Ancora Un Bellissimo “Bootleg” Radiofonico…Peccato Sia Solo Singolo! Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour

tom petty strange behaviour

Tom Petty & The Heartbreakers – Strange Behaviour – Hobo CD

Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni, non sono un grande fan dei CD tratti da vecchi broadcast radiofonici, in pratica dei bootleg sotto falso nome, non tanto per la qualità che spesso è eccellente, e nemmeno per il valore storico di certe performances che è indiscutibile, ma per una mera ragione finanziaria: le mie (nostre) finanze di music lover(s) sono già abbastanza provate da album nuovi, live ufficiali, edizioni celebrative e cofanetti super deluxe, e non c’è il bisogno di aggiungere altra carne sul fuoco. Uno dei rari artisti per il quale faccio, e non sempre, un’eccezione è Tom Petty, soprattutto perché con i suoi Heartbreakers dal vivo era un’autentica meraviglia: dalla tragica ed improvvisa scomparsa del biondo rocker avvenuta lo scorso Ottobre si sono ovviamente moltiplicate le uscite per così dire semi-ufficiali, ed il culmine artistico si è avuto verso la fine del 2017 con il formidabile triplo San Francisco Serenades, uno dei migliori live degli ultimi trent’anni (ignoriamo per un attimo il fatto che sia un bootleg), esaltato giustamente da Bruno su questo blog http://discoclub.myblog.it/2018/01/07/supplemento-della-domenica-il-piu-bel-disco-dal-vivo-dello-scorso-anno-anche-se-non-e-ufficiale-ed-e-registrato-nel-1997-tom-petty-and-the-heartbreakers-san-francisco-serenades/ .

Oggi vorrei parlarvi di questo Strange Behaviour, che se non raggiunge e neppure sfiora le vette del poc’anzi citato triplo CD, è comunque uno splendido live album, che ha l’unico difetto di essere singolo: registrato il 13 Settembre del 1989 a Chapel Hill (North Carolina), questa serata fa parte del tour seguito a Full Moon Fever, primo album registrato da Tom come solista (con la collaborazione di Jeff Lynne), anche se dal vivo non manca l’apporto degli inseparabili Spezzacuori. La qualità sonora è strepitosa, sembra un live ufficiale, peccato come ho già detto che non sia almeno doppio: le note del foglietto allegato al CD parlano di concerto completo, ma non credo proprio che all’epoca gli show di Tom durassero solo 72 minuti (forse si riferiscono alla parte trasmessa per radio). Inizio a tutto rock’n’roll con la trascinante Bye Bye Johnny (Chuck Berry), con Tom subito caldo e gli Heartbreakers già lanciati come treni ad alta velocità; l’incalzante The Damage You’ve Done era uno dei brani migliori del sottovalutato Let Me Up (I’ve Had Enough), un disco poco amato anche da Tom (ma a me piace), e ci dà un primo assaggio di come i nostri riuscivano a trasformare una canzone on stage: sinuoso, cadenzato e dominato dal basso pulsante di Howie Epstein, il pezzo risulta decisamente riuscito. Breakdown, uno dei classici che Tom usava per improvvisare sul palco, ha una bella intro jazzata, poi entra il brano vero e proprio per la gioia del pubblico, che ci dà dentro con il singalong; Free Fallin’ è il primo dei pezzi tratti da Full Moon Fever, e non la scopro certo io oggi: grandissima canzone, riproposta qui in maniera davvero scintillante.

The Waiting è puro Petty sound, ed è dotata di uno dei ritornelli più immediati del nostro: per l’occasione Tom la propone senza accompagnamento ritmico, solo voce e chitarre elettriche, ma poi al momento dell’assolo di Mike Campbell  entra anche il resto della band. Benmont’s Boogie è un breve showcase strumentale per l’abilità di Benmont Tench, uno dei migliori pianisti rock della nostra epoca, mentre Don’t Come Around Here No More è la chiara dimostrazione di come Tom e i suoi potevano cambiare un pezzo sul palcoscenico: un ottimo brano rock diventa una straordinaria jam di otto minuti, tra rock e psichedelia, con Campbell devastante specie nel pirotecnico finale. Southern Accents è una delle più toccanti ballate pettyiane, e qua il pubblico, anch’esso del sud, va letteralmente in visibilio; Even The Losers è invece uno dei grandi pezzi rock di Tom, che stasera decide di suonarla con un arrangiamento acustico, ed il brano non perde un grammo della sua forza (e questo è il sintomo di una grande band). Stesso trattamento viene riservato a Listen To Her Heart, in origine un pezzo di stampo byrdsiano e qui trasformato in una sorta di folk ballad, mentre A Face In The Crowd, già elettroacustica nella versione di studio, è solo un filo più lenta. Something Big non è molto nota, ma ha un bel tiro anche in questa veste “stripped-down” (stavolta anche con la sezione ritmica), mentre I Won’t Back Down (si torna elettrici) non ha bisogno di presentazioni: una delle signature songs di Tom, che soprattutto dopo la sua morte è destinata a diventare un classico della musica americana, un pezzo che non stufa nemmeno al millesimo ascolto. Finale a tutto rock’n’roll con la potente I Need To Know, il superclassico Refugee è la torrida Runnin’ Down A Dream, quasi un quarto d’ora complessivo a tutta elettricità, con Campbell assoluto protagonista.

Un altro superlativo live album che, anche se non ufficiale, ha il merito di tenere vivo il ricordo di Tom Petty, un musicista che ci manca già da morire.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Il Più Bel Disco Dal Vivo Dello Scorso Anno. Anche Se Non E’ “Ufficiale” Ed E’ Registrato Nel 1997! Tom Petty And The Heartbreakers – San Francisco Serenades

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Tom Petty And The Heartbreakers – San Francisco Serenades The Classic 1997 West Coast Broadcast- 3 CD Leftfield Media

Credo, anzi ne sono pressoché certo, che questo sia il disco dal vivo, relativo ad un concerto pubblicato a livello diciamo “non ufficiale”, più bello che sia stato mai pubblicato! Forse solo un paio di quelli di Springsteen relativi alle date del 1978 possono rivaleggiare con questo triplo, per i contenuti e la durata, per la forza della esibizione, per la bravura dei protagonisti, per la scelta del repertorio, per la qualità sonora della registrazione, veramente superba, degna del concerto. Si tratta del broadcast radiofonico relativo all’ultima data tenuta al Fillmore di San Francisco il 7 febbraio del 1997, in una serie di 20 concerti (in parte pubblicati, anche questa serata, solo una canzone però, nel boxset ufficiale Live Anthology). Il concerto è veramente formidabile, e vede Tom Petty riunito con gli Hearbreakers, e “solo” per quelle venti date, dopo una pausa di circa due anni dal tour del 1995, e anche a livello discografico non usciva nulla insieme (a parte la colonna sonora del film She’s The One dell’anno prima e il box Playback del 1995) da Into The Great Wide Open del 1991:quindi una serata in piena libertà, in cui il gruppo, che era diventato forse il quel momento il n°1 al mondo a livello concertistico, visto che la E Street Band era in pausa al momento e considerando gli Stones fuori concorso.

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https://www.youtube.com/watch?v=19G4L27gW1k

Comunque, anche per gli altissimi standard delle esibizioni Live di Tom Petty & The Heartbreakers, come detto, questo concerto è veramente oltre ogni volo più pindarico della immaginazione, una serata fenomenale, durata oltre 3 ore, dove il quintetto, Tom Petty, chitarra e voce, Mike Campbell, chitarre, Benmont Tench, tastiere, Howie Epstein, basso, e l’ultimo arrivato Steve Ferrone, alla batteria, più Scott Thurston, a chitarre e tastiere, prende il rock and roll e lo rivolta come un calzino, in tutte le sue coniugazioni e attraverso tutti i suoi generi (anche con una divagazione nel blues, di cui tra un attimo): Petty lo dice fin dall’inizio al pubblico che vogliono suonare moltissimo, anche per celebrare quella che è una delle location più importanti della storia della musica rock, e vogliono dare quindi fondo anche alle loro profonda ammirazione per molti dei musicisti che quella storia hanno creato, attraverso i 40 brani che suoneranno: la partenza è subito bruciante, con una versione fantastica di Around And Around di Chuck Berry, uno scossone R&R che mette subito in chiaro come sarà la serata, Campbell e Tench sono subito in azione, Epstein, Thurston e Ferrone li seguono a ruota e Tom Petty è il Maestro delle cerimonie perfetto, a seguire Jammin’ Me, uno dei loro brani più diretti e potenti, scritto con Bob Dylan per l’album Let Me Up (I’ve Had Enough), versione incredibile, ma non ce n’è una scarsa nel concerto, arriva poi subito una turbinosa Runnin’ Down A Dream da Full Moon Fever, con un Campbell veramente scatenato, ma tutti i brani hanno una urgenza, una grinta, raramente riscontrate in una band che era comunque sempre una macchina da guerra.

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https://www.youtube.com/watch?v=EqhJKsBwL_I

A questo punto partono le sorprese, Time Is On My Side è un piccolo classico del R&B, ma la versione è un omaggio a quella dei “maestri” Stones, come pure quella di Call Me The Breeze è ispirata da quella dei Lynyrd Skynyrd (ma il brano è di JJ Cale), il southern secondo gli Heartbreakers, con chitarre spiegate; Cabin Down Below non è uno dei brani più conosciuti di Tom, ma la serata è un po’ così, particolare: versione breve ma intensa, seguita da Diddy Wah Diddy, con Petty che ricorda che “Elvis Is King, but Diddley is Daddy”, poi spazio a Mike Campbell con lo strumentale Slaughter On 10Th Avenue, un brano da balletto classico che probabilmente il chitarrista conosceva nella versione dei Ventures. Listen To Her Heart viene dal secondo album con gli Heartbreakers, uno dei brani più jingle jangle, tra Beatles, Searchers e Byrds, I Won’t Back Down, sempre bellissima, in una versione raccolta solo per voce, chitarra elettrica, organo e dei bonghi, anche The Date I Had With That Ugly Homecoming Queen, uno strano divertissement di Campbell, tra R&R e Zeppelin, con Tom all’armonica, non era un brano comune nei loro concerti, ma la band ci dà dentro di brutto, prima di chiamare sul palco John Lee Hooker, per un trittico di canzoni che sono la storia del blues, Find My Baby, It Serves You Right To Suffer e Boogie Chillun, con il grande “Hook” ancora in forma, nonostante gli 80 li avesse già passati, e pure lui viene “pettyzzato” per l’occasione.

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https://www.youtube.com/watch?v=8LSuzIKEyn0

Si riparte con una versione colossale di It’s Good To Be King, una delle più belle mai ascoltate, spaziale, psichedelica, tra west coast e i Pink Floyd di Dark Side, con Tench e soprattutto Campbell  che suonano in modo divino, soprattutto nella lunga coda strumentale, si prosegue con una sfilza di brani inconsueti, una perfetta Green Onions di Booker T. & The Mg’s, il classico popolare You Are My Sunshine, cantata dal pubblico e Ain’t No Sunshine di Bill Withers che mantiene il tempo dell’originale ma diventa molto più rock, On The Street era uno dei primissimi brani scritto da Tench, quando erano dei ragazzini ed è uscita solo nel box Playback, comunque puro Heartbreakers sound, e che dire di I Want You Back Again degli Zombies, uno dei classici della British invasion, tra le influenze dichiarate da Tom. E il bluegrass degli Stanley Brothers con Little Maggie da dove sbuca? Perfetto comunque, come Walls (Circus) una delle loro ballate più belle, delicata ed evocativa come poche, seguita dall’acustica Angel Dream, il secondo brano tratto dal disco più recente all’epoca She’s The One, entrambe bellissime in questa serata magica, con Mike Campbell che poi si “reinventa” il vecchio Guitar Boogie (Shuffle) di Arthur Smith, prima di un uno-due da sballo con Even The Losers e American Girl, in modalità acustica, e sono bellissime anche così. You Really Got Me dei Kinks si può fare solo con le chitarre a manetta, e quindi procedono in tal senso, prima di lanciarsi nel traditional County Farm fatto a tempo di boogie southern come dei novelli ZZ Top o Thorogood , un brano di una potenza devastante con Campbell che giganteggia alla slide e al wah-wah, e per non farsi mancare nulla anche la versione di You Wreck Me è da antologia, presa a 300 all’ora contromano in autostrada.

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https://www.youtube.com/watch?v=9JOzOlB4Vm8

Siamo al terzo CD e devo dire che a parte un paio di super classici, nella parte finale il menu è ancora zeppo di sorprese fantastiche: Shakin’ All Over, forse più vicina a quella sixties di Johnny Kidd & The Pirates che a quella degli Who, comunque sempre un gran bel sentire, non poteva certo mancare una Mary Jane’s Last Dance in versione deluxe da 10 minuti, degna di questo concerto fantastico, con le chitarre che arrotano rock e Petty che dirige il carrozzone come solo lui sapeva fare, con il suoi fido luogotenente Mike Campbell a insaporire la lunga parte strumentale con la loro maestria, molto bella anche You Don’t Know How It Feels in versione quasi younghiana con armonica aggiunta; un’altra scarica di adrenalina è offerta da I Got A Woman del genius Ray Charles, tramutata quasi in un rockabilly, altro brano immancabile è Free Fallin’, per molti la canzone più bella mai scritta da Tom Petty, quasi commovente per l’occasione, poi parte un gran finale pirotecnico, l’enciclopedia del rock rivistata, prima una Gloria lunghissima e scoppiettante, che mastro Van avrebbe approvato, Bye Bye Johnny di Chuck Berry, rock and roll allo stato puro, Satisfaction di tali Jagger/Richards, altra versione micidiale, Louie Louie, a proposito di riff memorabili, e tanto per gradire anche It’s All Over Now. E per mandare tutti a casa una ninna nanna rock come Alright Now. Questo sarebbe il classico disco da 5 stellette, ma visto che non arriva da una casa discografica ufficiale ne togliamo mezza. E comunque ci mancherà tantissimo!

Bruno Conti

Il “Solito” Ringo, Piacevole E Disimpegnato. Ringo Starr – Give More Love

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Ringo Starr – Give More Love – Universal CD

Personalmente non sono mai stato d’accordo con le critiche più frequenti mosse negli anni verso Ringo Starr, e cioè che fosse un batterista piuttosto scarso e che dovesse la sua fama semplicemente all’allontanamento di Pete Best dal posto dietro ai tamburi dei Beatles. Certo, quello può essere stato un colpo di fortuna, ma il piccolo e nasuto Richard Starkey i galloni se li è guadagnati sul campo, migliorandosi negli anni e mettendo a punto uno stile riconoscibilissimo, pulito ed essenziale: non credo infatti che la miriade di musicisti che, dal 1970 in poi, hanno richiesto i servigi di Ringo sui propri album fossero tutti degli autolesionisti che volevano un batterista poco capace solo perché “faceva figo” avere il nome di un Beatle sul disco. Diverso è il discorso quando si parla di Ringo come musicista in proprio, dato che nella sua ormai ampia discografia (19 album di studio compreso l’ultimo) e volendo stare larghi, di dischi indispensabili ne citerei tre: l’ottimo esercizio di puro country Beaucoups Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973 ed il riuscito comeback album del 1992 Time Takes Time. Nel corso degli ultimi vent’anni Ringo ha continuato ad incidere con regolarità (e ad esibirsi con la sua All-Starr Band, ma questa è un’altra storia), sfornando una serie di album tanto piacevoli quanto tutto sommato superflui, con alcuni meglio di altri (Vertical Man, Ringo Rama, Liverpool 8) ed altri apprezzabili ma decisamente meno riusciti, tra i quali metterei senz’altro i tre usciti nella presente decade, Y Not http://discoclub.myblog.it/2009/12/30/ringo-starr-y-not/ , Ringo 2012 e Postcard From Paradise.

Give More Love, uscito il 15 Settembre scorso, è un buon disco, con alcune canzoni ottime ed altre più nella norma, un lavoro che non si aggiunge certo ai tre “imperdibili” citati all’inizio ma si colloca altrettanto certamente tra i più positivi delle ultime due decadi. Inizialmente Give More Love doveva essere un album country da realizzare in collaborazione con l’ex Eurythmics Dave Stewart, ma poi Ringo ha scritto canzoni con uno spirito diverso, più rock, e le ha incise e prodotte in proprio nel suo studio casalingo. E l’esito finale è molto piacevole, forse più del solito: Ringo non sarà mai un fuoriclasse, ma in tutti questi anni ha imparato anche a scrivere canzoni migliori, e se messo nelle giuste condizioni, cioè con in brani adatti a lui e con l’aiuto di qualche amico, è ancora in grado di divertire. Dicevo degli amici, ed in questo disco c’è una lista di nomi impressionanti, che solo ad elencarli tutti ci vuole un post a parte (anche se ognuno di loro, devo dirlo, si mette al servizio del nostro senza rubargli mai la scena): Steve Lukather, Peter Frampton, Joe Walsh, Greg Leisz, Dave Stewart, Gary Nicholson, Benmont Tench, Edgar Winter, Don Was, Greg e Matt Bissonette, Timothy B. Schmit, Nathan East e, l’ho lasciato volutamente per ultimo, l’ex compare Paul McCartney al basso in due pezzi. Un gradevole disco di pop-rock quindi, senza troppe problematiche, di classe e suonato benissimo. Si inizia con la potente We’re On The Road Again, un rock’n’roll trascinante con Lukather alla solista e McCartney al basso che “pompano” che è un piacere e Ringo che canta in maniera sicura (e Paul alla fine piazza un paio di controcanti riconoscibilissimi): ottimo avvio. Laughable, cadenzata ed insinuante, è piacevole ed immediata, grazie ad un bel refrain, e mostra che il nostro ha scelto una produzione più rock che pop, con grande spazio per le chitarre (qui l’axeman è Frampton).

Show Me The Way è uno slow piuttosto asciutto nell’arrangiamento (organo, chitarra e sezione ritmica), ma io Ringo lo preferisco nei brani più mossi, come Speed Of Sound, altro rock’n’roll deciso, ben eseguito e sufficientemente coinvolgente, con Frampton che per l’occasione rispolvera il suo talkbox. Molto carina Standing Still, un rock-country-blues con un bravissimo Leisz al dobro e Ringo che intona una melodia che piace all’istante; King Of The Kingdom (scritta con Van Dyke Parks) ha un tempo reggae, un motivo orecchiabile e solare ed un bell’intervento di Winter al sax, mentre Electricity, nonostante la presenza di Walsh e Tench ed un testo autobiografico, non è una gran canzone. Molto meglio So Wrong For So Long, una languida country ballad con la splendida steel di Leisz, unico residuo del progetto iniziale con Stewart (che infatti è co-autore), un peccato comunque che non si sia andati fino in fondo. La parte “nuova” del CD (dopo vedremo perché nuova) si chiude con la swingata Shake It Up, un boogie dal gran ritmo, una delle più immediate del lavoro, e con la squisita title track, la più pop del disco, ma con il sapore nostalgico dei brani dell’amico George Harrison. A questo punto il dischetto presenta quattro bonus tracks, quattro brani che Ringo ha preso dal suo passato reincidendoli ex novo (e va detto, senza mai superare gli originali), a partire da una versione molto particolare di Back Off Boogaloo, che parte dal demo originale del 1971 al quale sono stati aggiunti gli strumenti odierni, e c’è anche Jeff Lynne alla chitarra (e per una volta non alla produzione). Poi abbiamo la beatlesiana Don’t Pass Me By, suonata insieme alla band indie americana Vandaveer (ed accenno finale ad Octopus’s Garden), una tonica You Can’t Fight Lightning con il gruppo anglo-svedese Alberta Cross e, sempre con i Vandaveer, la sempre bellissima Photograph.

Un disco, ripeto, molto piacevole e senza troppe elucubrazioni mentali, forse non imperdibile, ma comunque se lo comprate non sono soldi buttati.

Marco Verdi

Dopo Stephen Stills E David Crosby Ecco Un Altro “Giovane” Di Talento: L’Ex Byrd Ha Ancora Voglia Di Volare Alto. Chris Hillman – Bidin’ My Time

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Chris Hillman – Bidin’ My Time – Rounder/Concord USA CD

Pochi nella storia della musica possono vantare un pedigree ricco come quello di Chris Hillman. Se escludiamo gli esordi con gli Scottsville Squirrell Barkers prima e con gli Hillmen poi, il riccioluto musicista di Los Angeles è stato uno dei membri fondatori dei leggendari Byrds, con i quali ha vissuto tutta la golden age per poi seguire Gram Parsons nei Flying Burrito Brothers, gruppo fondamentale per l’affermazione del country-rock come genere “nuovo” dell’epoca. Negli anni settanta ha poi fatto parte dei Manassas di Stephen Stills, della Souther-Hillman-Furay Band e, sul finire della decade, si è riunito con due ex compagni nei Byrds per formare un altro trio, McGuinn, Hillman & Clark, una band dalle potenzialità tutto sommato inespresse. Dopo qualche anno di pausa, sul finire degli anni ottanta l’ennesima zampata: la formazione, insieme all’amico di vecchia data Herb Pedersen (ex Dillards), della Desert Rose Band, un gruppo di country-rock tra i più di successo del periodo. E non ho citato tutti gli episodi “minori” della sua discografia, come i dischi in duo con Pedersen, quelli in quartetto con Larry Rice, Tony Rice ed ancora il vecchio Herb, e naturalmente il poco fortunato album di reunion dei membri originali dei Byrds uscito nel 1973.

Con tutti questi impegni, è comprensibile che la sua discografia solista sia abbastanza esigua, appena sei album tra il 1976 ed il 2005; oggi però Chris torna a far sentire la sua voce limpida dopo una lunga pausa, e lo fa in maniera sontuosa: Bidin’ My Time è infatti un grande disco, senza dubbio il migliore della sua carriera, un album che ci mostra un artista in forma smagliante e con una voce ancora splendida, suonato e prodotto alla grande da un manipolo di amici di chiara fama. Infatti alla produzione troviamo nientemeno che Tom Petty, uno che si muove solo se ne vale la pena (l’ultima sua collaborazione “esterna” era stato il bellissimo debutto degli Shelters), che dà al disco un suono potente, forte e quasi rock anche negli episodi più acustici, ed in session vecchi compagni del passato come gli ex Byrds Roger McGuinn e David Crosby, la Desert Rose Band quasi al completo (Herb Pedersen, che suona e canta in tutti i brani, John Jorgenson e Jay Dee Maness) e buona parte degli Heartbreakers (oltre a Petty, che però compare come musicista solo in due brani, abbiamo Mike Campbell, Benmont Tench e Steve Ferrone). Bidin’ My Time si divide tra brani nuovi scritti da Hillman insieme a Steve Hill, cover di varia estrazione e brillanti rivisitazioni di pezzi dei Byrds, il tutto dominato dalla grande voce del leader e da un suono davvero scintillante.

Il CD inizia proprio con un vecchio classico dei Byrds, cioè il brano di Pete Seeger Bells Of Rhymney: versione che parte lenta, voce più chitarre arpeggiate, poi entra il resto della band per un folk-rock diverso da quello del suo ex gruppo ma sempre splendido, con il tocco in più dato dalle voci di Crosby e Pedersen e dal sensazionale pianoforte di Tench. La title track è una sorta di valzer country, dalla melodia nostalgica ed evocativa e suono forte e vigoroso (d’altronde avere Petty in consolle vorrà pur dire qualcosa); Given All I Can See è pura e cristallina, un country-folk di assoluta bellezza (e che bella voce), sempre con l’aiuto dell’inseparabile Pedersen e di Petty all’armonica. Different Rivers è una deliziosa ballata, pochi strumenti ma tanto feeling, con Hillman che canta sempre meglio, Here She Comes Again è invece un vecchio pezzo scritto da Chris insieme a McGuinn e suonato poche volte dal vivo dal trio McGuinn, Hillman & Clark ma mai inciso in studio prima d’ora: Roger è presente con la sua Rickenbacker jingle-jangle e, manco a dirlo, dona un sapore byrdsiano ad un uptempo già bellissimo di suo: splendida. (NDM: particolare curioso, in questo brano Hillman torna a suonare il basso dopo una vita, proprio come faceva nei Byrds). La saltellante Walk Right Back è una canzone scritta da Sonny Curtis e portata al successo dagli Everly Brothers, e Chris lascia intatta la melodia tersa e l’arrangiamento d’altri tempi, Such In The World That We Live In è un gradevolissimo e coinvolgente bluegrass, altro genere in cui il nostro sguazza che è un piacere: mandolino, chitarre, violino e godimento assicurato.

La pura e cristallina When I Get A Little Money, altro eccellente esempio di country acustico, è scritta dal giovane songwriter dell’Indiana Nathan Barrow, e precede la rivisitazione di due brani dei Byrds: l’oscura She Don’t Care About Time, di Gene Clark (era sul lato B del singolo Turn! Turn! Turn!), con Jorgenson nella parte di McGuinn e Chris che canta al meglio un motivo decisamente fluido, e New Old John Robertson, riscrittura di un pezzo presente su The Notorious Byrd Brothers (il “new” nel titolo è stato aggiunto oggi), altro superbo bluegrass guidato stavolta dal banjo. Il CD, solo 32 minuti ma spesi benissimo, si chiude con l’intensa Restless, una sontuosa ballata suonata con grande forza e con Campbell e Tench protagonisti, e l’omaggio a Petty di Wildflowers, tra le più belle ballads del biondo rocker della Florida, in una meravigliosa versione che profuma di musica tradizionale. Alla tenera età di 72 anni (73 a Dicembre), Chris Hillman ci ha regalato l’album solista migliore della sua carriera, e senza dubbio uno dei più belli di quest’anno.

Marco Verdi

Un Ottimo “Esordio” Per Due Promettenti Ragazze! Shelby Lynne & Allison Moorer – Not Dark Yet

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Shelby Lynne & Allison Moorer – Not Dark Yet – Silver Cross/Thirty Tigers CD – 18-08-2017

Non tutti sanno che Shelby Lynne ed Allison Moorer, oltre ad essere due belle ragazze (anzi donne, dato che vanno entrambe per la cinquantina) e due brave cantautrici, sono anche sorelle: infatti il nome completo della Lynne è Shelby Lynn Moorer http://discoclub.myblog.it/2010/05/19/un-disco-di-gran-classe-shelby-lynne-tears-lies-and-alibis/ . A parte queste considerazioni di parentela, le due musiciste hanno sempre condotto due carriere parallele, con alterne soddisfazioni e senza mai neppure rischiare di diventare delle superstars al livello, per esempio, di una Trisha Yearwood o di una Reba McEntire: troppa qualità nella loro musica, e troppo poche concessioni al pop che a Nashville spacciano per country, anche se la Lynne qualcosa negli anni, ad inizio carriera, ha concesso (ed infatti ha venduto più della sorella, che ha sempre mantenuto la barra dritta, proponendo un country di stampo cantautorale di ottimo livello http://discoclub.myblog.it/2015/04/02/pene-damor-perduto-ritorno-alle-origini-del-suono-allison-moorer-down-to-believing/ ). Un disco insieme però non lo avevano mai fatto, almeno fino ad ora: Not Dark Yet è infatti il primo album di duetti delle due sorelle, che hanno deciso per questo loro “esordio” di riporre le rispettive penne (tranne in un caso) e di omaggiare una serie di autori da loro amati, scegliendo nove brani molto eterogenei, canzoni di provenienza non solo country, ma anche rock, folk e addirittura grunge (e privilegiando titoli tutt’altro che scontati), arrangiando il tutto in maniera raffinata e con sonorità pacate, gentili e meditate, a volte quasi notturne, con le due voci al centro di tutto ed un accompagnamento sempre di pochi strumenti.

E per quanto riguarda la scelta dei musicisti sono state fatte le cose in grande: la produzione è infatti nelle mani del bravo Teddy Thompson (figlio di Richard e Linda), che ha riunito una superband formata da Doug Pettibone e Val McCallum alle chitarre (entrambi a lungo con Lucinda Williams), Don Heffington e Michael Jerome alla batteria, Taras Prodaniuk al basso e soprattutto il formidabile Benmont Tench (degli Heartbreakers di Tom Petty, ma che ve lo dico a fare?) protagonista in quasi tutti i brani con il suo splendido pianoforte, essenziale per il suono di questo disco, a volte quasi al livello delle voci delle due leader. Il resto lo fanno le canzoni e la bravura di Shelby ed Allison nell’interpretarle, a partire dall’iniziale My List, un brano della rock band di Las Vegas The Killers: non conosco l’originale, ma qui siamo di fronte ad una intensa ballata, intima e toccante, con le due voci che si alternano fino all’ingresso della band, momento in cui il suono si fa pieno e con il predominio di piano, chitarre ed organo, davvero una bellissima canzone. Every Time You Leave è un brano dei Louvin Brothers, affrontato in modo classico, voci all’unisono ed arrangiamento di puro ed incontaminato stampo country, sullo stile del trio formato da Emmylou Harris, Dolly Parton e Linda Ronstadt, ancora con uno splendido pianoforte; Not Dark Yet è una delle più grandi canzoni degli ultimi vent’anni di Bob Dylan, ed è materia dunque pericolosa: le due ragazze scelgono intelligentemente di non variare più di tanto l’arrangiamento, lasciando il mood malinconico dell’originale ma rendendo l’atmosfera meno cupa ed accelerando leggermente il ritmo.

E poi una grande canzone, se sei bravo, resta sempre una grande canzone. I’m Looking For Blue Eyes è un’altra intensa slow ballad scritta da Jessi Colter, ancora con piano, chitarra e le due voci in gran spolvero; splendida Lungs, di Townes Van Zandt, una western tune perfetta per le due sorelle, con lo spirito del grande texano presente in ogni nota, un uso geniale del piano e l’atmosfera tesa e drammatica tipica del suo autore, mentre The Color Of A Cloudy Day è il brano più recente della raccolta, essendo del duo marito e moglie Jason Isbell/Amanda Shires, ed è l’ennesima bellissima canzone del CD, anzi direi una delle più belle, con una melodia di cristallina purezza: complimenti per la scelta. Silver Wings di Merle Haggard è forse la più nota tra le cover presenti, e le Moorer Sisters la trattano coi guanti di velluto, mantenendo arrangiamento e melodia originali ma aggiungendo il loro tocco femminile, mentre Into My Arms è una sontuosa ballata di Nick Cave (apriva il bellissimo The Boatman’s Call), riproposta con grande classe e finezza, e con una dose di dolcezza e sensualità che obiettivamente al songwriter australiano mancano. Il CD, che è quindi tra le cose migliori delle due protagoniste, si chiude con una sorprendente Lithium dei Nirvana, che è il brano più elettrico della raccolta anche se siamo distanti anni luce dal suono di Cobain e soci (ed è comunque la scelta che mi convince meno), e con Is ItToo Much, unico brano nuovo scritto dalle due, un pezzo notturno e suggestivo il cui suono a base di chitarra sullo sfondo e pianoforte cupo fa venire in mente le atmosfere di Daniel Lanois: un finale che, oltre a confermare la bontà del disco, dimostra che se volessero le due sorelle potrebbero bissare con un intero album di brani autografi dello stesso livello.

Esce il 18 Agosto.

Marco Verdi

Ritorna Uno Degli Album “Classici” Degli Anni ’80 In Versione Deluxe! Stevie Nicks – Bella Donna

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Stevie Nicks – Bella Donna – Atco/Rhino Deluxe Edition 3 CD

Ci sono dei dischi che risentiti a distanza di tempo risultano delle mezze delusioni, altri che sorprendono per l freschezza che hanno mantenuto nel tempo e poi ci sono i capolavori senza tempo. Direi che questo Bella Donna di Stevie Nicks probabilmente non rientra nella terza categoria, ma ci si avvicina molto: non sentivo il disco da parecchi anni e devo ammettere che riascoltandolo 25 anni dopo la sua uscita originale mi sono meravigliato di quanto sia bello. Dieci canzoni, tutte di grande qualità, e del tutto all’altezza di quanto la bionda di Phoenix, ma californiana per elezione, abbia fatto con la sua band, i Fleetwood Mac, di cui è sempre stata strenua “difenditrice” (per quanto il vocabolo al femminile suoni male), l’unica del trio delle stelle, con Lindsey Buckingham e Christine McVie, sempre presente nelle varie reunion del gruppo. La storia di Bella Donna, narrata con dovizia di particolari nel corposo libretto che è allegato alla tripla versione Deluxe, è abbastanza nota, ma facciamo un veloce ripasso. Siamo alla fine del 1980, i Fleetwood Mac sono al termine del tour mondiale per promuovere Tusk, disco che non ha ripetuto le vendite colossali di Rumours, ma ha raggiunto comunque i due milioni di vendite complessive e l’unanime plauso della critica, però quello viene considerato il disco di Buckingham (anche se ci sono ben cinque canzoni di Stevie, tra cui la splendida Sara). Comunque i rapporti amorosi intrecciati (e la loro fine), tra i vari componenti del gruppo hanno creato un ambiente quasi invivibile, la tensione tra Nicks, Buckingham e Mick Fleetwood è alle stelle, quindi Stevie. nelle pause tra una data e l’altra, si rifugia spesso nelle hall degli alberghi dove trova un pianoforte, per scrivere bozzetti di quello che sarà il suo primo album solista.

Ma prima fonda la propria etichetta, la Modern Records, all’interno del gruppo Warner/Atco, trova un produttore, Jimmy Iovine (scelto perché la Nicks voleva chiunque stesse producendo i dischi di Tom Petty), che poi diventerà anche il suo fidanzato, il quale le procura, in mancanza di un gruppo, alcuni dei migliori musicisti, non turnisti (questa è una pregiudiziale fondamentale), che suonavano in alcune delle migliori band americane: ed ecco Roy Bittan dalla E Street Band, Michael Campbell, Benmont Tench e Stan Lynch degli Heartbreakers, Don Felder e l’ex boyfriend Don Henley dagli Eagles, ma anche il chitarrista di Elton John Davey Johnstone, Waddy Wachtel alle chitarre, Bill Payne dei Little Feat al piano in un pezzo, Bobbye Hall alle percussioni, Bob Glaub al basso e Russ Kunkel alla batteria, per una sezione ritmica da sogno, oltre alle sue inseparabili amiche, e grandi esperte di armonie vocali, Lori Perry e Sharon Celani. Tutti coadiuvati da Iovine, che reduce dai suoi lavori, prima con John Lennon e Bruce Springsteen, poi con Meat Loaf e la Patti Smith di Easter, a soli 27 anni è uno dei produttori del momento, anche grazie al suo successo con Damn The Torpedoes di Tom Petty And The Heartbreakers, che convince, grazie alla loro complicità amorosa, la sua fidanzata, che comunque gli presenta una serie di splendide canzoni, alcune appena composte, altre recuperate dal passato, a registrare come singolo, un pezzo che Tom Petty e Mike Campbell avevano scritto apposta per lei (e da lì nascerà una “amicizia” e una collaborazione tra i due che proseguirà per tutti gli anni ’80), la bellissima Stop Draggin’ My Heart Around, uno splendido esempio del miglior rock americano dell’epoca.

Ma nel disco ci sono altre 9 canzoni, tra cui 3 ulteriori singoli: la poderosa Edge Of Seventeen, dedicata alla prima moglie di Petty, Jane, e il cui titolo nasce da un equivoco, quando Stevie chiese loro da quando si conoscevano lei gli rispose “from the age of seventeen” con un forte accento della Florida e la canzone prese quel titolo, oltre ad uno dei riff di chitarra più conosciuti dell’epoca, creato da Waddy Wachtel, e intorno al quale le Destiny’s Child di Beyoncé hanno costruito la loro hit Bootylicious, mentre il pezzo della Nicks è un grande esempio di rock californiano, degno delle migliori cose dei Fleetwood Mac, con le tre vocalist scatenate. La vellutata, fin dal titolo, Leather And Lace, era nata come una canzone da donare a Waylon Jennings e Jessi Colter per un duetto non utlizzato, e nel disco la ballata acustica viene eseguita in coppia con Don Henley, che entra solo nel finale, ma la canta da par suo. After The Glitter Fades, splendida, è una canzone dall’impianto country, con la pedal steel di Dan Dugmore e il piano di Roy Bittan in grande evidenza, oltre a Stevie che la canta in modo celestiale, con quella voce riconoscibile fin dalla prima nota, una delle più caratteristiche del rock americano.

Tra le altre canzoni la title-track è un’altra perfetta ballata mid-tempo di stampo west-coastiano, romantica e corale, di nuovo con il piano, questa volta Benmont Tench, protagonista assoluto, ma splendido anche il lavoro di tessitura della chitarra di Wachtel e i saliscendi nella costruzione sonora del brano; Kind Of Woman porta anche la firma di Tench, e grazie agli arpeggi dell’acustica di Johnstone potrebbe ricordare il sound dell’Elton John “americano”, ancora perfetto il lavoro di chitarra di Waddy Wachtel, uno dei grandi non celebrati dello strumento, mentre Think About It, che porta anche la firma di Roy Bittan, vede la presenza, proprio al piano, di Bill Payne, la canzone è una sorta di esortazione all’amica e compagna di avventura nei Mac, Christine McVie, a pensarci bene prima di andarsene dalla band , un altro brano molto bello, ma non ce n’è uno scarso, con un arrangiamento avvolgente e il suono nitido e ben delineato creato da Iovine, con tutti i musicisti registrati live in studio. After The Glitter Fades, di nuovo dalla chiara impronta country, con chitarre, piano e pedal steel celestiali, è un messaggio della giovane Stevie, alla futura stella Nicks, scritto in gioventù quando lei e Lindsey si arrabattavano tra mille mestieri in cerca di una futura gloria. How Still My Love è un altro brano dove si apprezza il classico sound pop-rock di eccellente fattura tipico dei Fleetwood Mac d’annata, come pure Outside The Rain, altra canzone forse minore, ma comunque di sicura presa, con la conclusiva The Highwayman, dove appaiono ancora Johnstone, Henley e Mike Campbell, brano di nuovo intimo, quasi dolente, ma di caratura superiore.

Nel secondo CD della confezione ci sono versioni alternative di Edge Of Seventeen, più lunga e meno rifinita, con alcune false partenze, Think About It, quasi più bella dell’originale, How Still My Love dove un organo svolazzante aggiunge fascino e brio alla costruzione del pezzo, Leather And Lace, in versione alternativa acustica, senza Henley, ma comunque bella, Bella Donna, è in formato demo, solo voce e piano. Poi ci sono alcuni inediti: Gold And Braid, uscita solo nel cofanetto Enchanted, anche questa volta con falsa partenza, ma poi diventa un bel pezzo rock, Sleeping Angel, in una versione alternativa con mandolino, rispetto a quella più rock usata nella colonna sonora di Fast Times At Ridgemont High, che troviamo in chiusura del dischetto, altra canzone di buona fattura. Come pure If You Were My Love, prevista per Mirage e poi apparsa nel recente 24 Karat Gold, e The Dealer prevista in Tusk, e pubblicata solo, con nuovo arrangiamento, sempre in 24 Karat Gold, questa avrebbe fatto un figurone in Tusk, Rumours o Bella Donna, dove volete. Manca ancora l’altro brano tratto da una colonna sonora, Blue Lamp, dal film di animazione Heavy Metal (il genere musicale non c’entra), suono fin troppo pompato e anni ’80, quelli non buoni, comunque non orribile.

Il terzo CD prevede un concerto strepitoso, registrato al Wiltshire Theatre di Beverly Hills nella serata finale, 13 dicembre del 1981, del brevissimo tour per promuovere l’album: 14 brani in tutto, con una band della madonna, Roy Bittan, Benmont Tench, Waddy Wachtel, Bob Glaub, Russ Kunkel, Bobby Hall e le due coriste Lori Perry e Sharon Celani, con la presentazione del babbo di Stevie Nicks, e versioni lunghe e poderose di sette brani dell’album, oltre a Gold Dust Woman, minacciosa e tirata, Gold And Braid, che manco i migliori Fleetwood Mac forse avrebbero saputo fare meglio, e anche una versione tiratissima di I Need To Know, degna dei migliori Heartbreakers, oltre a sontuose versioni di Dreams, Angel, Sara  e in conclusione, dopo una incredibile Edge Of Seventeen di quasi nove minuti, anche una magnifica Rhiannon. Pochi giorni dopo sarebbe rientrata nei ranghi per registrare insieme agli altri Fleetwood Mac il nuovo album Mirage, ma questo Bella Donna rimane il suo quasi capolavoro, a maggior ragione in questa versione potenziata: splendido, forse l’ho già detto?

Bruno Conti        

Recuperi Estivi. Un Gruppetto Di Voci Femminili 1: Sara Watkins – Young In All The Wrong Ways

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Sara Watkins – Young In All The Wrong Ways – New West

Visto che siamo in piena stagione estiva, come tutti gli anni è venuto il tempo dei “recuperi”, e quindi andiamo a recensire un po’ di quegli album che per varie ragioni, soprattutto di tempo ma anche perché ingiustamente dimenticati, non sono andati a finire sul Blog. Una serie di Post sarà dedicata ad alcuni dischi dove protagoniste sono le voci femminili, ma non mancheranno album di generi diversi, senza comunque trascurare le uscite del mese di agosto, alcune anche assai interessanti. Ma andiamo con ordine.

Oggi parliamo di Sara Watkins, cantante e violinista californiana sopraffina, che negli ultimi anni aveva momentaneamente accantonato la sua carriera solista prima per la reunion dei Nickel Creek nel 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/05/27/ritorno-sulla-linea-tratteggiata-nickel-creek-dotted-line/ e poi nel 2015 per il delizioso quadretto d’assieme della Watkins Family Hour http://discoclub.myblog.it/2015/08/28/simpatico-affare-famiglia-amici-watkins-family-hour/. Ed ora, a quattro anni dal precedente Sun Midnight Sun, ritorna con il suo terzo album di studio, questo Young In All The Wrong Ways che ha avuto un esordio “sontuoso” nelle classifiche americane al 200° posto e la settimana successiva era già sparito, ma come sapete non è certo per questo motivo che recensiamo gli album, ci interessa la qualità e la buona musica e quelle ci sono in abbondante quantità. Si tratta del primo album con la nuova etichetta New West, ma alcune delle facce e dei nomi che la accompagnano sono quelli abituali: il fratello Sean Watkins alla chitarra, Benmont Tench, organo, piano, acustico e Wurlitzer, già presenti nei Watkins Family Hour. Più molte new entries, in rigoroso ordine alfabetico: Jay Bellerose alla batteria, il bravissimo Jon Brion a basso, chitarra e tastiere varie, Tyler Chester alle tastiere, Jim James Sarah Jarosz, vocalist aggiunti, come pure Aoife O’Donovan, Noam Pikelmy dei Punch Borthers, alla chitarra e Gabe Witcher della stessa band, che oltre a suonare decine si strumenti nel disco, ne ha curato gli arrangiamenti, la produzione ed è stato l’ingegnere del suono. E sono solo alcuni, i più conosciuti, poi ce ne sono molti altri utilizzati a french horn, arpa, cello, pedal steel, chitarre, contrabbasso (Paul Kowert, anche lui dei Punch Brothers), flauto, clarinetto, sax, una strumentazione ricchissima quindi.

Le dieci canzoni portano tutte le firma della Watkins, che ormai è diventata cantautrice a tutti gli effetti, con un album che non dimentica i vecchi amori per bluegrass e country, oltre a contenere elementi folk, ma poi spazia con eleganza in tutti gli stili, anche in ambito pop e rock (peraltro già usati con buon profitto nel disco del 2012), morbido quanto si vuole ma di buona sostanza. Prendiamo la title track che ruota attorno alla voce dolce ma grintosa della protagonista, come pure ad un suono decisamente rock, con chitarre elettriche ben presenti, una ritmica marcata e continui cambi di tempo, arrangiamenti raffinati e curatissimi di Witcher, che potrebbero ricordare sia le morbidezze di Norah Jones quanto lo stile più grintoso di Aimee Mann, o ancora della sua amica Fiona Apple,  ma pure Sarah Jarosz Aoife O’Donovan (con lei nella band I’m With Her), che curano le armonie vocali del pezzo, insomma una bella partenza. The Love That Got Away è una esile ballata che ruota attorno ad una strumentazione più parca, con piano, cello, forse un mandolino e poco altro a sostenere la deliziosa voce della Watkins, sempre sorretta da piccoli tocchi vocali aggiunti dagli ospiti. Molto bella anche la mossa One Last Time, con un po’ di picking country-bluegrass, elementi swing con il contrabbasso che guida il ritmo, la voce birichina e solare di Sara, armonie vocali deluxe, anche di Jim James, e i consueti continui cambi di tempo che tengono desta l’attenzione dell’ascoltatore, oltre a un breve assolo al violino, suo strumento di elezione. Move Me, il secondo singolo tratto dall’album, pur essendo il brano più lungo, è un’altra costruzione pop-rock di grande efficacia, e scorre con fluidità e semplicità, caratteristica di tutto l’album, improntato intorno alle grandi sensibilità dei musicisti utilizzati, qui Benmont Tench con pochi tocchi di organo rende magico un bel pezzo già dall’impianto sonoro solido, con la chitarra, presumo di Brion, a regalare grinta e spunti strumentali di gran classe.

Like New Year’s Day è un perfetto brano da cantautrice completa, una ballata avvolgente e raffinata, con una bella melodia che ti affascina e la voce che porge il testo con partecipazione e pathos, veramente bella, degna della migliore West Coast dei tempi d’oro. Say So potrebbe ricordare i Fleetwood Mac solari e californiani quando a guidare la canzone erano le voci di Christine Perfect e Stevie Nicks, pop di nuovo raffinato e di grande sostanza e con un bel crescendo incalzante, mentre Without A Word, con un piano Wurlitzer ammaliante e una chitarra acustica a guidare le linee melodiche della canzone, è una bella ballata di stampo folk-jazz, con le solite filigrane perfette della voce della Watkins, inquadrate dall’arrangiamento che ricorda i brani migliori della Norah Jones ricordata all’inizio. The Truth Won’t Set Us Free https://www.youtube.com/watch?v=9g2bQSfEswQ , malinconico racconto di un matrimonio finito male, ha però un drive sonoro movimentato, una sorta di honky-tonk country, dove il piano di Tench, il violino di Sara e una chitarra elettrica twangy alla Albert Lee o alla James Burton ci trasportano dalle parti delle Emmylou Harris Dolly Parton più pimpanti.

Per completare l’album mancano la malinconica Invisible, altra splendida ballata folkie ed intimista, di nuovo rivestita da Witcher con un arrangiamento complesso e di grande fascino, armonie vocali ad illuminarne la struttura leggermente cupa ma non triste. E per finire Tenderhearted, un brano che non sfigurerebbe nel songbook della migliore Emmylou Harris, una canzone che gli americani definirebbero “plaintive”, tradotto in italiano suona lamentoso, ma ci siamo capiti, anche se il dizionario non ci sorregge. Fino ad oggi forse il disco migliore e più completo della carriera di Sara Watkins, con tutte le sue anime musicali ben rappresentate. 

Bruno Conti

Con Un Po’ Di Ritardo, Anche Se La Grande Musica Non Ha Scadenza! Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live Vol. 2

tom petty kiss

Tom Petty & The Heartbreakers – Kiss My Amps Live Vol. 2 – Reprise/Warner LP

Sono riuscito a mettere le mani soltanto ora su questo vinile di Tom Petty & The Heartbreakers, una delle uscite di punta dell’ultimo Record Store Day dello scorso Aprile, e seguito del primo volume uscito nell’autunno del 2011 http://discoclub.myblog.it/2011/12/23/per-pochi-intimi-ma-comunque-sempre-grande-musica-tom-petty/ . Ma, con tutto il rispetto per il primo Kiss My Amps, qui siamo su un altro pianeta: intanto quello era poco più di un EP mentre questo con i suoi dieci brani può essere considerato a tutti gli effetti un album (anche se con Petty dal vivo vorrei sempre avere minimo un triplo), e poi perché là su sette pezzi totali ben sei provenivano da Mojo, un disco che anche a distanza di qualche anno non riesco a considerare tra i più riusciti di Tom, mentre qui la scelta delle canzoni è più eterogenea e ci sono anche quattro cover decisamente interessanti. Che Petti ed i suoi Spezzacuori (Mike Campbell, Benmont Tench, Ron Blair, Scott Thurston e Steve Ferrone) dal vivo fossero una macchina da guerra non lo si scopre certo oggi, insieme alla E Street Band sono probabilmente la migliore live band al mondo, in grado di suonare qualsiasi cosa e renderne la versione definitiva: il loro cofanetto The Live Anthology è sicuramente uno dei box set da isola deserta, ed il loro concerto a Lucca di qualche anno fa è uno dei migliori show a cui ho assistito in vita mia. In conseguenza, anche questo secondo Kiss My Amps è un live album bellissimo, con i nostri in gran forma che rivisitano una manciata di classici, qualche oscuro ripescaggio e, come ho già detto, alcune cover da urlo, il tutto suonato con il solito mix di feeling e bravura, al punto che alla fine della seconda facciata ci si dispiace che sia già finito. I dieci pezzi sono stati incisi tutti nel 2013, quattro al Beacon Theatre di New York, altrettanti al Fonda Theatre di Los Angeles e due al Festival Bonnaroo a Manchester (nel Tennessee, non in Inghilterra).

Il disco parte con una spedita e fluida So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds, un pezzo che Petty aveva già pubblicato nel suo primo live ufficiale Pack Up The Plantation: il brano non è tra i miei preferiti dell’ex gruppo guidato da Roger McGuinn, ma come apertura ci può stare benissimo e poi gli Heartbreakers sono subito in palla (e come pesta Ferrone). Quindi ecco una bella versione, molto rock’n’roll, di (I’m Not Your) Steppin’ Stone dei Monkees, che non esito a definire migliore dell’originale, con l’organino di Tench a mantenere il sapore anni sessanta ma con il resto del gruppo che suona con un’energia quasi da punk band (e Campbell inizia ad arrotare da par suo). Il momento ad alto tasso elettrico prosegue con la potente Love Is A Long Road (tratta del million seller Full Moon Fever), non il brano più noto di quelle sessions ma di certo una delle rock song più coinvolgenti dei nostri, soprattutto dal vivo: gran ritmo, chitarre ruggenti e Petty che canta con la solita classe da rocker consumato. Two Gunslingers fa anch’essa parte del periodo Jeff Lynne di Tom, in origine un pop rock decisamente gradevole ed immediato, che qua si trasforma in una delicata ballata di stampo acustico (ma full band), una versione decisamente piacevole e diversa di un classico minore del nostro. Sinceramente non ricordavo When A Kid Goes Bad (era su The Last DJ, forse il disco meno bello della carriera di Petty), un uptempo rock tipico del nostro e niente male risentito in questo contesto, anche se già con Live At The Olympic gli Heartbreakers avevano dimostrato come sapevano trasformare on stage un album zoppicante in un grande disco. Ed ecco uno dei magic moments dell’album: Willin’ dei Little Feat è già di suo una delle più grandi canzoni di sempre, e vi lascio immaginare come può uscirne dopo il trattamento di Petty e soci, che mettono al centro del brano la splendida melodia di Lowell George rivestendola di sonorità da vera roots band (grandissimo BenmontTench, il Nicky Hopkins dei giorni nostri), una rilettura sontuosa che meriterebbe di essere pubblicata più su larga scala, pelle d’oca pura.

Il lato B si apre con una stupenda ballata tratta da Southern Accent: The Best Of Everything è un meraviglioso slow profondamente influenzato da The Band (ed infatti l’originale era prodotto da Robbie Robertson), un pezzo che ci conferma che il Petty balladeer non è di certo inferiore al rocker, e la band, guidata ancora dal pianismo liquido di Tench, suona alla grande (ma questo lo si sapeva); negli anni Tom ha spesso e volentieri suonato dal vivo brani dei Traveling Wilburys (a differenza dei suoi ex compagni nel supergruppo), prima Handle With Care, poi End Of The Line, mentre qui abbiamo una formidabile versione di otto minuti di Tweeter And The Monkey Man, uno dei più coinvolgenti e divertenti pezzi di Bob Dylan (ma Petty ha collaborato alla stesura del brano): Tom conduce la canzone con piglio sicuro, dylaneggiando alla grande, mentre il resto del gruppo è un treno. Anche questa tra gli highlights del disco. Il live termina con due scintillanti versioni di altrettanti classici del nostro, una rilettura elettroacustica di Rebels, che in origine aveva uno dei più bei riff di chitarra del repertorio degli Spezzacuori, ma qui diventa una ballata pianistica purissima, e la cavalcata elettrica di A Woman In Love (It’s Not Me), il brano più vintage tra quelli presenti, puro Heartbreakers sound.

Dopo il bellissimo secondo lavoro dei Mudcrutch (per chi scrive disco dell’anno finora) http://discoclub.myblog.it/2016/05/16/i-ragazzi-promettono-bene-anteprima-anniversario-mudcrutch-mudcrutch-2/ , un altro album da non perdere da parte di Tom Petty (& The Heartbreakers): vale la pena fare un po’ di fatica per trovarlo.

Marco Verdi

Ma Un Bel Bootleg Series Ufficiale Dedicato A Questo Tour No? Bob Dylan & Tom Petty – Live On The Radio ’86

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Bob Dylan & Tom Petty – Live On The Radio ’86 – RoxVox CD

Di solito non mi occupo di bootleg (perché i concerti radiofonici questo sono, nonostante per la legge inglese siano perfettamente legali), in primis perché ne escono troppi e già faccio fatica a star dietro ai dischi ufficiali, e poi perché molto spesso la qualità di registrazione lascia alquanto a desiderare. Ogni tanto però qualche eccezione la faccio, come nel caso di questo Live On The Radio ’86 intestato a Bob Dylan e Tom Petty, che documenta un concerto registrato a Sydney durante la tournée dei due insieme agli Heartbrakers che, tra il 1986 ed il 1987, toccò tutti i continenti, ottenendo un grandissimo successo di critica e pubblico, e fu eletto uno dei tour di maggior impatto di tutti gli anni ottanta.

Dylan in quegli anni, se discograficamente parlando stava affrontando il suo periodo peggiore, dal vivo era invece in forma smagliante, ed aveva trovato negli Spezzacuori la sua backing band ideale (ma lo sarebbero per chiunque, tranne che per Bruce Springsteen che ce l’ha già): purtroppo anche all’epoca per godere di queste performances ci si doveva rivolgere ai bootleg, in quanto l’unica pubblicazione ufficiale fu un video VHS, splendido ma troppo breve (dieci canzoni, meno di un’ora!) intitolato Hard To Handle, anch’esso tratto dai concerti di Sydney e mai ristampato in DVD o BluRay. Quindi giudico con estrema benevolenza questa pubblicazione ad opera della RoxVox (?!?), che comprende 14 brani (10 di Bob, 4 di Tom), innanzitutto per la bontà della registrazione, davvero spettacolare, meglio di tanti CD ufficiali (voce centrale, suono forte e cristallino, strumenti ben definiti), ma soprattutto per la qualità della performance, a dir poco strepitosa: Petty ed i suoi erano già una macchina da guerra, e Dylan, allora in ottima forma di suo, era praticamente costretto a cantare in maniera rigorosa, con risultati eccellenti. Alcuni di questi brani ricevono infatti la loro versione live a mio parere definitiva, ed è un peccato non poter ascoltare il concerto completo (ma in questo caso il CD doveva essere almeno doppio), anche perché non c’è quasi più stata occasione negli anni a venire di poter sentire Dylan cantare così bene. Quattro pezzi sono nella stessa versione presente su Hard To Handle, ma la qualità sonora è decisamente superiore (la videocassetta aveva un suono un po’ ovattato): apre il concerto la splendida Positively 4th Street (questo è l’unico tour in cui questo brano veniva suonato con continuità), introdotta in maniera potente dagli Heartbreakers, che però rispettano la melodia originale, e Dylan fa subito sentire di essere in palla con una vocalità molto nasale ma decisamente forte ed intonata. Segue All Along The Watchtower, in una versione più rallentata del solito ma anche per questo ancora più inquietante ed apocalittica, con la band che suona alla grande (e Benmont Tench si dimostra un pianista eccezionale, così come Mike Campbell alla chitarra); Masters Of War è ancora molto rock, con un riff che si ripete e Dylan aggressivo, mentre I’ll Remeber You, uno dei brani di punta di Empire Burlesque (all’epoca il disco nuovo di Bob) perde le sonorità un po’ finte della versione in studio ad opera di Arthur Baker e si rivela per quello che è, una sontuosa ballata che Dylan canta con rigore assoluto.

Ed ecco uno degli highlights del CD: I Forgot More Than You’ll Ever Know è un vecchio successo delle Davis Sisters (e Dylan lo aveva già inciso su Self Portrait), e qui viene proposto con uno splendido arrangiamento country, con Petty alla doppia voce e Bob che canta come raramente ho avuto modo di sentire. Versione imperdibile, quasi commovente. E’ la volta di due brani di Tom Petty (durante lo show Dylan faceva sempre un paio di pause lasciando il palco a Tom), una travolgente e molto rock’n’roll Bye Bye Johnny (Chuck Berry) ed il solito singalong della sinuosa Breakdown; torna Dylan, ed è la volta di una Just Like A Woman davvero favolosa, nella quale gli Heartbreakers si superano e Bob sembra anche divertirsi un mondo, tanta è la passione e convinzione con cui canta. Anche Blowin’ In The Wind è sorprendente: un inno che ho sentito fare con mille arrangiamenti diversi, ma questa rilettura country-rock proprio non me l’aspettavo, trascinante è dir poco (e dal punto di vista vocale ancora super); That Lucky Old Sun è uno standard che Bob ha pubblicato lo scorso anno su Shadows In The Night, ma questa versione è chiaramente più rock, anche se forse le quattro vocalist di colore (le Queens Of Rhythm) sono un po’ invadenti.

Ancora Petty, con una solida So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds ed una curiosa Spike, più una scusa per interagire col pubblico che una canzone vera e propria, per poi finire alla grande ancora con Dylan e due versioni mostruose e definitive di Like A Rolling Stone e Knockin’ On Heaven’s Door, un muro del suono rock la prima ed una magica e fluida ballata la seconda, con piano e chitarre sugli scudi, due pezzi leggendari trattati dal suo autore con il dovuto rispetto.

Un dischetto da non perdere, e pazienza se non è ufficiale.

Marco Verdi