione della musica di una coppia di musicisti. Dopo la febbrile elettricità dell’album texano, questa volta ci si tuffa a piedi uniti nel mare magnum della grande tradizione del Piedmont Blues, del folk e del country, sempre blues, attraverso il repertorio di questa storica coppia di musicisti neri che ha attraversato più di 40 anni di collaborazione musicale. Sonny Terry fu “scoperto” da John Hammond, per il suo famoso concerto alla Carnegie Hall From Spirituals To Swing del 1938, ma già da alcuni anni calcava i palcoscenici con Blind Boy Fuller, mentre anche Brownie McGhee aveva incrociato la strada di Fuller, che era diventato il suo mentore: alla scomparsa di Blind Boy nel 1941 i due decisero di unire definitivamente le forze (ma già collaboravano dal 1939), per un sodalizio che sarebbe andato avanti fino all’inizio degli anni ’80.

Nelle note del CD Guy Davis dice di avere visto i due nel 1981, sempre a New York, per una produzione musicale dedicata a Lead Belly, e, sia il sottoscritto che Fabrizio ricordiamo di averli visti in Lombardia nel 1980, ma, anche se è brutto dirlo, considerando la menomazione di Terry, i due non si potevano più vedere già da qualche tempo, diciamo che non si sopportavano più, un vero peccato visto quello che erano stati in grado di realizzare nei precedenti 40 anni. Esibendosi soprattutto a New York e dintorni, anche in musical e film, arrivarono ad incidere il primo disco in coppia per la Folkways solo nel 1958: poi da lì è stato un continuo e numeroso tripudio di registrazioni discografiche. Davis e Poggi, più che cercare di rifare le loro versioni dei brani di Terry & McGhee (come poi comunque è stato) hanno inteso questo disco come un sentito e devoto omaggio alla musica della coppia. Il repertorio in cui pescare era immenso, ed entrambi avevano già inciso dei brani del duo, ma si è preferito partire da una Sonny & Brownie’s Last Train, scritta da Guy Davis, che è una sorta di cronistoria e “sogno” dell’ultimo viaggio del treno che li porta “dall’altra parte”, si spera in Paradiso, e per l’occasione sia Poggi che Davis sono impegnati all’armonica, quest’ultimo anche alla chitarra e alla voce, al solito “strumento” dal timbro roco e vissuto, che al sottoscritto ricorda una via di  mezzo tra Howlin’ Wolf e Taj Mahal, fatte le dovute proporzioni, e la canzone è anche l’occasione per ricreare il classico “train time”, poi accelerato nell’incalzante finale, tipico del blues.

Da qui in avanti ognuno opera al proprio strumento: Guy Davis alla chitarra e Fabrizio Poggi alla mouth harp, con un continuo lavoro di interscambio e coloritura del suono, con l’armonica sempre pronta a sottolineare le fasi della musica, spesso con i tipici “urletti” dell’armonicista. Molto intensa la splendida cover di Louise, Louise, un brano scritto da due pezzi grossi come Robert Pete Williams e Big Bill Broonzy (è sempre difficile attribuire la paternità delle singole canzoni, che spesso passano di mano nel tempo), con Poggi che inserisce i suoi urletti e grida nei ripetuti assoli (splendidi) che poi punteggiano tutti i brani presenti. Hooray, HoorayThese Women Is Killing Me (l’errore grammaticale è voluto, è scritto proprio così, anche se qualcuno lo corregge impropriamente in Are Killing Me) è uno dei rari brani firmati da Sonny Terry, più mossa ed energica delle precedenti, sottolinea la vitalità e la resilienza di questi brani allo scorrere del tempo. Nella presentazione di Shortnin’ Bread, un traditional, Davis dice che ha cercato di impadronirsi dello spirito del brano, come fosse suo, o almeno l’avesse noleggiato, e il lavoro della chitarra è fantastico, come pure l’impatto vocale. Eccellente anche l’impatto del super classico Baby Please Don’t Go Back To New Orleans, brano di Big Joe Williams che è stato anche un must del blues (e del rock) elettrico, fantastico lavoro della acustica con bottleneck di Davis e dell’armonica di Poggi. Ottimo anche un altro traditional come Take This Hammer, un pezzo legato a Leadbelly, in cui Davis ha reinserito il classico “whop” vocale del martello che era presente nella versione originale, brano quasi danzante e delizioso.

Anche Goin’ Down Slow, a firma Jimmy Oden, è più famosa forse nella sua controparte elettrica e tirata, ma anche in versione acustica ha una grinta e potenza inusuali, di nuovo con slide e armonica in bella evidenza, oltre al vocione di Davis e all’hollering di Poggi. Elizabeth Cotten è stata una delle più grandi autrici e chitarriste nere della storia del blues e la sua Freight Train fa una splendida figura in questa raccolta, con il suo spirito folky e delicato, molto piacevole all’ascolto. Evil Hearted Me è il contributo di Brownie McGhee come autore, e se deve essere “musica del diavolo” che lo sia, ma nel testo diaboliche sono le donne, mentre la musica è eccellente ancora una volta. Come pure nell’ennesimo traditional pescato dal repertorio di S&B, Leadbelly e Josh White, Step It Up And Go con elementi ragtime nel tipico ondeggiare della musica e il testo lunghissimo in una canzone molto breve. I due pezzi forti, ma sono tutti molto belli, diciamo i più famosi, sono stati tenuti per il gran finale. prima la splendida Walk On, presente anche in versione elettrica nel disco di Fabrizio, firmata da Sonny Terry e da Brownie McGhee, e dalla di lui compagna Ruth ( a proposito di compagne l’immancabile Angelina ha “disegnato” la foto di copertina del duo per farli sembrare dei novelli Sonny & Brownie), e poi Midnight Special, altro brano legato a Lead Belly, ma conosciuto pure in innumerevoli versioni elettriche, tra cui al sottoscritto piace moltissimo quella dei Creedence, brano dal ritmo e dal testo contagioso che conclude in gloria uno dei più bei dischi di blues acustico che ascolterete quest’anno, grazie ai due nuovi “Ambasciatori Del Blues”. Anche se rischio il conflitto d’interessi, questo dovrebbe essere un disco da 4 stellette. Diciamo molto, molto bello e scusate per il ritardo con cui posto questa recensione!

Bruno Conti   

Anche Loro Sulle Strade Della California Rock. Supersonic Blues Machine – Californisoul

supersonic blues machine californisoul

Supersonic Blues Machine – Californisoul – Mascot/Provogue  

Capitolo secondo per il power rock trio formato da Lance Lopez, chitarra e voce, Fabrizio Grossi, basso e produttore del disco, nonché Kenny Aronoff alla batteria: se uniamo il titolo del disco, California e soul, e quello della band, che contiene comunque la parola blues al suo interno, e se aggiungiamo ancora rock, abbiamo una idea generale di cosa aspettarci. Come è politica abituale della Provogue nell’album ci sono vari ospiti, quattro in comune con il disco precedente del gruppo e uno “nuovo”: vi dico subito che non si raggiungono i livelli del recente album di duetti di Walter Trout (peraltro presente in un brano), che era veramente un disco notevole http://discoclub.myblog.it/2017/08/29/tutti-insieme-appassionatamente-difficile-fare-meglio-walter-trout-and-friends-were-all-in-this-together/ , ma il trio, californiano di adozione, con un texano, un italiano e un newyorkese in formazione, sa comunque regalarci del sano rock-blues, ogni tanto di grana grossa, anche pestato, sia pure con Aronoff  che lo fa con cognizione di causa grazie ai suoi trascorsi con Mellencamp e Fogerty, “moderno” e commerciale a tratti, per la presenza di Grossi che frequenta anche altri generi, con la guida della band affidata a Lopez, che è chitarrista di stampo Hendrix-vaughaniano, se mi passate il termine, e buon cantante, con una voce che, come ricordavo nella recensione del disco precedente West Of Flushing South Of Frisco,  ricorda molto quella di Popa Chubby http://discoclub.myblog.it/2016/02/26/rock-blues-buoni-risultati-esce-febbraio-supersonic-blues-machine-west-of-flushing-south-of-frisco/ .

Californisoul si apre con I Am Done Missing You, che ondeggia tra un classico blues-rock di stampo seventies, anche con uso di armonica, con elementi funky, reggae e coretti che cercano di strizzare l’occhio alle radio, mai senza sbracare troppo, insomma un tocco di modernità senza comunque adagiarsi a fondo nel conformismo della musica attuale, tutta uguale, e con Lopez che comincia subito a scaldare il suo wah-wah. Il primo ospite a presentarsi è Robben Ford, con il suo tocco raffinato e di gran classe, in un brano, Somebody’s Fool, che richiama certe cose vagamente alla Cream, con Grossi, che è l’autore di tutti i brani, che inserisce sempre qualche elemento più leggero e commerciale, ma le chitarre viaggiano alla grande, Lopez alla slide e Ford molto bluesy e tirato per i suoi standard abituali; L.O.V.E. ha ancora questa aura da Californisoul, con R&B e Rock che vanno a braccetto con il blues, di nuovo armonica e chitarre a guidare le danze, ma anche il groove non manca, e gli altri musicisti aggiunti, Alessandro Alessandroni Jr. alle tastiere (proprio lui, figlio d’arte del famoso “fischiatore dei Western di Morricone), Serge Simic, armonie vocali in Love” e “Hard Times”, come pure Andrea e Francis Benitez Grossi, danno quel tocco più radiofonico https://www.youtube.com/watch?v=wKnjRBk2Xjc . Broken Hart con Billy Gibbons alla seconda chitarra, potete immaginare come è, due texani nello stesso brano ed è subito southern rock a tutta forza, non si fanno prigionieri; Bad Boys, ancora con Lance Lopez a pigiare sul suo pedale wah-wah, attinge sia dall’Hendrix più nero come dalle band di funky-rock anni ’70, come conferma la successiva Elevate, questa volta con Eric Gales, altro hendrixiano doc, a duettare con Lopez in uno sciabordio frenetico di chitarre a manetta e cambi di tempo repentini (non so cosa ho detto, ma suona bene).

The One tenta anche la carta del latin-rock alla Santana, con discreti risultati, grazie anche ai soliti inserti soul, mentre Hard Times, con l’ex Toto Steve Lukather alla seconda solista aggiunta, nei suoi quasi otto minuti prova con successo la strada di un rock melodico, complesso, anche raffinato, costruito su un bel crescendo di questa rock ballad che gira attorno al grande lavoro dei vari musicisti coinvolti, e che finale! Cry è un bel lento che ruota attorno ad un piano elettrico e con il gruppo che costruisce lentamente l’atmosfera di questa sorta di preghiera laica; Stranger, di nuovo a tutto wah-wah, non allenta la tensione del rock tirato che domina questo Californisoul, che poi, grazie alla presenza di Walter Trout alla seconda chitarra, aumenta la quota blues (rock) in lento molto “atmosferico” e con le soliste che lavorano veramente di fino. Thank You, con una sezione fiati che sbuca dal nulla e i ritmi decisamente reggae di This is Love, mi sembrano canzoni meno centrate, al di là del solito buon lavoro della solista di Lopez, ma secondo il mio gusto personale abbassano il livello medio di un album complessivamente buono e destinato soprattutto a chi ama il rock energico e chitarristico.

Bruno Conti

Un Bell’Esempio Di Follia (Musicale) Con Metodo. The Texas Gentlemen – TX Jelly

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The Texas Gentlemen – TX Jelly – New West CD

Storia particolare quella dei Texas Gentlemen. Gruppo composto da texani doc, formato qualche anno fa da Beau Bedford, che ha chiamato intorno a sé giovani ma bravi musicisti di sua conoscenza (Nik Lee, Daniel Creamer, Matt McDonald e Ryan Ake) con l’intento di formare una backing band per artisti più famosi di loro, come per esempio Leon Bridges e Nikki Lane. La svolta è avvenuta lo scorso anno, quando il grande Kris Kristofferson (uno che il talento lo sa riconoscere) li ha voluti come gruppo di accompagnamento per il suo ritorno al Festival di Newport 45 anni dopo la sua ultima apparizione. La cosa ha funzionato talmente bene che Kris ha chiesto loro di seguirlo per altre date, cosa che ha certamente donato ai ragazzi un’esposizione che prima non si sognavano neppure; il passo successivo è stato incidere il loro primo disco, e per farlo hanno varcato i confini texani, andando nei leggendari FAME Studios di Muscle Shoals, in Alabama, dove hanno fatto tutto in soli quattro giorni. Ed il risultato, TX Jelly, è un disco stimolante, creativo, inatteso: i cinque non sono il solito gruppo country-rock del Lone Star State, ma sono influenzati dalle mitiche backing bands della storia americana, come la Wrecking Crew di Los Angeles, o gli stessi Muscle Shoals Swampers, o ancora Booker T. & The MG’s.

Infatti nelle loro canzoni trovano spazio una miriade di generi, che vanno dal rock al country, dal funky al blues, dal southern al soul e perfino lounge music, il tutto mescolato in maniera molto creativa e per nulla confusionaria. TX Jelly è quindi un lavoro decisamente piacevole ed originale, dato che non sai mai cosa aspettarti nella canzone seguente, ed i ragazzi suonano con ottima tecnica ma anche con quel pizzico di lucida follia che non guasta (basta guardare alcuni dei loro video che si trovano in rete per notare che sono un po’ fuori di testa). Il CD inizia in modo insolito, cioè con lo strumentale Habbie Doobie, una canzone che in realtà è una jam chitarristica tra rock e funk, con un riff ripetuto e brevi ma ficcanti assoli della solista di Ake, brano forse ripetitivo ma intrigante. Pain sembra un country rock di matrice southern degli anni settanta, un boogie orecchiabile e trascinante, con gran lavoro di piano e chitarra, che quando viene chiamata in causa sa come dire la sua: ci sono anche tracce pop del migliore Elton John, quello di Tumbleweed Connection; Bondurant Women è ancora puro rock di matrice seventies, decisamente evocativo, con una melodia diretta e suono classico, basato su organo e chitarra. Dream Along è una country song languida, strascicata, quasi sonnolenta, come se Willie Nelson si fosse appena svegliato dopo una notte di bagordi, bizzarra ma non priva di fascino.

Gone (scritta insieme a Paul Cauthen così come la seguente, e Paul è anche presente come voce aggiunta) è al contrario un pimpante e ritmato country-rock alla Waylon, ma con le chitarre che suonano come quelle di un gruppo sudista, mentre My Way inizia proprio come un country fatto alla maniera di Elvis, con coro alle spalle che ricorda i Jordanaires, poi diventa all’improvviso un rock’n’roll scatenato, per poi tornare all’atmosfera languida iniziale: creatività e follia a braccetto. Con Superstition si cambia completamente registro, in quanto ci troviamo di fronte ad un pop-jazz afterhours di quelli raffinati modello lounge, da mettere per una serata galante e con tanto di sax “da struscio”, mentre TX Jelly è un altro strumentale che sa più di improvvisazione in studio, quasi una backing track per batteria e poco altro, unico episodio direi un po’ fine a sé stesso. Pretty Flowers è di nuovo un country d’altri tempi, un honky-tonk che sembra uscito da un album di fine anni sessanta di George Jones, che precede la lunga (otto minuti) Shakin’ All Over, vecchio brano di Johnny Kidd & The Pirates (ma ala facevano anche gli Who, soprattutto dal vivo), che qui viene suonata in perfetto stile surf e con un cantato in giusta sintonia, sembra una cover di qualche oscuro gruppo beat, altro che Texas: la chitarra si produce in un lungo e strepitoso assolo dai toni addirittura psichedelici https://www.youtube.com/watch?v=fYMMk6jvUt8 , creatività davvero a mille, immagino cosa possano diventare dal vivo. Il finale è tranquillo con Trading Paint, con la quale si rimane sempre negli anni cinquanta-sessanta, ma il pezzo è un folk acustico con un coro che fa tanto Monti Appalachi.

I Texas Gentlemen sono un gruppo da tenere d’occhio, hanno tecnica ma anche inventiva: d’altronde se uno come Kris Kristofferson li ha voluti con lui qualcosa vorrà pur dire.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: La Ristampa Dell’Anno? C’Era Una Volta: Tim Buckley – The Complete Album Collection

tim buckley the complete album collection

Tim Buckley – The Complete Album Collection – 8 CD Rhino/Warner

Prima di iniziare ad esaminare il contenuto di questo peraltro splendido cofanetto (per i contenuti), una breve premessa: il sottoscritto ha sempre avuto una particolare predilezione per Tim Buckley, che considero uno dei più bravi ed originali cantautori mai prodotti dalla cosiddetta musica leggera o pop (per usare la terminologia inglese). Originale ed avventuroso, in possesso di una voce splendida, in grado di eseguire incredibili acrobazie vocali, ma anche di una dolcezza ed una tristezza a tratti infinita e struggente. Quindi uno presume che dietro tutto ciò si celasse una personalità complessa e multiforme, capace, dopo aver sposato, a soli 18 anni, Mary Guilbert, sua compagna ad un corso di francese, di lasciarla appena un mese prima della nascita del figlio Jeff  (poi diventato anche lui musicista, sia pure osannato dalla critica e dal pubblico ovunque nel mondo, soprattutto tra i più giovani, ma secondo me, che pure lo apprezzo, non ha raggiunto comunque i vertici espressivi del babbo), abbandonato ancora prima di conoscerlo. Quindi diciamo non una persona “simpatica” o da ammirare per forza, uno che in ogni caso, dopo il successo iniziale, ha vissuto una vita difficile, segnata da problemi con alcol e droga, e culminata con la morte avvenuta per una overdose nel giugno del 1975, dopo un lungo periodo da “tossico perduto” nella parte finale della sua carriera, e  pochi mesi dopo aver lasciato il “club dei 27”, tristemente noto in quel periodo storico musicale.

Ma prima Buckley ha fatto in tempo a consegnarci, tra il 1966 e il 1975, una serie di album veramente formidabili, che ora la Rhino/Warner, con la tipica incongruenza delle case discografiche majors, ha raccolto in questo box di 8 CD, dove mancano però gli ultimi due dischi della sua discografia, Sefronia e Look At The Fool (ristampati separatamente dalla Edsel), e obbligandoci quasi a definire questo cofanetto The (In)Complete Album Collection. Comunque si tratta di un bel sentire, gli album sono nelle loro edizioni regolari, anche se alcuni dei primi, usciti per la Elektra, avevano avuto in passato l’onore di edizioni rimasterizzate e potenziate, e come bonus, oltre ai primi sette album, c’è anche un CD Works In Progress, che raccoglie rare versioni alternative ed inedite di molti suoi brani, pubblicato in origine dalla Rhino Handmade a tiratura limitata, e quindi di scarsa reperibilità, come peraltro molti dei suoi album che in CD hanno sempre avuto una vita difficile, quasi come quella del loro autore.

Ma i contenuti musicali sono assolutamente da tesaurizzare: si parte con l’omonimo Tim Buckley, pubblicato dalla Elektra e prodotto da Jac Holzman e Paul A. Rotchild, il primo, il boss della etichetta che lo aveva messo sotto contratto grazie alla segnalazione del manager dell’epoca di Frank Zappa, Herb Cohen, che poi sarà un personaggio ricorrente nella carriera di Buckley; il disco esce nell’ottobre del 1966, si tratta di un album “folk”, ma con elementi rock, grazie alla presenza di musicisti come Lee Underwood alla chitarra (una costante nelle carriera di Tim), Jim Fielder al basso (poi nei Blood, Sweat And Tears), Van Dyke Parks alle tastiere, Billy Mundi batterista dei Mothers Of Invention e gli arrangiamenti degli archi di Jack Nitzsche. I testi di parecchie delle canzoni sono del poeta e paroliere Larry Beckett, mentre Buckley usa quel particolare stile chitarristico, dovuto all’incidente occorso in una partita di baseball, che gli causò la frattura delle prime due dita della mano sinistra, con un danno permanente che lo obbligò all’uso di particolari accordature più aperte che creano un suono più ricercato e complesso. Senza approfondire, potrebbe essere stato un fattore fondamentale nel suo stile unico e quasi sperimentale: il disco, come si diceva è uscito anche in una edizione estesa doppia, che contiene sia la versione mono che stereo, oltre a 22 tracce registrate tra il 1965 e il 1966 prima della pubblicazione dell’album. Nel box c’è la versione con 12 brani: l’incalzante I Can’t See You ci introduce a quella voce già splendida e matura, a soli 19 anni in grado di intricati timbri e sfumature, con un sound che è quello del folk-rock dell’epoca, ma con tempi e arrangiamenti molto più complessi, mentre Wings più sognante e segnata dall’uso barocco degli archi fu il primo singolo, Song Of The Magician ha quell’aria favolistica tipica dei testi di Beckett e le prime derive jazzistiche del suono di Buckley; Valentine Melody è una ballata acustica ed elegiaca che anticipa futuri sviluppi e dove si apprezza il tenore di Tim, che poi sarebbe stato in grado di spaziare anche verso timbri baritonali, molto belle anche le atmosfere di Song Slowly Song e della frizzante Grief In My Soul, molto jingle-jangle, come pure She Is.

Goodbye And Hello, che molti critici americani più allineati alla tradizione, che non amano il periodo sperimentale del nostro, considerano il suo capolavoro, oltre ad essere un disco bellissimo, fu anche il suo maggiore successo commerciale, co-prodotto da Holzman e Jerry Yester dei Lovin’ Spoonful, il disco fu inciso nel giugno del 1967, mentre usciva Sgt. Pepper dei Beatles, che qualche influenza, almeno a livello esplorativo la generò, comprende due delle canzoni più celebri di Buckley, Once I Was (di recente apparsa nell’album postumo di Gregg Allman) e Morning Glory, ma già l’incipit di No Man Can Find The War, con il lavoro splendido di Fielder al basso e di Jim Gordon alla batteria, spinge la voce di Tim verso ardite timbriche che ne esaltano l’afflato interpretativo. Comunque tutto il disco è molto bello,  il valzerone beatlesiano di Carnival Song, con quei tocchi di leggero falsetto affascinanti, l’ardita Pleasant Street, la visionaria Hallucinations, l’urgenza sonora di I Never Asked To Be Your Mountain, l’acid folk di Phantasmagoria In Two e le atmosfere complesse ed orchestrali della lunga title track testimoniano di un album splendido in tutte le sue componenti.

Happy/Sad, il terzo album, l’ultimo per la Elektra, segna una svolta più sperimentale e jazz nel suo songbook, con la produzione affidata ad un altro Lovin’ Spoonul, Zal Yanovksy, e la presenza a fianco dell’immancabile Underwood, di musicisti più portati all’improvvisazione, come John Miller al contrabbasso, Carter Collins alle congas e soprattutto David Friedman a vibrafono, marimba e percussioni: i brani si dilatano in lunghezza, con le improvvisazioni vocali che sfiorano gli otto minuti in una Strange Feelin’ ancora quasi “tradizionale”, la bellissima Buzzin’ Fly che è ancora legata alle atmosfere degli album precedenti, Love From Room 109 At The Islander, supera i dieci minuti, ma le melodie supportate dall’elettrica di Underwood e marimba e vibrafono di Friedman sono ancora ricche di spunti melodici, come pure Dream Letter, un altro dei suo brani più noti, fino a culminare nella lunghissima Gypsy Woman, che per certi versi anticipa la futura svolta R&B di Greetings From L.A., con le acrobazie vocali di Buckley sempre più intricate.

Blue Afternoon, registrato insieme a Happy/Sad, esce sempre nel 1969 ed è il primo album per la nuova etichetta Straight, fondata da Herb Cohen e Frank Zappa, il sound è sempre jazz-rock, ai musicisti si aggiunge Jimmy Madison alla batteria: Happy Time è comunque splendida e malinconica, ed insieme alla successiva Chase The Blues Away era già stato “provato” nel 1968 per una eventuale inclusione nel disco precedente, come testimoniano le versioni presenti nell’ottavo CD Works In Progress; splendide anche I Must Have Been Blind, The River e Blue Melody, ma come sempre è l’album nel suo insieme ad essere immune allo scorrere del tempo.

In quel periodo di attività frenetica viene inciso anche Lorca, che poi uscirà nel 1970 ancora per la Elektra, si tratta di un album ermetico e molto difficile da ascoltare, free form folk, avanguardia, jazz, il tutto portato ai limiti dell’improvvisazione vocale, ricordo che la prima volta che lo ascoltai, in una calda serata estiva di tanti anni fa, alla fine dell’ascolto effettuato in cuffia (per non disturbare i vicini) c’era quasi la tentazione di gettarsi dalla finestra, ma per fortuna ho sempre abitato al primo piano e non ho mai corteggiato velleità autolesioniste. Comunque il disco consta di soli cinque brani ed è da maneggiare con cura in fase di ascolto, affascinante ma non consigliabile a rockers ed affini, la voce sale e scende su un tappeto di piano elettrico, chitarra, organo e percussioni, con degli attimi di ascolto “quasi doloroso” nella title track e nella successiva intensissima Anonymous Proposition, mentre la seconda facciata con la dolce I Had A Talk With My Woman, la jazzata Driftin’ e la movimentata Nobody Walkin’ è più approcciabile.

Starsailor, esce a dicembre del 1970, di nuovo per la Straight, e si tratta dell’album che la critica cosiddetta più illuminata, considera il suo capolavoro assoluto, prodotto dallo stesso Buckley, contiene la sua canzone più ripresa da altri artisti, Song To The Siren, un brano scritto ancora con Beckett (che torna a collaborare con Tim) nel 1967 e per la serie “il mondo è strano” fu incisa per primo dal famoso “cantante di avanguardia” Pat Boone (e sapete una cosa, l’avevo sentito per curiosità già ai tempi, e, eresia, non è per niente una brutta versione, diversa da quella eterea dei This Mortal Coil ma per nulla disprezzabile https://www.youtube.com/watch?v=3gH3Z6BOCco ): l’originale è magnifico, radioso, sfarzoso, splendente, scegliete il sinonimo che preferite, ci stanno tutti, con il resto dell’album più buio e tempestoso, dalla iniziale, aggressiva Come Here Woman, alla “sognante” I Woke Up, passando per il rock sperimentale di Monterey, Jungle Fire, o la title-track Starsailor, un collage vocale ai confini della sperimentazione, tutti brani dove Buckley spinge la sua voce ai limiti della ricerca, al di fuori forse solo della classica contemporanea o del free jazz.

A questo punto Tim Buckley, con le vendite degli album a picco, scioglie la band di Starsailor e raduna un gruppo funky per incidere il carnale e sorprendente Greetings From L.A. , il disco del 1972 per gli amanti di un Buckley più immediato ed avvicinabile, ma anche un grande album di funky-rock, cantato e suonato da Dio, con canzoni che anticipano il blue-eyed soul di qualche anno dopo e non sfigurano con il repertorio, che so, dei Little Feat più leggeri, testi salaci e ritmi vorticosi per Move With Me, Get On Top, Nighthawkin’, Devil Eyes o la più ricercata Sweet Surrender. Un’altra faccia di un artista complesso e completo come pochi nella storia del rock. E soprattutto un cofanetto indispensabile! Prossimamente su queste pagine virtuali anche i due recenti Live inediti e un cenno ai due album di studio mancanti,

Bruno Conti

Anche Al “Cubo” E’ Sempre Bonamassa Con Soci Vari. Rock Candy Funk Party – The Groove Cubed

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Rock Candy Funk Party – The Groove Cubed – Mascot/Provogue     

Già serpeggiava la preoccupazione tra I fans e gli addetti al settore: ma come, saranno almeno un paio di mesi (o poco più), in pratica dall’ultimo dei Black Country Communion  , che non usciva nulla di nuovo di Joe Bonamassa http://discoclub.myblog.it/2017/09/13/avevano-detto-che-non-sarebbe-mai-successo-e-invece-sono-tornati-e-picchiano-sempre-come-dei-fabbri-black-country-communion-bcciv/ ! E invece niente paura ecco il nuovo CD dei Rock Candy Funk Party, il quarto, compreso il Live del 2014: il titolo The Groove Cubed, ovvero “il groove al cubo” farebbe pensare ad un album ancora più funky del solito, invece mi sembra, pur rimanendo in quell’ambito, che la quota rock sia aumentata http://discoclub.myblog.it/2015/09/05/attesa-del-nuovo-live-ecco-laltro-bonamassa-rock-candy-funk-party-groove-is-king/ . Non che il funk ed jazz-rock strumentale dei dischi precedenti sia assente, ma già la presenza di due brani cantati, uno da Ty Taylor dei Vintage Trouble e l’altro da Mahalia Barnes (sempre più figlia di Jimmy, e spesso “complice” di Bonamssa nei suoi dischi), segnala una maggiore varietà di temi sonori, peraltro non del tutto per il meglio.

Il disco è suonato comunque in modo impeccabile (a tratti addirittura travolgente a livello tecnico) dal quintetto dei RCFP: Ron De Jesus alle chitarre e Renato Neto alle tastiere, si dividono con Joe Bonamassa le parti soliste, senza dimenticare la sezione ritmica con l’ottimo bassista Mike Merritt ed il fantastico batterista Tal Bergman, una vera potenza nonché leader della band. Brani come l’iniziale Gothic Orleans, con le sue atmosfere sospese che poi esplodono in un vortice rock, e la successiva Drunk On Bourbon On Bourbon Street segnalano una maggiore presenza appunto del filone rock, con elementi funky in arrivo questa volta dalla Louisiana, ma la con band che tira anche di brutto, con le chitarre ficcanti e un piano elettrico che si dividono gli spazi solisti. Il funky al cubo riprende il sopravvento in una ritmatissima In The Groove che sembra uscire da qualche vecchio disco dei Return To Forever con Al DiMeola o della band di Herbie Hancock di metà anni ’70, quella con Wah-Wah Watson alla chitarra; pure il brano cantato da Ty Taylor, Don’t Even Try It, più che a James Brown o al soul, mi sembra si rivolga a Prince e Chaka Khan, piuttosto che a Parliament o Funkadelic, per la gioia della casa discografica, quasi un singolo radiofonico, direi fin troppo commerciale.

Two Guys And Stanley Kubrick Walk Into A Jazz Club, oltre a candidarsi tra i migliori titoli di canzone dell’anno, è più scandita e jazzata, con improvvise scariche elettriche a insinuarsi in un tessuto quasi “tradizionale” con Merritt impegnato anche al contrabbasso e Renato Neto al piano, entrambi che lavorano di fino; Isle Of The Wright Brothers è un breve intermezzo superfluo, mentre il groove torna padrone assoluto nella atmosferica Mr. Space, che tiene fede al proprio titolo, in un brano che potrebbe richiamare persino i Weather Report più elettrici. I Got The Feelin’ è il pezzo dove appare Mahalia Barnes, ma anche  in questo caso più che al soul o al R&B misto al rock, marchio di famiglia, ci si rivolge ad un funky alla Chaka Khan, ma non del periodo Rufus. Insomma i due brani cantati mi sembrano i meno validi ed interessanti, bruttarelli direi, a dispetto delle belle voci utilizzate, sulla pista da ballo faranno la loro porca figura, ma ci interessa meno. Afterhours è un altro breve episodio più riflessivo, ma termina troppo presto, mentre nella ricerca di titoli divertenti e curiosi, il secondo che troviamo è This Tune Should Run For President, un mid-tempo quasi melodico, con improvvise accelerazioni e cambi di tempo di stampo zappiano, che culmina in un notevole assolo di Bonamassa, ricco di feeling, tecnica e velocità.

Mr Funkadamus Returns And He Is Mad, sembra un pezzo estratto da Spectrum di Billy Cobham, con la batteria “lavorata” di Bergman in evidenza. Funk-o-potamia (nei titoli la fantasia regna sovrana), potrebbe essere il figlio illegittimo di Kashmir e di qualche brano degli Yes o degli Utopia, quindi più sul lato rock che funky, mentre The Token Ballad, nonostante il titolo che fa presagire qualcosa di tranquillo,  viaggia ancora verso territori prog, con vorticosi interscambi tra tastiere e chitarre, con un assolo di synth molto anni ’70. Ping Pong è il divertissement finale, una specie di swing jazz con assolo di chitarra situato tra Jim Hall e Wes Montgomery e successivo intervento di piano elettrico. Molta carne al fuoco, forse anche troppa, ma chi ama la musica complessa potrebbe trovare pane per i suoi denti.

Bruno Conti

Vera Musica Di Montagna…Ed Il Suono Ci Guadagna! Wild Ponies – Galax

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Wild Ponies – Galax – Gearbox CD

Terzo album per i Wild Ponies, un gruppo della Virginia che in realtà è un duo formato da Doug e Telisha Williams, che nella vita sono anche marito e moglie. Galax, il titolo dell’album, è anche il nome di una città limitrofa al luogo nel quale i due sono nati, una località collinare non distante dai monti Appalachi: ed il disco è proprio un omaggio dei due alle loro radici, ed alla musica di quelle montagne, una miscela di folk, bluegrass, country ed old-time music davvero stimolante, registrata insieme a musicisti locali ed a veri e propri maestri di Nashville come Fats Kaplin e Will Kimbrough. La maggior parte dei brani è scritto dai due Pony Selvaggi, anche se il sapore è del tutto tradizionale, merito delle melodie che hanno agganci con il passato e della strumentazione quasi esclusivamente acustica e suonata con la perizia di autentici pickers, con la batteria che interviene solo ogni tanto (ad opera di un altro nome molto conosciuto a Nashville, Neilson Hubbard).

Un CD fresco e piacevole, con i nostri che ci danno dentro con grande forza e feeling indiscutibile. L’unico traditional del disco è posto proprio in apertura: Sally Ann è un godibilissimo bluegrass che più classico non si può, un tripudio di chitarre, mandolino, violino e banjo, il tutto eseguito con grande energia e con un bel botta e risposta tra la voce di Telisha ed il coro, sembra di trovarsi di fronte ad una vecchia registrazione dei Weavers o dei New Lost City Ramblers. Tower And The Wheel è sempre dominata da una strumentazione folk-grass, ma la melodia la fa sembrare un racconto western, con gran lavoro di banjo e violino; Pretty Bird è un noto brano della grande folksinger Hazel Dickens, reso come un autentico field recording (si sente perfino il frinire dei grilli), che inizia solo con Telisha alla voce e Doug alla chitarra, tempo lento e drammatico, poi a metà canzone arriva Kaplin con il suo violino e dona il tocco che mancava. Molto bella anche la vivace To My Grave, un’altra deliziosa western song, e stavolta c’è anche la batteria; l’intensa Will They Still Know Me vede finalmente Doug alla voce solista, una voce vissuta, non bella come quella della moglie ma particolare, e poi il brano è profondo ed evocativo, tra country e folk d’antan (e spunta perfino una chitarra elettrica).

Hearts And Bones (non è quella di Paul Simon) è una ballata folk purissima e cristallina, perfetta per la voce limpida di Telisha, Jacknife, del giovane cantautore Jon Byrd, è dotata di una melodia meno d’altri tempi, più sullo stile di Kris Kristofferson, mentre Mamma Bird è puro folk, con un ritornello immediato ed il solito prezioso apporto di banjo, violino e quant’altro. Il CD termina con Goodnight Partner, la più attuale fra le canzoni proposte, un ottimo honky-tonk con tanto di steel e chitarra twang, e con Here With Me, altra ballata pura come l’acqua dei monti Appalachi, il secondo motivo cantato da Doug ed uno dei più toccanti di tutto il lavoro. Se in altri settori (per esempio quello culinario) tradizione ed innovazione possono anche andare a braccetto, con i Wild Ponies ci possiamo anche dimenticare per un attimo dell’innovazione, senza che questo vada però ad incidere sulla piacevolezza e sul divertimento.

Marco Verdi

Diverso Dal Precedente, Ma Sempre Musica di “Classe”! Marc Broussard – Easy To Love

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Marc Broussard – Easy To Love – Artist Tone Records

Circa un anno fa (facendo la tara per il tempo che c’è voluto per recuperarlo, vista la non facile reperibilità) era uscito Sos Save Our Soul II, un disco splendido dove Marc Broussard rivisitava, con classe sopraffina e voce vellutata, alcuni classici della soul music, con arrangiamenti di grande fascino e un sound volutamente vintage http://discoclub.myblog.it/2017/02/02/peccato-sia-difficile-da-trovare-marc-broussard-s-o-s-2-save-our-soul-soul-on-a-mission/ . E quel disco, nell’ambito “bianchi che cantano musica nera”, qundi non semplicemente “blue-eyed soul”, era risultato uno dei migliori dell’anno, insieme a quello di Jimmy Barnes. Ora esce un nuovo album dell’artista di Carencro (la sua citta nativa della Louisiana, che dava il titolo al primo album per una major, del 2004): per l’occasione Broussard si riunisce con il musicista, polistrumentista e produttore Jim McGorman, che aveva collaborato a quel disco d’esordio. In Easy To Love suonano anche alcuni dei musicisti che avevano dato a Save Our Soul II quel sound caldo ed avvolgente, ossia Joe Stark, chitarre e basso, Ben Alleman, tastiere e Chad Gilmore, batteria, nomi non altisonanti ma molto funzionali alla musica del nostro amico: ed in effetti le canzoni dove appaiono questi tre hanno un calore, una presenza e una intimità invidiabili, che manca, o è forse meno evidente, nei pezzi dove McGorman suona quasi tutti gli strumenti, con l’aiuto di altri turnisti, che si sono alternati nelle registrazioni, effettuate in parte in California e in parte in Louisiana.

Saranno forse dei tecnicismi, ma secondo me i nomi contano, eccome, e per questo, ove possibile, preferisco sempre segnalarli: un altro fattore importante sono le canzoni, nel CD dello scorso anno Do Right Woman, Twistin’ The Night Away, These Arms Of Mine, I Was Made To Love Her, Cry To Me, In The Midnight Hour e così via, suonate e cantate divinamente. In questo caso il repertorio è originale, brani a firma Broussard, che ovviamente non possono reggere il paragone con i classici del passato, ma il disco ha comunque una sua dignità grazie alla caratura del protagonista. Siamo di fronte, questa volta sì, ad un disco di blue-eyed soul, nella migliore accezione del termine, con elementi aggiunti di stile cantautorale classico e molta soul music, ma forse di quella del periodo “tardo”, più Philly Sound o Motown, che Stax o Hi Records, comunque il tutto si ascolta con estrema piacevolezza e Broussard ha sempre una bellissima voce. Prendiamo Leave A Light On, una bellissima ballata (con un refrain che mi ha ricordato vagamente Candle In The Wind e altri brani di Elton John), un brano da cantautore californiano puro, dolce ed avvolgente, suonato benissimo, anche dai musicisti non citati, con piano, pedal steel e chitarre acustiche che caratterizzano il sound della canzone, fosse tutto così il disco, anche se non è soul, sarebbe comunque un gran bel sentire. Niente male pure Baton Rouge, un brano tra rock, blues e soul, come nei suoi primi dischi, dedicato alla sua regione d’origine, delicato e cantato con passione da Broussard, che si conferma vocalist di assoluto pregio.

Please Please Please è un’altra delicata canzone, non priva di una certa urgenza, anche se poi il suono si fa meno vintage, e vira a tratti verso certe leziosità e derive radiofoniche, senza mai scadere più di tanto, insomma una radio che ci potrebbe anche piacere. Rosé All Day, un inno all’edonismo, ha qualche elemento sonoro in levare, quasi al limite del reggae, ma siamo comunque ancora in un blue-eyed soul di buona fattura, e il falsetto di Marc, che appare anche altrove, è uno strumento non secondario; per Easy To Love, la title-track, suonata con i musicisti citati all’inizio, il nostro amico sfodera un timbro quasi alla Sam Cooke, da godere appieno, con coretti gospel che ne circondano la prestazione vocale magnifica. Memory Of You ha un sound “moderno”, forse un filo troppo “nu soul”, ma la voce non si discute,  con Stand By You che rimane sempre in questi territori leggermente più affettati che prendono ispirazione dal vecchio Philly Sound, vellutato e morbido. Anybody Out There potrebbe far pensare al Marvin Gaye “ecologico” incrociato a Stevie Wonder, insomma, per dirla tutta, c’è di peggio in giro; anche Wounded Hearts ha sempre queste atmosfere sospese e di sostanza, grazie al terzetto dei musicisti più volte citati; molto bella anche la dolce ed elettroacustica Don’t Be Afraid To Call Me dove Broussard indulge ancora con classe nel suo lato più da cantautore classico. E anche I Miss You è un’altra piccola perla intima e delicata, con la voce che raggiunge vette di partecipazione notevole; Send Me A Sign lavora ancor più di sottrazione, solo piano e quella voce splendida, “trucco” ripetuto per la bellissima Gavin’s Song, mentre in mezzo c’è una versione da brividi di Mercy Mercy Me di Marvin Gaye, solo voce e chitarra acustica, che conferma la classe cristallina di questo cantante purtroppo sconosciuto ai più, ma di una bravura imbarazzante (per gli altri)! Buona ricerca, anche questo CD non è di facile reperibilità.

Bruno Conti