Ottimo Ritorno Per La Band Di Brooklyn, Peccato Per La Scarsa Reperibilità. The Hold Steady – Thrashing Thru The Passion

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The Hold Steady – Thrashing Thru The Passion – Frenchkiss Records

Sono passati cinque anni dalla pubblicazione dell’ultimo album degli Hold Steady, Teeth Dreams, un buon disco che aveva ricevuto critiche positive https://discoclub.myblog.it/2014/05/29/buongustai-del-rock-americano-the-hold-steady-teeth-dreams/ , ma che forse non raggiungeva le vette di quelli del periodo 2006-2008, Boys And Girls In America (forse il migliore) e Stay Positive: poi la band aveva pubblicato un live e ad inizio 2010 il pianista Franz Nicolay (che era l’altra stella del gruppo) aveva annunciato il suo abbandono. Nel frattempo, nel 2012, Craig Finn aveva iniziato anche una carriera solista parallela, che finora ha visto l’uscita di quattro album, l’ultimo dei quali, l’ottimo I Need A New War, è uscito da pochissimo, a fine aprile, e nel 2016 Nicolay è rientrato in formazione, portando la line-up a sei elementi. In questi anni in cui Finn pubblicava i suoi dischi solo, comunque la band , dalla fine del 2017, ha iniziato a pubblicare nuove canzoni, solo a livello digitale. Due a fine 2017, altre due l’anno successivo, e una a marzo di quest’anno, tutti  brani inseriti nella seconda parte del nuovo album Thrashing Thru The Passion che, per chi non ama il download e quindi non conosceva già le canzoni, suona fresco e pimpante, come nelle loro migliori prove.

Il “solito” rock americano dove confluiscono le immancabili influenze springsteeniane, quelle del rock di Minneapolis, ma anche del primo Graham Parker, con in più i testi visionari e complessi di Finn, e quel suo tipico e laconico cantar parlando, mentre intorno ribolle il rock veemente creato dalla band che ogni tanto si stempera anche in splendide ballate. Il nuovo CD è edito dalla loro etichetta personale, quella che pubblicava i dischi ad inizio carriera, quindi un ritorno alle origini, come certifica anche il sound, a partire dalla iniziale Denver Haircut, energica anziché no, con Tad Kubler e Steve Selvidge che strapazzano le loro chitarre, mentre il batterista Bobby Drake percuote i suoi tamburi con voluttà, un pezzo degno di uno dei suoi eroi come Springsteen; anche Epaulets (ovvero “spalline”) ricorda il Boss, grazie all’uso dei fiati, ma forse ancor di più il Graham Parker anni ’70, con Nicolay che continua il suo ottimo lavoro al piano.

You Did Good Kid, il recente singolo, non entusiasma, troppa confusione e poca melodia, ma alla fine si ascolta con attenzione per i suoi ritmi sghembi, mentre Traditional Village, con intrecci di piano, chitarre e sax, ed un ritmo incalzante. ricorda ancora il Bruce anni ’80, sempre con il parlar cantando di Finn in evidenza; Blackout Sam è l’unica ballata, che narra di un pianista che si crede Randy Newman, introdotta dal piano di Nicolay poi entra il resto della band, mentre Franz lavora di fino anche all’organo, infine arriva il sax e il brano diventa sempre più intenso ed appassionato, fino all’intervento delle chitarre soliste gemelle, bellissima. Questi sono i pezzi “nuovi”, esclusivi per l’album, vediamo il resto:

T-shirt Tux, tutta riff e un groove alla Thin Lizzy, quando Lynott impiegava il suo stile più springsteeniano (eccolo di nuovo), non è mera imitazione, Finn ha una sua personalità, ma i punti di contatto ci sono, con piano e chitarre che impazzano di nuovo https://www.youtube.com/watch?v=qiRCCfQOrUk , con la precedente Entitlement Crew che è un altro incalzante e impetuoso rocker nella migliore modalità degli Hold Steady, batteria pimpante, organo vintage e fiati travolgenti. Star 18 cita nel testo Mick Jagger, Peter Tosh e pure gli Hold Steady, con Kubler che inchioda un ottimo breve assolo e Drake e il bassista Galen Polivka, che tengono il ritmo sempre alla grande, mentre Finn declama da par suo; The Stove And The Toaster è un altro poderoso esempio di ottimo rock and roll, con il basso che pompa di brutto, la batteria ovunque, i fiati all’unisono che impazzano, e un altro assolo da sballo di Kubler a seguire un breve intermezzo delle tastiere di Nikolay https://www.youtube.com/watch?v=L9tu5Jv-j4I . Chiude un altro pezzo tutto riif,  Confusion In The Marketplace con una dichiarazione di intenti finale di Craig Finn , “I don’t want to dick around/I just want to devastate.”

Bentornati. 

Bruno Conti

Anche Meglio Dell’Album Precedente! Tyler Childers – Country Squire

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Tyler Childers – Country Squire – RCA/Sony CD

Tyler Childers, giovane musicista originario del Kentucky, è uno dei più fulgidi talenti venuti fuori negli ultimi anni in ambito Americana. Indicato da Colter Wall come suo artista preferito, Tyler (che aveva alle spalle un poco fortunato album d’esordio uscito nel 2011, Bottles And Bibles) aveva risposto agli elogi pubblicando l’ottimo Purgatory, validissimo lavoro di moderno country d’autore https://discoclub.myblog.it/2017/09/04/eccone-un-altro-bravo-questa-volta-dal-kentucky-e-lo-manda-sturgill-simpson-tyler-childers-purgatory/  prodotto da Sturgill Simpson (*NDB Anche se l’ultimo album di Simpson, di cui leggerete prossimamente, è secondo me uno dei dischi più brutti degli ultimi anni, uomo avvisato!)  e David Ferguson, un disco che aveva fatto notare il nostro in giro per l’America facendolo entrare anche nella Top 20 country. E siccome squadra vincente non si cambia, Tyler ha ora bissato quel disco con Country Squire, album nel quale il ragazzo si fa ancora aiutare da Simpson e Ferguson e che mentre scrivo queste righe è già arrivato al numero uno della classifica country ed al dodicesimo posto della hit parade generale di Billboard.

Childers però non ha cambiato una virgola del suo suono per entrare in classifica, ma ha proseguito il discorso intrapreso con Purgatory (copertina orrenda compresa, forse bisognerebbe consigliargli un buon grafico): musica al 100% country, con elementi rock, folk e bluegrass nel suono ed una facilità incredibile nello scrivere canzoni belle ed orecchiabili ma non banali. Ed a mio parere Country Squire è ancora meglio del già positivo Purgatory, con il suo country moderno ma con più di un occhio al passato: merito innanzitutto della bellezza delle canzoni, ma anche del lavoro in consolle dei due produttori che hanno messo a disposizione una serie di musicisti dal pedigree notevole, gente del calibro di Stuart Duncan al violino e mandolino, Russ Pahl alle chitarre e steel, David Roe al basso e Bobby Wood alle tastiere. Nove canzoni per 35 minuti di musica e non un secondo da buttare (anzi, non mi sarei di certo offeso con una decina di minuti in più). L’inizio del CD, ad opera della title track, è splendido: una limpida e spedita country song di stampo classico e con un motivo di presa immediata, voce adeguata ed un antico sapore di Bakersfield Sound, con apprezzabili interventi di violino, piano e steel.

Bus Route, pur rimanendo in ambito country, è più attendista e presenta cromosomi sudisti: strumentazione acustica e gran lavoro di violino; Creeker è una delicata ballata quasi texana nel suo incedere, dallo sviluppo fluido ed una linea melodica intrigante, mentre Gemini è una deliziosa e saltellante country tune che ha il sapore antico dei brani di Hank Williams, anche se l’arrangiamento è attuale e non manca la chitarra elettrica. Con House Fire siamo in ambito bluegrass, un brano suonato con perizia degna di consumati pickers ed un alone tradizionale, anche se dopo poco più di un minuto la canzone si elettrifica spostandosi decisamente al Sud; Ever Lovin’ Hand è puro country d’altri tempi, ancora con elementi californiani nel suono (la vedrei bene rifatta da Dwight Yoakam), Peace Of Mind riporta invece il disco in Texas, per una sorta di valzerone davvero godibile e ben eseguito. L’album si chiude con All Your’n, bellissima ballad pianistica in puro stile country-got-soul, dal suono caldo e con un motivo ad ampio respiro (tra le più belle del CD), e con Matthew, slow song acustica con ottimi intrecci sonori tra chitarre, mandolino, violino e banjo.

Con Country Squire non solo Tyler Childers ha migliorato la sua proposta musicale, ma da artista promettente si è trasformato in nome su cui contare quasi a scatola chiusa.

Marco Verdi

Uno E Trino, Un Bluesman Elettrico Completo E Strepitoso. Toronzo Cannon And The Chicago Way – The Preacher, The Politician Or The Pimp

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Toronzo Cannon And The Chicago Way – The Preacher, The Politician Or The Pimp – Alligator Records/Ird

Nel suo nuovo disco, il secondo per la Alligator, e il quinto in totale, Toronzo Cannon è effigiato sulla copertina in versione una e trina, appunto il Predicatore, il Politico e il Pappone: il fatto di essere nella vita anche guidatore di bus per la CTA (Chicago Transit Authority) gli permette, da osservatore privilegiato, di sviluppare anche temi sociali, toccare quindi i problemi di Chicago, le difficoltà nel viverci, sperimentate in prima persona nello svolgimento della sua attività lavorativa. Ma Cannon è anche uno dei maggiori talenti emersi dalla Windy City, in una carriera che ha preso velocità solo nell’ultima decade, dopo i classici dieci anni di gavetta, passati suonando per altri e nei piccoli locali della città, pubblicando due eccellenti album per la Delmark e poi l’ottimo The Chicago Way, candidato ai Blues Music Awards del 2017 come Album Dell’Anno.

Come nel precedente disco Cannon si fa aiutare in fase di produzione dal boss dell’etichetta Bruce Iglauer, e il risultato è uno dei migliori CD di blues elettrico di una annata che è stata molta buona per i praticanti delle 12 battute: Toronzo si districa abilmente in tutti gli stilemi del blues, partendo da un approccio diretto, quasi ruvido, direi addirittura “muscolare”, con un suono che più che dei padri nobili del genere, Waters o i tre King, è figlio di musicisti più vicini anche al rock, come Buddy Guy, Albert Collins, Luther Allison, ma non disdegna sfumature e tonalità più raffinate alla Robert Cray, con elementi soul, R&B e gospel inseriti nell’insieme, in virtù anche di una voce duttile e dalla bella timbrica, in grado di passare da cavalcate selvagge a momenti più intimi e raccolti, senza dimenticare, anche se lui dice “It’s not about the solos”, che  la chitarra è comunque uno degli elementi fondamentali della sua musica. Prendiamo l’iniziale Get Together Or Get Apart, sembra di ascoltare musicisti rock-blues bianchi, tipo Tinsley Ellis, Principato, Robillard oppure il miglior Joe Louis Walker, con un drive incalzante fornito dalla sezione ritmica di Marvin Little al basso e  Melvin “Pooky Styx” Carlisle, alla batteria, e un supporto notevole dell’organo (e in altri brani del piano) di Roosevelt Purifoy, uno dei veterani tra i tastieristi locali, e ovviamente i numeri superbi della Fender di Cannon, che è una vera forza della natura.

La title track ci rimanda alle atmosfere dei dischi blaxploitation, Isaac Hayes, Curtis Mayfield, con wah-wah e percussioni sullo sfondo, ma anche le linee liquide della solista di Toronzo che la ancorano al blues, The Chicago Way, era il titolo del disco precedente, ma il brano non c’era, eccolo fresco fresco per una vorticosa cavalcata nel boogie southern degli ZZ Top, un sound vicino ai primi album del trio texano, con Cannon che non sfigura in confronto al miglior Billy F. Gibbons e la band che tira alla grande. Tre brani, tre approcci diversi, anche Insurance mescola nuovamente le carte, aggiungete un Billy Branch all’armonica, Iglauer nella parte del Dottore, Purifoy che passa al piano, per un tuffo nel puro Chicago Blues più rigoroso, poi arriva Stop Me When I’m Lying, sezione fiati guidata da Joe Clark e veniamo catapultati in un R&B sanguigno da rock’n’soul revue, cantato sempre alla grande da Cannon con Purifoy che titilla il suo piano con libidine e Cannon più “misurato” alla solista. She Loved Me (Again) è il classico slow blues lancinante, con il nostro che esplora il manico della sua chitarra con classe e ferocia, mentre The Silence Of My Friends è una bellissima ballata tra deep soul e gospel, cantata con voce spiegata da Toronzo, che ricorda il miglior Robert Cray, mentre la solista punteggia il dipanarsi della melodia, e The First 24 ci trasporta sulle rive del Delta del Mississippi, per un blues acustico e rigoroso con uso di slide.

That’s What I Love About ‘Cha, è un gagliardo duetto con l’ospite Nora Jean, tra R&R alla Chuck Berry e blues sanguigno e vibrante. Ottimo anche lo shuffle pianistico , la jazzata No Ordinary Woman, firmata come tutti gli altri brani da Cannon, notevole pure la pungente e scandita Let Me Lay My Love On You, prima del gran finale con I’m Not Scared, dove Toronzo al wah-wah e Joanna Connor alla slide confezionano un brano in puro stile hendrixiano, con chitarre feroci e di impatto devastante e la parte vocale affidata alla bravissima Lynne Jordan,  con il supporto di Cedric Chaney e Maria Luz Carball, non è da meno. Grande disco, se la batte con quello di Nick Moss come miglior disco blues elettrico dell’anno https://discoclub.myblog.it/2019/08/20/un-trio-di-delizie-blues-alligator-per-lestate-3-nick-moss-band-lucky-guy/  .

Bruno Conti

Un’Altra Gemma Dagli Archivi Di Uno Dei Più Grandi Jazzisti Di Sempre. John Coltrane – Blue World

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John Coltrane – Blue World – Impulse/Universal CD

Non sono mai stato (e a questo punto mai sarò) un grande appassionato di jazz, il che non vuol dire che qualche volta non mi conceda qualche digressione nel genere, specie quando si parla di grandi artisti e soprattutto di musica non troppo cerebrale; ci sono poi due artisti davanti ai quali non posso far altro che togliermi il cappello ed inchinarmi, e cioè Miles Davis e John Coltrane, tra l’altro entrambi gratificati in questi giorni da pubblicazioni inedite. Ma se Rubberband, che contiene sessions inedite degli anni ottanta del trombettista di Alton, è un lavoro raccogliticcio e pesantemente manipolato in fase di post-produzione, Blue World di Coltrane è un album assolutamente degno di nota. Sinceramente non pensavo che a distanza di appena un anno dallo splendido “album perduto” Both Directions At Once avremmo avuto tra le mani un’altra uscita inedita del più grande sassofonista jazz di sempre: Blue World è il frutto di sessions che il nostro tenne nel 1964 a capo del suo quartetto (con Jimmy Garrison al basso, Elvin Jones alla batteria e lo straordinario McCoy Tyner al pianoforte, per chi scrive la miglior configurazione tra le tante della carriera di “Trane”) con l’intento di registrare le musiche per la colonna sonora del film Le Chat Dans Le Sac del regista canadese Gilles Groulx.

Quella soundtrack non fu mai pubblicata all’epoca, e nel film venne usata solo una canzone per intero ed i frammenti di altre due, ma oggi la Impulse ci regala a sorpresa il prodotto di quelle registrazioni, ed il risultato è davvero eccelso. Coltrane in quel periodo era in stato di grazia, aveva appena dato alle stampe Crescent e stava per pubblicare il suo capolavoro assoluto A Love Supreme (e Both Directions At Once era stato inciso appena un anno prima), e le otto tracce di Blue World ci mostrano un gruppo che suona in maniera fantastica, riuscendo a coniugare mirabilmente arte ed accessibilità. Sì, perché il disco è veramente piacevole e per nulla ostico, ed è formato da brani relativamente brevi (tranne uno), perfetti in teoria per commentare le immagini di un film: la durata complessiva è di appena 36 minuti, il che forse contribuisce a rendere l’ascolto ancora più godibile. Pur essendo incisioni mai sentite prima, l’unico vero inedito è la title track (che in realtà è basata sulla melodia di Out Of This World, brano scritto da Harold Arlen e Johnny Mercer e presente sull’album Coltrane del 1962), mentre gli altri pezzi sono rifacimenti di canzoni che il nostro aveva messo su album di qualche anno prima, quando ancora incideva per la Atlantic e per la Prestige.

Il CD (rimasterizzato in maniera spettacolare) inizia subito benissimo con Naima, pezzo lento e raffinato pieno di sonorità calde che ci avvolgono all’istante: John suona in maniera decisamente rilassata e dopo circa due minuti lascia spazio al magnifico piano di Tyner (con il ritmo che aumenta leggermente), per poi riprendere in mano il brano e portarlo a termine in scioltezza. Village Blues ha appunto la struttura ritmica di un blues, anche se poi Trane sciorina una melodia molto discorsiva e gradevole, doppiato dal trio alle sue spalle che lo segue in modo perfetto, con Tyner che chiude il brano da par suo. Blue World, la canzone, vede la band guidata dal piano iniziare senza il leader, che però non si fa attendere e ci delizia con un’altra performance fluida e, ripeto, decisamente fruibile, sei minuti di grande musica seguiti da altre due takes di Village Blues, più rilassata la prima e leggermente accelerata la seconda, ma entrambe impeccabili e con un gran lavoro della sezione ritmica. La breve Like Sonny ha un ritmo scattante e spezzettato, con John che duetta in maniera sopraffina con McCoy, suo vero alter ego all’interno della band, mentre Traneing In è la traccia più lunga, quasi otto minuti, i primi tre dei quali occupati da un assolo di basso di Garrison a cui fa seguito l’ingresso in sincrono di piano e batteria, ed il brano è una raffinatissima ed elegante ballata in cui Tyner ci delizia le orecchie con una prestazione sontuosa: pensate che Coltrane arriva solo dopo cinque minuti a chiudere il pezzo, proprio come fanno i grandi chef con i loro piatti. L’album termina con una seconda take di Naima, anch’essa tutta costruita intorno al magico suono di sax e pianoforte.

L’appuntamento autunnale con un disco inedito di John Coltrane potrebbe a questo punto diventare una piacevole abitudine: se il livello è quello di Blue World (ma anche di Both Directions At Once) non mi lamento di sicuro.

Marco Verdi

Un Documento Storico Formidabile Per La “Woodstock Nera”, Se Fosse Pure Inciso Bene… Ann Arbor Blues Festival 1969

ann arbor blues festival 1969

Ann Arbor Blues Festival 1969 2 CD Third Man Records

Un disco dal doppio giudizio: quattro e forse avrebbero potuto essere anche cinque stellette per il contenuto musicale e l’importanza dei musicisti coinvolti, due e a tratti anche tre, per la qualità sonora d questo documento, che esce esattamente 50 anni dopo lo svolgimento di questo evento: una sorta di Woodstock “nera “tenutasi ad Ann Arbor, alla Università del Michigan, tra il 1° e il 3 agosto del 1969, come “l’altro” Festival appena più famoso. Si trattò del primo grande Raduno che raccoglieva insieme quasi tutti i più grandi artisti del Blues americano, al di là di quelli itineranti che giravano per l’Europa negli anni ’60, grazie alla enorme popolarità, soprattutto in Inghilterra, ma anche in Europa, del British Blues e del blues-rock in generale,  e che di conseguenza aveva portato anche a collaborazioni importanti tra musicisti bianchi e i grandi delle 12 battute che li avevano  fortemente influenzati.

Senza stare a fare un trattato sulla situazione, comunque musicisti come Muddy Waters, Howlin’ Wolf, B.B. King, per citare i più importanti, ma ce n’erano parecchi altri, cominciavano a vendere dischi in quantità più che rispettabili anche al di fuori del cosiddetto “chitlin’ circuit” in cui si esibivano solo gli artisti afroamericani e nelle “race charts” di blues e R&B, iniziando anche a partecipare a Festival Folk per esempio Newport, che avevano aperto sia agli artisti neri che alla musica elettrica. Questo lungo preambolo per dire che nel cinquantenario di questo avvenimento sono riapparsi dei nastri registrati all’epoca, con apparecchiature di fortuna (piccoli registratori mono con nastri amatoriali e postazioni di fortuna in mezzo al pubblico) con cui gli stessi appassionati che avevano organizzato le serate  le hanno in qualche modo preservate per i posteri: i nastri sono arrivati alla Third Man Records di Jack White, grande appassionato di questa musica quasi arcana, che li ha restaurati nei limiti del possibile e li ha pubblicati in un doppio CD o in due vinili separati. Ripeto, per evitare equivoci, il suono è a livelli di bootleg o di trasmissione radiofonica fine anni ’60, quindi molto “primordiale”, si sente gente che parla, scherza, ride e tossisce, a tratti anche durante le canzoni, ma l’importanza storica giustifica la pubblicazione?

Francamente non lo so, probabilmente sì, basta saperlo: comunque i nomi citati sopra ci sono tutti: un B.B. King sontuoso e veemente con la sua orchestra, un Luther Allison “arrapato” in un lunghissimo medley (oltre 14 minuti) di Everybody Must Suffer / Stone Crazy, in cui la ferocia della esibizione è quasi inversa alla qualità del suono https://www.youtube.com/watch?v=M2LwSR8nw4M .I musicisti sono liberi di improvvisare e non sono costretti nei tempi dei dischi, però il suono è un grosso limite. Altrove, per esempio in alcune performance in solitaria, come quella iniziale, solo voce e piano, di Roosevelt Sykes, il suono è quasi accettabile, come pure nel brano di Arthur “Big Boy” Crudup, o Jimmy Dawkins che fa I Wonder Why, e ancora Junior Wells in un tributo a Sonny Boy Williamson, Howlin’ Wolf in una colossale versione, oltre 16 minuti, di Hard Luck, con il suo vocione più minaccioso che mai, un suadente Otis Rush in una spaziale So Many Roads, So Many Trains, incisa persino bene https://www.youtube.com/watch?v=mVCTG0nI_Nc .

Nel secondo CD troviamo un intenso Muddy Waters in una gagliarda Long Distance Call, incisa quasi “bene”, T-Bone Walker nei 10 minuti del suo capolavoro Stormy Monday, Big Mama Thornton che risponde alla Janis di Monterey con la sua Ball And Chain, e qui avremmo apprezzato un miglior sound per goderci al meglio la performance, e la James Cotton Blues Band nei 13 minuti vorticosi di Off The Wall. In qualità di cronista ho riferito a grandi linee cosa dovete aspettarvi, poi fate vobis. Quindi “consigliato” con riserva: e se siete bluesofili incalliti nei brani dalla qualità sonora non eccelsa fate finta che siano dei vecchi 78 giri.

Bruno Conti

Cofanetti Autunno-Inverno 3. L’Usignolo Dagli Occhi Azzurri: Seconda Parte. Judy Collins – The Elektra Albums, Volume Two (1970-1984)

judy collins the elektra albums volume two

Judy Collins – The Elektra Albums, Volume Two (1970-1984) – Edsel/Demon 9CD Box Set

Dopo avervi parlato qualche giorno fa del primo box pubblicato dalla Edsel e riguardante gli album degli anni sessanta di Judy Collins (il suo periodo migliore) https://discoclub.myblog.it/2019/10/10/cofanetti-autunno-inverno-2-lusignolo-dagli-occhi-azzurri-prima-parte-judy-collins-the-elektra-albums-volume-one-1961-1968/ , ecco qua il secondo cofanetto che completa il periodo Elektra della cantante di Seattle, spingendosi fino alla metà degli anni ottanta.

Gli Anni Settanta. Una decade ancora abbastanza proficua in termini di vendite, con album di qualità almeno nella prima parte, in cui Judy, ormai interprete esperta e con anche buone capacità di songwriting, si circonda nei vari lavori di musicisti del calibro di David Grisman, David Spinozza, Steve Goodman, Tony Levin, Steve Gadd, Norton Buffalo, Dean Parks, Fred Tackett e Jim Keltner. Whales & Nightingales (1970) segna un parziale ritorno alle atmosfere folk-rock dei sixties, un disco raffinato e molto piacevole con ottime rese di A Song For David (Joan Baez), Oh, Had I A Golden Thread (Pete Seeger, grande versione), un Dylan poco noto (Time Passes Slowly, meglio dell’originale su New Morning), due traduzioni di Jacquel Brel, una deliziosa The Patriot Game di Dominic Behan (la cui melodia è ispirata al traditional irlandese The Merry Month Of May, la stessa “presa in prestito” da Dylan per With God On Our Side), ed una ripresa della classica Amazing Grace per sola voce e coro, quasi ecclesiastica.

True Stories And Other Dreams (1973) è un album discreto, con la Collins che scrive ben cinque pezzi sui nove totali, tra i quali spicca la politicizzata (ed un tantino pretenziosa) Che, sette minuti e mezzo dedicati ad Ernesto Guevara: molto meglio la limpida e countreggiante Fisherman Song. Tra i brani altrui spiccano la squisita Cook With Honey di Valerie Carter, quasi una bossa nova, la delicata e folkie So Begins The Task di Stephen Stills e la mossa The Hostage di Tom Paxton, ispirata alla rivolta della prigione di Attica.

Judith (1975) è un album molto bello, il migliore della decade, una prova di maturità eccellente grazie anche alla lussuosa produzione di Arif Mardin. Il disco avrà anche un buon successo, e propone versioni impeccabili e raffinatissime di classici appartenenti a Jimmy Webb (The Moon Is A Harsh Mistress), Rolling Stones (Salt Of The Earth) e Steve Goodman (una splendida City Of New Orleans), nonché una rilettura in stile bossa nova della famosa Brother, Can You Spare A Dime, classico della Grande Depressione. Ma l’evergreen del disco è la struggente Send In The Clowns, scritta da Stephen Sondheim e che diventerà uno dei brani più popolari di Judy (che qui compone anche tre buone canzoni di suo pugno, soprattutto Born To The Breed).

Bread And Roses (1976) vede ancora Mardin in consolle, ed è un buon disco seppur un gradino sotto al precedente. Ma i brani di livello non mancano, come la maestosa title track che apre il disco (canzone di Mimi Farina, sorella della Baez), la sempre bella Spanish Is The Loving Tongue (brano che Dylan negli anni ha mostrato di amare molto) ed il “ritorno” di Leonard Cohen con la pura Take This Longing. In altri pezzi però si comincia ad intravedere una deriva troppo pop, come nel singolo Special Delivery e nella resa un po’ “leccata” di Come Down In Time di Elton John, che si salva in quanto grande canzone.

Hard Times For Lovers (1979) chiude il decennio in tono minore, inaugurando per Judy la parabola discendente per quanto riguarda le vendite dei suoi album. Disco dal suono fin troppo elegante, che perde il confronto con i suoi predecessori per una confezione troppo attenta a sonorità radiofoniche, nonostante la presenza di canzoni come Marie di Randy Newman, Desperado degli Eagles e la bella title track, dallo stile molto James Taylor. La cosa più notevole dell’album è il retro di copertina, che ritrae Judy di spalle completamente nuda.

Nel cofanetto non manca Living (1971), che per lungo tempo rimarrà l’ultimo live album della Collins, registrato in varie date del tour del 1970. Un disco molto bello, con Judy accompagnata da una super band che ha i suoi elementi di spicco nel paino di Richard Bell (all’epoca con la Full Tilt Boogie Band di Janis Joplin) e soprattutto nella chitarra di un giovane ma già bravissimo Ry Cooder. L’album predilige le ballate, a tratti è persino cupo ma intensissimo nelle varie performance, con versioni da brividi ancora di Cohen (Joan Of Arc e Famous Blue Raincoat), una rilettura pianistica della stupenda Four Strong Winds di Ian Tyson, ottime riletture del traditional All Things Are Quite Silent e di Chelsea Morning (Joni Mitchell), per finire con una migliore versione di Just Like Tom Thumb’s Blues di Dylan rispetto a quella orchestrata che apriva In My Life. C’è anche un brano in studio, la deliziosa Song For Judith, una delle migliori canzoni mai scritte dalla Collins, con Cooder che brilla particolarmente alla slide.

Gli Anni Ottanta.

Running For My Life (1980) è un lavoro per il quale Judy si affida perlopiù a compositori esterni che scrivono brani apposta per questo disco, azzerando le cover di pezzi famosi. L’album è di nuovo contraddistinto da arrangiamenti raffinati e decisamente pop, con il ricorso ad orchestrazioni che rendono il suono un po’ ridondante: le canzoni stesse non sono il massimo (Green Finch And Linnet Bird, Marieke e Wedding Song sono quasi imbarazzanti) e, se escludiamo la fluida ballata iniziale che dà il titolo al disco (scritta da Judy), la noia affiora spesso.

Le cose vanno un po’ meglio con Times Of Our Lives (1982), che ha la stessa struttura del precedente ma con orchestrazioni molto più leggere, ed in molti casi i brani sono di buona fattura pur mantenendo un suono radio-friendly. I pezzi migliori sono la gradevole Great Expectations, il pop di classe di It’s Gonna Be One Of Those Things, una emozionante rilettura della splendida Memory, tratta dal musical Cats di Andrew Lloyd-Webber (e che voce la Collins), e la limpida Drink A Round To Ireland, che recupera le atmosfere folk di un tempo.

Pollice verso invece per l’album conclusivo del box e del periodo Elektra: Home Again (1984), nonostante la produzione del noto arrangiatore e compositore di colonne sonore Dave Grusin, è pieno zeppo di sonorità anni ottanta fatte di sintetizzatori, drum machines e fairlight a go-go, un sound orripilante che rovina anche canzoni all’apparenza discrete come Only You (cover del duo pop Yazoo) e Everybody Works In China. C’è anche un inedito di Elton John (Sweetheart On Parade), una potenziale buona ballata che avrebbe però beneficiato di un arrangiamento semplice basato sul pianoforte. E’ tutto quindi per i due cofanetti dedicati a Judy Collins: chiaramente meglio il primo, ma anche nel secondo se ci si limita agli anni settanta c’è parecchia buona musica. E poi è quasi doveroso apprezzare ancora una volta una grande cantante di cui oggi si parla molto poco.

Marco Verdi

Una Piccola Grande Band (E Qualche Amico) Conferma Il Proprio Valore Con Un Album Eccellente! Session Americana – North East

session americana north east

Session Americana – North East – Appaloosa/Ird

I Session Americana sono una sorta di fluttuante collettivo folk-rock, nato a Cambridge, Massachusetts nel 2004, per suonare in serate informali nei pub e nei locali della città: il fondatore Sean Staples, che poi per problemi di salute ha lasciato la band nel 2010, Ry Cavanaugh, che suona di tutto e di più, ma principalmente chitarre acustiche, banjo, basso, mandolino e tastiere, Jimmy Fitting, armonica, fondatore dei Fort Apache Studios ed ex membro dei Treat Her Right, Dinty Child, altro polistrumentista impegnato a fisarmonica, piano, mandocello, banjo e mandolino, Billy Beard alla batteria, Kimon Kirk al basso, ma di recente, per questo album, è rientrato in formazione Jon Blistine, mentre Jefferson Hamer, che aveva prodotto il precedente Great Shakes  , questa volta non è della partita. Ma con la formazione collaborano moltissimi altri musicisti: mi è capitato di vederli dal vivo a Pavia nel 2015 nel tour per questo album https://discoclub.myblog.it/2015/05/08/sorta-moderna-nitty-gritty-dirt-band-musica-solare-deliziosa-session-americana-pack-up-the-circus/ e c’era con loro Laura Cortese al violino e voce, per questo disco come voci femminili troviamo la bravissima Kris Delmhorst che ha co-prodotto l’album con Cavanaugh), la moglie di quest’ultimo Jennifer Kimball, ex delle Story, Rose Polenzani, Ali McGuirk, altra eccellente vocalist, Merrie Amsterburg, cantautrice che opera nell’area di Boston, dove vive la band.

E se non bastasse c’è anche una consistente pattuglia di maschietti, Zak Trojano, anche alle chitarre, con Duke Levine e Peter Linton, Dietrich Strause, tutti che si alternano come voci soliste nelle 14 canzoni  del CD, con il solo Cavanaugh che ne canta due. Questo è il settimo album ufficiale della band , ma ci sono anche alcuni live e antologie ufficiose limitate, si tratta, come lascia intuire il titolo, di brani che provengono dal repertorio di artisti originari del Nord Est degli Stati Uniti, da quelli celeberrimi ad altri meno noti: intanto lasciatemi dire subito che il disco è bellissimo, estremamente vario, pensate ad un incrocio tra roots music e folk, il lato meno country della Nitty Gritty, elementi blues e rock, insomma in una parola, e ci mancherebbe, visto il nome della band, Americana music, il tutto suonato con una leggiadria ed una perizia musicale, e soprattutto vocale, quasi disarmante, se l’aggettivo non fosse inflazionato direi delizioso. Il primo brano è di James Taylor, che tutti associano alla California, ma viene da Boston, Riding On A  Railroad, una canzone dal capolavoro Mud Slide Slim, cantata da Cavanaugh con la Delmhorst, con Levine al dobro e Jim Anick al violino, che ci fa capire subito la qualità della musica, fedele all’originale ma al contempo calda ed avvolgente grazie agli arrangiamenti  raffinati, con la voce di Ry che ricorda moltissimo Taylor. La bellissima You’ll Never Get To Heaven è del compianto Bill Morrissey, folksinger del Connecticut che però anche lui operava nell’area del Massachusetts, un brano malinconico che racconta della disperazione dello spopolamento delle piccole città, cantata con grande partecipazione da Trojano, sempre con le armonie della Delmhorst.

Il nome Charles Thompson forse ai più non dice molto, ma se vi dico Black Francis dei Pixies? I Session Americana reinterpretano, con vigore e rigore folk ,una corale Here Comes Your Man, cantata da Fitting, con Delmhorst, Child e Kimball, e uno sfarfallio in crescendo di banjo, mandolino e chitarre. Meno noto prodotto della zona è Amy Correia, ma la sua You Go Your Way è il veicolo perfetto per la bella voce bluesy di Rose Polenzani, così come la malinconica e notturna (manco a dirlo) The Night di Mark Sandman dei Morphine, ben si attaglia a quella intensa di Ali McGuirk, brano soffuso suonato in punta di dita, con Fitting splendido all’armonica e che sembra quasi una canzone, bella, di Norah Jones. Trip Around The Sun è un brano di Al Anderson degli NRBQ, Stephen Bruton e Sharon Vaughn, scritto per Jimmy Buffett e Martina McBride, una bellissima ballata country cantata da Merrie Amsterburg, Dim All The Lights è l’unica canzone scritta in solitaria da Donna Summer (!), anche lei nativa di Boston, cantata da John Powhida, concittadino della Summer, molto bella pure questa, con doppio mandolino e armonica in evidenza, Roadrunner è proprio il celebre brano di Jonthan Richman, che per l’occasione diventa un rustico country-bluegrass con banjo, mandola e banjo, sempre vivace e coinvolgente, cantata da Dinty Child.

Anche Patty Griffin, da Old Town, Maine, contribuisce con un pezzo, la delicata Goodbye, temi la nostalgia e il desiderio, cantata divinamente da Jennifer Kimball, mentre l’ignoto a me Chris Pappas vede la propria Driving cantata da Jon Blistine, altra canzone malinconica che si apre in una melodia da grandi orizzonti, suonata splendidamente dalla band. Merrimack County è una delle canzoni più belle di Tom Rush, un pezzo quasi dylaniano che il batterista Billy Beard inquadra perfettamente, e poi tocca alla bravissima Kris Delmhorst alle prese con Air Running Backwards, oscura, ma molto bella, canzone di tale Chandler Travis, che è l’occasione per gustarsi una delle più belle voci del cantautorato femminile americano. Una concessione alle canzoni celebri arriva con la versione di Coming Around Again di Carly Simon, che cantata da Cavanaugh diventa di nuovo quasi un brano alla James Taylor, con mandola, chitarre, violino, armonica e tastiere in bella evidenza, oltre alle proverbiali armonie vocali dei Session Americana, che ci congedano da questo incantevole album con una ultima piccola delizia, la piacevole I’m A Fool, un brano “pop” dei Letters To Cleo cantato da Dietrich Strause, con Jeffrey Foucault al dobro. Tutto molto bello e consigliato vivamente.

Bruno Conti

E Con Questo Bellissimo Live Siamo Davvero Giunti (Forse) Al Gran Finale! Runrig – The Last Dance: Farewell Concert

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Runrig – The Last Dance: Farewell Concert – RCA/Sony 3CD – DVD – BluRay – Deluxe 3CD/2DVD Box Set

Il Lungo Addio è il titolo di uno dei più famosi romanzi noir di Raymond Chandler, con protagonista il detective Philip Marlowe, ma è un titolo che si potrebbe applicare anche in un ideale riassunto degli ultimi anni di carriera dei Runrig, famosissimo (in patria, ma anche in Germania e Danimarca) gruppo folk-rock scozzese che nel 2016 con la pubblicazione dello splendido The Story aveva annunciato il suo addio alle scene. Da allora ci sono state due collezioni di rarità, Best Of Rarities per il mercato tedesco (versione doppia di un cofanetto di sei CD e tre DVD ormai introvabile) ed il bellissimo The Ones That Got Away, che sembrava un disco nuovo fatto e finito https://discoclub.myblog.it/2018/07/10/antologie-che-sembrano-dischi-nuovi-parte-1-runrig-the-ones-that-got-away/ , oltre ad un lungo tour dal quale ora viene tratto questo The Last Dance: The Farewell Concert, che dovrebbe mettere la parola fine all’avventura durata quarant’anni del gruppo originario delle Ebridi.

The Last Dance è un live album magnifico, che in tre CD registrati al castello di Stirling (c’è anche la versione video ed il solito cofanetto che comprende tutto) ci fa assaporare il meglio della carriera di un gruppo che in Scozia è una vera e propria leggenda, una band che ha saputo raggiungere il successo mescolando in maniera decisamente creativa la musica folk tradizionale con sonorità rock ed anche pop, riuscendo a far digerire anche brani cantati in gaelico (ma la maggior parte del loro repertorio è in inglese) ad un pubblico vastissimo. Dal vivo poi sono sempre stati formidabili, come testimoniano i live pubblicati in passato (ed almeno Year Of The Flood e Party On The Moor sarebbero da avere), e The Last Dance è la giusta ciliegina, un concerto davvero bellissimo in cui il sestetto (Bruce Guthro, voce solista e chitarra, Malcolm Jones, chitarra solista e fisarmonica, Brian Hurren, tastiere, Rory MacDonald, basso, Calum MacDonald, percussioni, Iain Bayne, batteria) ci regala quasi tre ore di musica epica ed avvincente, con melodie perfette per il singalong e ritornelli costruiti per il canto collettivo “da stadio” nei brani più mossi, ma con la capacità di essere profondi e toccanti nelle ballate. Dulcis in fundo, la serata vede salire sul palco anche Donnie Munro, storico primo cantante del gruppo che lasciò i compagni nel 1997 per intraprendere la carriera politica, ma è ancora molto amato dai fans.

I Runrig sanno, o dovrei dire sapevano, coniugare rock e folk in maniera mirabile, con canzoni potenti e trascinanti perfette da suonare di fronte ad una marea di persone, come Protect And Survive, Rocket To The Moon, la suggestiva Proterra, la folkeggiante The Ship, la nota The Stamping Ground. E poi ancora Maymorning, Clash Of The Ash, Skye (formidabile) o l’entusiasmante Pride Of The Summer. Ma la band è famosa anche per le sue ballate ad ampio respiro, come l’ariosa Canada, la toccante Year Of The Flood, per sola voce, chitarra ed armonica, Going Home, struggente e bellissima e l’appassionata Every River, con tutto il pubblico che canta per uno dei momenti più commoventi dello show. The Story è rappresentato da ben cinque pezzi (ed è giusto in quanto è uno degli album migliori di Guthro e soci): la maestosa title track, la squisita Somewhere, tra le ballate più belle del gruppo, la splendida ed evocativa Onar, con il bellissimo refrain in lingua celtica, l’irresistibile giga rock The Place Where The Rivers Run e l’emozionante The Years We Shared, una rock song elettrica e coinvolgente, perfetta per aprire la serata. Finale con la strepitosa Loch Lomond, un vero e proprio inno che dal vivo dà il suo meglio, e con una Hearts Of Olden Glory cantata a cappella da tutta la band, altro momento emotivamente notevole.

Staremo a vedere se The Last Dance sarà davvero il capitolo finale della storia dei Runrig, o se sarà la solita promessa da marinaio delle rockstar: sinceramente preferirei la seconda ipotesi, dato che stiamo comunque parlando di una grande band.

Marco Verdi

Più “Contemporaneo”, Ma Pur Sempre Ottimo Blues E’. Rick Estrin & The Nightcats – Contemporary

rick estrin & the nightcats contemporary

Rick Estrin & The Nightcats – Contemporary – Alligator Records/Ird

Come già raccontato in altre occasioni , nel 2008 Charlie Baty, dopo 32 anni on the road e una decina di album pubblicati, decise per un ritiro dalle scene, sciogliendo di conseguenza la sua “creatura” Little Charlie & The Nightcats: in seguito ci ha ripensato e ultimamente è entrato a far parte della formazione di  Sugar Ray and the Bluetones, coi quali ha anche registrato un album di prossima uscita. Quasi immediatamente comunque Rick Estrin ha preso in mano le redini della formazione, in fondo il cantante e armonicista era lui, e con l’ingresso come sostituto del bravissimo Kid Andersen alla chitarra, ha deciso di proseguire la carriera con la stessa ragione sociale, sostituendo solo il proprio nome a quello di Little Charlie. Da allora la band ha pubblicato, sempre per la Alligator, quattro album, tutti molto buoni, con Lorenzo Farrell, confermato al basso e all’organo, e il nuovo arrivato Derrick “D’Mar” Martin’ che sostituisce il batterista Pettersen, per questo  Contemporary. Produce, insieme ad Estrin, che scrive nove canzoni del CD, appunto Kid Andersen, al suo Greaseland Studio di San Jose, California e, come lascia intuire il titolo, a tratti c’è una svolta più contemporanea nel sound del gruppo, senza snaturare peraltro troppo il loro classico Electric Chicago Blues, ma con la ricerca di nuove sonorità, grooves e soluzioni musicali, ancora una volta con ottimi risultati, d’altronde, come è noto, la Alligator da parecchio tempo non sbaglia un disco.

Non ho molte altre informazioni da fornirvi, al limite andate a rileggervi i vecchi post https://discoclub.myblog.it/2017/10/27/eccellente-chicago-blues-elettrico-anche-se-nessuno-viene-da-li-rick-estrin-the-nightcats-groovin-in-greaseland/ , per cui lasciamo parlare la musica: I’m Running, come da titolo, viaggia e corre a tempo di swing, con organo, basso e batteria a tenere un tempo incalzante, Christoffer Kid Andersen lavora di fino coi toni e vibrati della sua solista e poi entra l’armonica scintillante di Estrin, grande partenza, e suono quasi “innovativo” per un blues più al passo con i tempi moderni, senza virare comunque nel rock, ma lavorando molto sul virtuosismo non esasperato dei musicisti. Resentment File, con il consueto cantato discorsivo e gli immancabili tocchi umoristici di Rick, è decisamente più funky e robusta, con un groove colossale del basso, dove si innestano gli assoli dell’ottimo Andersen e anche l’organo di Farrell si fa sentire, per un blues quasi “zappiano”; la title track viceversa parte come un classico shuffle in puro stile Chicago, con l’armonica insinuante in evidenza, poi cambio di tempo repentino, il suono si fa decisamente più complesso, entrano coriste e fiati, un accenno di rap non fastidioso, il wah-wah di Andersen sullo sfondo e ancora questa ambientazione sonora mutuata dal Frank Zappa più ingrifato e bluesy.

She Nuts Up è quasi felpata e notturna, il talking tipico del nostro e organo, chitarra e ritmica ad imbastire una base per le divagazioni dell’armonica, mentre New Shape (Remembering Junior Parker) è un omaggio a tempo di R&B all’autore di Mystery Train, per un brano che fa molto 70’s funky nel suono https://www.youtube.com/watch?v=5XBhiqT0GZE .House Of Grease è uno strumentale jazzy brillante e ricercato, sulla falsariga del classico organ trio (più piano) sound con i vari solisti che si prendono il loro tempo;, soprattutto un Andersen straripante; Root Of All Evil, è sempre divertente e piacevole, ma meno consistente di altri brani, non manca il classico “lentone” nella forma della solenne The Main Event, con armonica, organo e chitarra a fronteggiarsi, prima di passare ad un altro strumentale Cupcakin’ che rimanda molto al suono di Booker T & The Mg’s, con armonica aggiunta https://www.youtube.com/watch?v=zSVf-YdLbO8 . Niente male anche la swingata New Year’s Eve, con la solista pungente di Andersen, alternata agli altri due solisti del gruppo, Nothing But Love è più vicina alle 12 battute più classiche, con il cantato laconico di Estrin che ricorda quello di David Bromberg, lasciando alla vorticosa Bo Dee’s Bounce, un altro pezzo strumentale, il compito del commiato.

Bruno Conti

Un Countryman Di Talento Con Nobili Discendenze! Charley Crockett – The Valley

charley crockett the valley

Charley Crockett – The Valley – Son Of Davy/Thirty Tigers CD

Charley Crockett (che, ci crediate o no, è un discendente del leggendario Davy Crockett) è un musicista di stampo country-folk-Americana che, nonostante abbia esordito solo nel 2015, ha un passato piuttosto impegnativo. Nato e cresciuto in Texas, Charley ha vissuto a lungo anche a New Orleans e New York e perfino in Francia e Marocco, dove ha occasionalmente intrapreso la carriera di busker esibendosi per le strade. Ha avuto anche problemi con la giustizia, essendo stato arrestato una volta per possesso di cannabis ed una seconda addirittura con l’accusa di frode assicurativa (ma poi è stato giudicato in buona fede, mentre invece il fratello si è beccato sette anni); a metà della corrente decade Crockett ha finalmente deciso di venire a patti con la sua vita e ha iniziato a pubblicare dischi, tre a suo nome e due come Lil G.L. (una sorta di alter ego, come Luke The Drifter lo era per Hank Williams, due album di cover di brani perlopiù blues).

A Gennaio di quest’anno, tanto per non farsi mancare niente, Charley ha sostenuto un intervento chirurgico a cuore aperto (con esiti fortunatamente positivi), ma solo pochi giorni prima aveva fatto in tempo ad ultimare le registrazioni di The Valley, il suo nuovo lavoro in uscita in questi giorni, un album di vero country d’autore, con testi spesso autobiografici e musiche che si ispirano ai grandi del genere. Crockett è bravo, ha talento e sa metterlo al servizio della sua musica: The Valley è egregiamente bilanciato tra antico e moderno, è ben suonato (ho in mano un CD promo senza i nomi dei musicisti) ed è completato da una serie di cover rivelatrici del fatto che il nostro ha le influenze giuste. Puro country quindi, godibile e diretto, che non strizza l’occhio al sound nashvilliano ma rimane autentico dalla prima all’ultima canzone. Borrowed Time apre il CD, ed è una limpida country song che sembra presa pari pari da un vecchio padellone degli anni cinquanta, melodia diretta e strumentazione vintage, un avvio intrigante. Con la title track non ci spostiamo molto in avanti, per un languido brano che ha il sapore degli esordi di Merle Haggard, con una bella steel ed un chitarrone twang; la frenetica 5 More Miles è più moderna ed elettrica pur restando in ambito country.

Big Gold Mine è invece un gustoso western swing di quelli che si suonavano una volta nelle feste texane di paese, mentre 10.000 Acres è un godibilissimo honky-tonk che più classico non si può. Decisamente riuscita anche The Way I’m Livin’, puro country con sentori di Bakersfield Sound, brano che precede If Not The Fool, un lentaccio anni sessanta di quelli che piacciono tanto a Raul Malo. Maybelle è di nuovo swingata e dal sapore antico, River Of Sorrow ha la struttura di un country-gospel alla Will The Circle Be Unbroken ed un pregevole intervento di sax, mentre Change Yo’ Mind è ancora honky-tonk al 100%. Abbiamo detto delle cover: 7 Come 11 è l’unica contemporanea (una canzone del countryman Vincent Neil Emerson) ma fatica ad emergere, la bella Excuse Me di Buck Owens è decisamente rispettosa dell’originale, It’s Nothing To Me (Leon Payne) diventa una ballatona country & western, la celeberrima 9 Pound Hammer (portata al successo da Merle Travis) per sola voce e banjo ha il sapore di una autentica folk song dell’anteguerra, e Motel Time Again, di Bobby Bare, è rifatta in maniera molto aderente alla versione di Johnny Paycheck. 

C’è ancora spazio in America per chi fa del vero country, e The Valley lo dimostra in maniera chiara e netta.

Marco Verdi