Anche Se Non Lo Trovate Nei Negozi, Vale La Pena Procurarselo! Uncut – Dylan Revisited

DYLAN-REVISITED-CD-packshot-696x522

VV.AA. – Dylan Revisited – Uncut/Bandlab UK CD

Tra meno di un mese, il 24 maggio, il grande Bob Dylan compirà 80 anni, e gran parte delle testate musicali nel mondo sono già da tempo in fibrillazione per festeggiare a modo loro l’evento. L’unico che sta brillando per il suo assoluto silenzio è proprio il diretto interessato, ma direi una bugia se mi dichiarassi sorpreso dal momento stiamo parlando di un personaggio che ha sempre detestato le autocelebrazioni (il famoso concerto-tributo del 1992 al Madison Square Garden era stato voluto dalla Columbia, e le immagini facevano capire benissimo che Bob avrebbe preferito di gran lunga essere da un’altra parte). Siccome anche la Sony non ha finora annunciato nulla a livello discografico, e non è detto che ci sia qualcosa in programma, vorrei parlarvi di un CD molto particolare oltre che bello, che non si trova nei negozi ma che non è neppure così difficile procurarsi. E’ tradizione delle riviste musicali inglesi, specialmente Classic Rock, Mojo ed Uncut, gratificare i suoi lettori con CD gratuiti allegati alle varie mensilità, perlopiù compilation di materiale già edito riguardanti solitamente uno specifico argomento.

Nel suo ultimo numero però Uncut ha fatto le cose in grande, regalando un dischetto intitolato Dylan Revisited che non è il solito tributo low-cost costruito con performances già note, ma una compilation di incisioni nuove di zecca realizzate apposta per la rivista, con la chicca di un inedito assoluto dello stesso Dylan! Una succosa opportunità di portarsi a casa un dischetto esclusivo, tra l’altro con una spesa minima: infatti l’uscita è acquistabile direttamente sul sito di Uncut, e per soli 12 euro (non pagate neanche la spedizione) riceverete a casa un numero molto interessante della rivista, oppure lo trovate nelle edicole e librerie piuù fornite. Un omaggio a Dylan a 360 gradi attraverso i ricordi di musicisti e produttori che lo hanno conosciuto, con più di un aneddoto divertente. E poi ovviamente c’è Dylan Revisited, in cui il Premio Nobel viene omaggiato da 14 belle riletture da parte di musicisti perlopiù emergenti, anche se non mancano i nomi di prima fascia, ma con tutte cover rispettose degli originali e nessuno sconfinamento in sonorità bislacche. Il CD si apre con il già citato inedito dylaniano: Too Late è una ballata acustica con una leggera percussione alle spalle tratta dalle sessions di Infidels (e che dovrebbe anticipare il sedicesimo volume delle Bootleg Series, dedicato proprio alle prolifiche sedute dell’album del 1983, in uscita pare entro l’anno, forse a luglio, visto che è in uscita anche un estratto in vinile per il Record Store Day), un brano che poi si sarebbe evoluto nella già nota Foot Of Pride. Una bella canzone eseguita in modo rilassato da Bob, che non somiglia molto a ciò che sarebbe diventata né come testo né come melodia (forse ricorda di più George Jackson, il raro singolo del 1971): dopo l’ascolto ho ancora più voglia del nuovo episodio delle Bootleg Series.

E partiamo con il tributo vero e proprio, che inizia col botto: Richard Thompson è un fuoriclasse assoluto, e This Wheel’s On Fire viene proposta con un bell’arrangiamento elettroacustico con l’ex Fairport che suona tutti gli strumenti, nel suo tipico stile tra folk e rock; Courtney Marie Andrews è ancora giovane ma già esperta, e ci delizia con un’interpretazione voce e chitarra della splendida To Ramona, forse un po’ scolastica ma meglio così che stravolta, mentre i Flaming Lips rivestono di una leggera patina pop-psichedelica l’eterea Lay Lady Lay, che mantiene però la sua struttura acustica. I canadesi Weather Station propongono Precious Angel, dal periodo “religioso” di Bob, in una rilettura molto diversa, pianistica e lenta, con la voce solista femminile di Tamara Lindeman quasi sussurrata che accentua il tono di preghiera del brano; rimaniamo in Canada con i grandi Cowboy Junkies, che fanno una scelta non scontata prendendo dal recentissimo Rough And Rowdy Ways la bella I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You, che fanno diventare uno splendido valzer dal sapore folk con la voce inconfondibile di Margo Timmins che come al solito si rivela l’arma in più del quartetto: sembrano tornati di botto i Junkies di inizio carriera, una cover magnifica, meglio anche dell’originale.

L’ex Sonic Youth Thurston Moore non si perde in sonorità strane e rilegge Buckets Of Rain per voce e chitarra, da perfetto folksinger, la cantante e chitarrista originaria del Mali Fatoumata Diawara offre una versione tutta ritmo e colori di Blowin’ In The Wind (registrata a…Como!), molto diversa dall’originale ma piacevole, mentre invece la giovane irlandese Brigid Mae Power nel riproporre la bella One More Cup Of Coffee ricalca abbastanza le atmosfere di Desire, violino a parte. Knockin’ On Heaven’s Door è materia pericolosa, ma la indie band Low (che ha in comune con Dylan la città d’origine, Duluth) se la cava benissimo con una interpretazione convincente, lenta e ricca di pathos, facendola diventare una rock ballad notturna e misteriosa. Il duo folk formato da Joan Shelley e Nathan Salsburg rifà Dark Eyes in maniera rigorosa, Patterson Hood e Jay Gonzalez dei Drive-By Truckers sono bravi e lo dimostrano con una Blind Willie McTell sofferta, bluesata e desertica (ma l’originale dylaniano è insuperabile), e lo stesso fa l’ex Be Good Tanyas Frazey Ford con un’ottima The Times They Are A-Changin’ in veste folk-rock ballad elettrica, con chitarre ed organo al posto giusto.

Finale con Jason Lytle, frontman dei Grandaddy, che ci regala una buona versione rilassata di Most Of The Time, con chitarra acustica e piano a scontornare la melodia, e con Weyes Blood (nome d’arte di Nathalie Laura Mering) che affronta in maniera classica la lunga ed impegnativa Sad Eyed Lady Of The Lowlands, riuscendo a fornire una prova decisamente efficace. Un tributo perfettamente riuscito questo Dylan Revisited, serio e ben fatto, che meriterebbe una distribuzione ben più capillare che come allegato ad una rivista mensile.

Marco Verdi

Continua La Riscossa Dei “Giovani Talenti”! Tom Jones – Surrounded By Time

tom jones surrounded by time

Tom Jones – Surrounded By Time – EMI CD

Il fatto che tra i migliori album di questo primo terzo di 2021 ci siano i lavori di due quasi novantenni, Willie Nelson e Loretta Lynn, non depone certo a favore di un roseo futuro per la nostra musica. Ora a questo manipolo di giovanotti si aggiunge anche Tom Jones, che è un ragazzino in confronto ai due nomi appena citati in quanto di anni ne compirà “solo” 81 il prossimo giugno. Dopo una lunghissima carriera piena di successi pop ma anche di tanti passaggi a vuoto, il cantante gallese sta vivendo da una decade abbondante una vera e propria rinascita artistica: infatti, dopo essersi riaffacciato prepotentemente nelle parti alte delle classifiche con il tormentone danzereccio Sex Bomb nel 2000, Tom ha iniziato dal 2010 a pubblicare un album più bello dell’altro, reinventandosi interprete in chiave folk-blues-gospel-roots di brani tradizionali ed altri di autori contemporanei anche di stampo rock. Un percorso simile a quello intrapreso negli anni 90 da Johnny Cash con Rick Rubin (ma a differenza di Jones, l’Uomo in Nero non aveva mai smesso di fare musica di qualità, solo non se lo filava più nessuno), con il produttore Ethan Johns, figlio del mitico Glyn Johns, a fungere da mentore come Rubin era stato per Cash. Praise & Blame (2010), Spirit In The Room (2012) e Long Lost Suitcase (2015) erano tre dischi magnifici, nei quali il nostro, sempre in possesso di una grande voce, rileggeva con credibilità da vero musicista roots brani della tradizione o canzoni scritte da Hank Williams, Bob Dylan, Billy Joe Shaver, Los Lobos, Pops Staples, Leonard Cohen, Richard Thompson, Paul Simon, Willie Nelson, Tom Waits, Gillian Welch e Rolling Stones, un percorso culminato poi nel 2017 con lo splendido doppio Live On Soundstage, registrato appunto dal vivo.

Ora Jones si rifà vivo a sei anni da Long Lost Suitcase con Surrounded By Time, un altro riuscito album che prosegue con la reinterpretazione di classici del passato tra pezzi noti ed altri più oscuri, ancora con Johns in cabina di regia ed anche responsabile di vari tipi di strumenti a tastiera e chitarre, e con la partecipazione di Neil Cowley anch’egli al piano, organo e synth, Nick Pini al basso e Dan See e Jeremy Stacey alla batteria. A differenza dei tre lavori precedenti però in questo album il suono è meno roots e decisamente più moderno, con uso abbastanza insistito di sonorità elettroniche mescolate ad altre più “tradizionali”, anche se a parte un paio di episodi in cui la modernità prende il sopravvento, il tutto è dosato con intelligenza (ci sono similitudini con certe cose di David Bowie ma anche con il Nick Cave più recente). E poi c’è Tom, che nonostante gli anni ha ancora una voce di una potenza formidabile, ed una classe che gli permette di interpretare al meglio qualsiasi tipo di canzone con qualsiasi tipo di arrangiamento: pollice verso invece per la copertina del CD, che ogni volta che la guardo mi fa venire in mente un rotolo di carta igienica…L’album inizia con le tonalità gospel di I Won’t Crumble With You If You Fall, un brano della folksinger ed attivista Bernice Johnson Reogon con la voce magnifica di Jones che si staglia quasi a cappella, dal momento che gli unici strumenti sono synth e basso che producono un effetto simile ai paesaggi sonori di Daniel Lanois.

The Windmills Of Your Mind è un noto pezzo del compositore francese Michel Legrand già inciso in passato tra gli altri da Dusty Springfield, Vanilla Fudge e Sting: Tom canta con grande padronanza della melodia mentre la band si produce in un accompagnamento pianistico di algida bellezza, con una leggera percussione e l’organo ad aggiungere pathos; con Pop Star, vecchia canzone di Cat Stevens (era su Mona Bone Jakon) il ritmo cresce, il brano ha una struttura blues ma qui è sostenuto da uno strano arrangiamento molto elettronico che non le rende pienamente giustizia, nonostante l’ingresso dopo la seconda strofa di un bellissimo pianoforte. Un sitar introduce No Hole In My Head di Malvina Reynolds, poi entra una ritmica martellante ed un organo decisamente sixties, per una traccia che si divide tra pop e psichedelia, un genere non abituale per Tom che però non fa una piega e canta con il solito carisma ed anche una buona dose di grinta. Talking Reality Television Blues è il brano che non ti aspetti, una canzone recente scritta da Todd Snider dal testo ironico tipico del songwriter di Portland, arrangiato alla guisa di un rock urbano (non esagero se penso ai Dream Syndicate), e per non smentire il titolo Jones parla invece di cantare. Non tra le mie preferite, anche se la coda finale chitarristica è notevole.

Anche I Won’t Lie (di Michael Kiwanuka) inizia con un tappeto sonoro quasi straniante, ma poi entra la chitarra acustica e Tom canta col cuore in mano trasformando un brano di moderno soul in una folk song pura nonostante l’atmosfera gelida creata dal synth sullo sfondo; This Is The Sea, uno dei capolavori dei Waterboys, è una grande canzone e qui viene riproposta in maniera più classica, con organo, chitarre e sezione ritmica in evidenza (sulla voce di Tom non voglio ripetermi): sette minuti splendidi. Interpretare Dylan sta diventando per Jones una piacevole abitudine dato che Praise & Blame si apriva con What Good Am I? ed in Spirit In The Room c’era When The Deal Goes Down: qui troviamo la bella One More Cup Of Coffee, che ha un inizio quasi jazzato per l’uso solista del basso ma poi entrano gli altri strumenti ed il pezzo mantiene l’andatura western dell’originale con il nostro che vocalizza alla grande, a differenza del traditional Samson And Delilah (l’hanno fatta in tanti, ma la versione più celebre è quella dei Grateful Dead) che assume sonorità etniche, quasi tribali, con un andamento incalzante e coinvolgente.

Tom omaggia anche Tony Joe White con Ol’ Mother Earth, ballata cadenzata e notturna in cui i suoni moderni si adattano perfettamente al tessuto melodico di base, con Jones che ricorre ancora al talkin’ ma in maniera più riuscita che nel brano di Snider; finale con il tributo a due musicisti jazz poco noti come Bobby Cole e Terry Callier, rispettivamente con I’m Growing Old, proposta in una nuda e struggente rilettura per sola voce e piano (e qualche loop non invasivo), e la lunga Lazarus Man, più di nove minuti di pura psichedelia moderna con la voce del leader che un po’ declama ed un po’ canta con il consueto feeling, mentre una chitarra liquida alla Jerry Garcia ricama sullo sfondo. Quindi un altro bel disco per il “vero” Principe di Galles, che dimostra di cavarsela alla grande anche in mezzo a suoni che non sempre gli appartengono.

Marco Verdi

Ecco Il Primo Capitolo Della Serie Lu’s Jukebox. Lucinda Williams Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty

lucinda williams runnin' down a dream a tribte to tom petty

Lucinda Williams – Runnin’ Down A Dream – A Tribute To Tom Petty – Highway 20 Records/Thirty Tigers

Come moltissimi altri musicisti, nel periodo della pandemia anche Lucinda Williams si è ingegnata per trovare nuovi progetti musicali che potessero alleviare il lungo periodo del confinamento casalingo: lei lo ha fatto creando la serie Lu’s Jukebox che si articolerà in una serie di sei Live In Studio incentrati su omaggi/tributi sia ad alcuni grandi musicisti, quanto a generi musicali molto diversificati fra loro. Il tutto in rete ha già preso l’abbrivio dall’ottobre dello scorso anno con una serie di trasmissioni streaming in alta definizione e a pagamento, per devolvere i fondi ricavati a musicisti ed addetti ai lavori in difficoltà finanziaria, destinati poi a diventare dei CD con una serie di uscite cadenzate durante il 2021. Il primo sarà quello dedicato a Tom Petty, di cui tra un attimo, l’ultimo sarà quello sui Rolling Stones: ad accompagnare Lucinda, oltre al produttore Ray Kennedy, che insieme alla Williams e al marito Tom Overby, ha coordinato il tutto dai Room And Board Recording Studios di Nashville, ci sono una serie di musicisti che ultimamente accompagnano la musicista di Lake Charles: Stuart Mathis alla Chitarra Solista, Joshua Grange, Chitarra e Tastiere ,Stephen Mackey al Basso e Fred Eltringham alla Batteria.

La nostra amica aveva ottimi rapporti con Petty tanto che era stata l’opening act nella tre serate all’Hollywood Bowl, culminate con la data del 25 settembre 2017, l’ultimo concerto di Tom prima della prematura scomparsa avvenuta il 2 ottobre dello stesso anno: sono già passati tre anni e mezzo, ma il biondo musicista manca sempre di più a tutti, anche se le sue canzoni continuano a vivere con una serie di eventi che si sono succeduti da allora. L’ultima a voler approcciare il suo songbook è stata appunto Lucinda Williams, che per questo Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty ha scelto dodici brani della sua sterminata produzione, aggiungendo una canzone scritta appositamente per l’occasione. Come sa chi legge abitualmente questo Blog il sottoscritto apprezza molto la musica della nostra amica https://discoclub.myblog.it/2020/04/24/sferzate-blues-e-ballate-elettriche-urticanti-dalla-citta-degli-angeli-lucinda-williams-good-souls-better-angels/ , ma mi rendo conto che per vari motivi, soprattutto la voce, molti non la amano e rispetto la loro scelta: però non mi esimo dal dire che anche questa volta mi sembra che l’obiettivo di fare un buon disco sia stato centrato. Forse, anzi sicuramente, non un capolavoro, ma un sentito omaggio ad uno dei migliori talenti espressi dalla musica americana negli ultimi 40 e passa anni.

L’approccio ovviamente è diverso, manca il tipico jingle-jangle del rocker della Florida, a favore di un sound più bluesato e compatto tipico della Williams, ma non “sconosciuto” al sound degli Heartbreakers. Si apre con Rebels, brano tipicamente “sudista” che evidenzia le affinità tra i due: bella rilettura, molto laidback e vicina a quella dell’originale, meno carica rispetto a certe canzoni di Lucinda, ma sempre con la giusta tensione chitarristica, affidata all’interscambio tra Mathis e Grange, si prosegue con la title track, una delle canzoni nate dalla collaborazione con Jeff Lynne, più grintosa e tirata, decisamente vicina al groove dell’originale, con le chitarre che riffano di brutto nello spirito rock’n’roll pettyano, con assolo ruvido al seguito. Gainesville e Louisiana Rain sono altri due brani che evidenziano le comuni radici, non solo musicali, ma anche di vita, dei due, la seconda con il piano elettrico di Grange ad evidenziare l’atmosfera sospesa ma esuberante della canzone che ben si adatta alla interpretazione della Wiiliams.

I Won’t Back Down è uno dei capolavori assoluti di Tom, un pezzo trascinante ed esuberante, che ti resta subito in testa e che non viene stravolto in questa versione con Mathis alla slide che (quasi) riproduce lo stile inconfondibile di Mike Campbell; anche A Face In The Crowd viene dall’accoppiata Petty/Lynne ed è uno dei brani che meglio si adatta anche allo stile vocale di Lucinda, come pure Wildflowers, che in fondo è una ballata, ben si attaglia alla vocalità pigra e rilassata della signora, con il piano elettrico in bella evidenza e un arrangiamento avvolgente e confortevole. You Wreck Me non raggiunge la devastante potenza di sparo degli Heartbreakers, anche se i musicisti forse ce l’avrebbero nelle loro corde e anche la scelta della non notissima Room At The Top, brano estratto da Echo, magari non è felicissima, ma evidentemente ognuno ha le sue preferenze, e questa canzone triste e malinconica, sulla fine del primo matrimonio di Tom, si adatta nella sua scarna interpretazione al mood della Wiiliams che ben si allinea anche allo stile ciondolante, figlio del Sud, scelto per You Don’t Know How It Feels, da dove vengono, sin dal titolo e come ubicazione, anche sia Down South che una accorata Southern Accents che Lucinda Williams aveva già nel suo repertorio Live.

La affettuosa dedica finale di Stolen Moments, brano peraltro molto bello, è sia per Tom quanto per la moglie Dana e chiude degnamente un album complessivamente soddisfacente, ma, manco a dirlo, le canzoni originali rimangono insuperabili, comunque grazie a Lucinda per averci provato.

Bruno Conti

Meglio Solo Che Male Accompagnato! Popa Chubby – Tinfoil Hat

popa chubby tinfoil hat

Popa Chubby – Tinfoil Hat – Dixiefrog

Quando tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo dello scorso anno scatta la pandemia da Covid, Popa Chubby è in giro on the road per promuovere il nuovo album appena uscito It’s A Mighty Hard Road, ma come molti musicisti e artisti (per non dire anche dei comuni mortali, che però ogni tanto hanno potuto allentare l’isolamento) non immagina certo che la sosta sarà così lunga: già da subito manda richieste di aiuto a fans e appassionati, che gli rispondono, e quindi Ted Horowitz inizia a scrivere e registrare un po’ di canzoni nuove dal suo quartiere generale tra Bronx, NY City e Hudson Valley, con argomenti che da universali chiamate alle solidarietà umana Can I Call You My Friends? passano al tema del Black Lives Matter con No Justice No Peace, amichevoli vaffanculo a quello che allora era l’inquilino della Casa Bianca “TheDonald” con You Ain’t Said Shit, meditazioni sulla situazione di oggi che richiama quella dei tempi che furono in 1968 Again.

Il nostro non è un fine poeta e dicitore, quindi se serve nei testi usa accetta e piccone, mentre musicalmente, dovendo suonare tutti gli strumenti in solitaria, il suo solito blues ad alta gradazione rock, nutrito negli anni a Cream, Zeppelin e Mastro Jimi, si fa sempre più ruvido, pur inserendo, come è sua consuetudine, elementi punk e qualche tocco di reggae, una spennellata di soul e questa volta anche un po’ di surf, senza mai dimenticarsi di santificare comunque i grandi delle 12 battute. Ovviamente, come per molti altri che praticano le strade del blues la formula è sempre più meno quella, qualche shuffle, dei blues lenti, tanta grinta e moltissimi riff: i suoi ascoltatori quello si aspettano e lui li accontenta, ripreso in copertina con un cappellino di latta Tinfoil Hat, in testa, e mascherina sul volto, per il tocco di raffinatezza si presenta con acustica con il corpo di acciaio e poi procede con 11 canzoni 11 scritte da lui a ribadire le convenzioni non scritte, ma ben codificate ed appena ricordate, della propria musica.

La title track, con video con pupazzetto di uno con improbabile capigliatura bionda (chi sarà mai?) che cavalca anche missili, virus che fluttuano nell’etere, e annuncio iniziale da imbonitore, ritmo scandito primitivo, echi surf blues-rock, ma poi imbraccia la sua Gibson e ci spara un assolo potente dei suoi. Ci esorta anche non fare i pirla Baby Put On Your Mask, lui indossa il suo bottleneck per convincerci con un rock ribaldo, mentre nella antemica No Justice No Peace il messaggio è veicolato in un poderoso rock-blues dove come è sua usanza maltratta la solista e canta pure con convinzione e profitto, la voce ben delineata; in You Ain’t Said Shit dialoga con il suo amico Trump (ma, ohibò, odo forse una pernacchia a fine brano?) in una canzone deliziosa che sembra provenire da un vecchio vinile anni ‘50, c’era la guerra fredda, ma la musica era eccellente. Another Day In Hell è un “bluesazzone” (si può dire?) di quelli tirati, ribaldi, urlati e lancinanti, con la chitarra in spolvero che inchioda un altro assolo dei suoi https://www.youtube.com/watch?v=jKByTD6_39c .

In Can I Call You My Friends? tratta tutti i temi che hanno caratterizzato il 2020, pandemia, politica, proteste, Capitol Hill, con un video recente dove appare anche Biden, è la musica è vigorosa, rock and roll orgoglioso e barricadero, suonato e cantato con grande impeto, bellissima canzone. In Someday Soon (A Change Is Gonna Come) prova a rispondere anche a Sam Cooke con un brano dove una sinuosa slide è protagonista assoluta https://www.youtube.com/watch?v=lq4whvmmNDY , e Cognitive Dissonance a tempo di reggae puro è l’unico brano dell’album che non mi convince appieno (sono allergico, anche se lui ci aggiunge elementi rock con la chitarra insinuante e cattiva), mentre Embee’s Song con la sua andatura da sweet soul music e l’omaggio a Otis con un sentito “Let Me Love You, Baby!” e un assolo rigoglioso da grande rocker conferma la ritrovata vena di un Popa Chubby ispirato https://www.youtube.com/watch?v=3OIqTp2PQ38 , che nel finale ci regala 1968 Again dove utilizza con destrezza l’acustica con uso slide che mostra nella copertina del CD https://www.youtube.com/watch?v=loZz9vQlohg  e prima nello strumentale Boogie For Tony https://www.youtube.com/watch?v=9lURAz897CI  ci ricorda anche perché è giustamente considerato un eccellente chitarrista: e bravo Ted!

Bruno Conti

Il Primo Album “Diversamente Bello” Della Band Inglese! Jethro Tull – A (La Mode)

jethro tull A la Mode front

Jethro Tull – A: 40th Anniversary Edition – Parlophone/Warner 3CD/3DVD Box Set

Per rispetto verso il lavoro altrui, non amo mai definire “brutto” un disco, a meno che non siamo di fronte a qualcosa di quasi inascoltabile: ancora meno mi piace farlo nel caso dei Jethro Tull, che nel periodo dal 1968 al 1979 seppur con alti a bassi non avevano mai sbagliato un album. Non posso esimermi però di far notare che A, lavoro del gruppo inglese uscito nel 1980, non fosse esattamente un capolavoro, cosa che la critica dell’epoca non mancò di far notare stroncando sia il songwriting ma soprattutto gli arrangiamenti moderni che anticipavano il sound della nuova decade, con un uso massiccio di sintetizzatori. Ma A non doveva essere nemmeno un disco dei Tull, bensì il primo lavoro solista del leader Ian Anderson (il titolo dell’album era preso dalla scritta che compariva sulle scatole dei nastri delle sedute, A come Anderson), che si tramutò nel tredicesimo LP del gruppo su pressioni della Chrysalis, la loro etichetta all’epoca.

jethro tull A la Mode box

I musicisti coinvolti nelle sessions si ritrovarono quindi all’improvviso ad essere i nuovi membri della band, e se per il chitarrista Martin Barre non era una novità, per il bassista ex Fairport Convention Dave Pegg e per il batterista Mark Craney sì (ma mentre Pegg rimarrà con Anderson fino al 1995 dividendosi con i riformati Fairport, Craney si rivelerà una meteora), mentre il tastierista e violinista Eddie Jobson, vero responsabile del sound modernista del disco, venne accreditato solo come ospite esterno. Ora A esce in versione deluxe proseguendo la serie di ristampe a cofanetto dei Tull, nella consueta bella confezione a libro e con ben tre CD ed altrettanti DVD (che però contengono come vedremo a breve le solite ripetizioni), con il titolo “aggiornato” A (La Mode): come sempre la parte sonora è nelle mani di Steven Wilson, che oltre a rimasterizzare il tutto si occupa anche del remix, con il risultato che un po’ di patina di antico è venuta via, anche se non si poteva certo fare il miracolo di trasformare un disco traballante in un lavoro imperdibile; in compenso il box offre la solita generosa dose di bonus tracks, cioè una manciata di outtakes nel primo dischetto ed un concerto completo negli altri due.

L’album originale risentito oggi non è neanche così orrendo (secondo me il fondo i nostri lo toccheranno nel 1984 con Under Wraps): Crossfire ha una melodia tipica di Anderson, con una base strumentale leggermente funky-disco ma non spregevole, l’incalzante Flyingdale Flyer è un pop-rock gradevole ed abbastanza coinvolgente specie nel refrain, Working John, Working Joe, unico singolo estratto (senza alcun successo), è una rock song energica e dal ritmo sostenuto ma con un occhio al sound radiofonico. Un brutto intro di synth cede per fortuna il passo ad un arrangiamento più rock nella non disprezzabile Black Sunday, Protect And Survive non è niente di speciale, mentre la frenetica Batteries Not Included, già non un capolavoro, è rovinata da un florilegio di tastiere elettroniche. Il violino elettrico dona a Uniform un discreto sapore folk-rock, 4.W.D. (Low Ratio) è un midtempo piuttosto nella media e leggermente caotico, ma il folkeggiante strumentale The Pine Marten’s Jig è il pezzo più comparabile al classico suono Tull, e la rock ballad And Futher On, che chiude il disco del 1980, di sicuro non è il miglior brano dei nostri ma almeno non fa danni.

Come bonus sul primo CD abbiamo cinque outtakes inedite: a parte una versione estesa di Crossfire, una alternata di Working John, Working Joe ed il breve frammento di 39 secondi Cheerio, il meglio si ha con Coruisk, evocativa canzone strumentale tra rock e folk che era meglio di molto del materiale finito su A (ci sarebbe anche Slipstream Introduction, un breve brano in stile ambient usato all’epoca per aprire i concerti, ma non è il massimo). Gli altri due CD documentano uno show del gruppo, con la stessa lineup del disco, tenuto il 12 novembre del 1980 alla Sports Arena di Los Angeles: un buon concerto, che presenta ben sette pezzi tratti da A, con gli stessi pregi e difetti anche se on stage la componente rock è decisamente più accentuata grazie al maggior spazio riservato a Barre. Purtroppo però ci sono anche lunghe improvvisazioni strumentali che rompono un po’ il ritmo del concerto, specie i lunghi ed autoindulgenti assoli di tastiera e batteria.

La parte migliore è quindi riservata ai brani dei dischi precedenti ad A, con belle riletture delle allora recenti Songs From The Wood, Hunting Girl e Heavy Horses, un paio di classici minori tratti da War Child (Skating Away On The Thin Ice Of The New Day e Bungle In The Jungle), ed il consueto bis che non fa prigionieri, forse prevedibile ma se uno va ad un concerto dei Tull si incazza se non le suonano: una splendida Aqualung di quasi dieci minuti e la sempre trascinante Locomotive Breath, che neanche il synth riesce a rovinare. I tre DVD contengono le stesse cose dei CD, in vari formati audio compreso “l’indispensabile” (per qualcuno) 5.1 surround, e nella parte video il film Slipstream uscito all’epoca in VHS, uno strano lungometraggio che alterna videoclip, sezioni animate, brani presi da concerti e parti recitate dai membri del gruppo (con Anderson nel doppio ruolo di Aqualung e…Dracula!). L’anno prossimo le ristampe dei Tull si prenderanno una vacanza (ma A sarebbe dovuto uscire nel 2020, poi la pandemia si è messa di mezzo) fino al 2022 quando toccherà al discreto The Broadsword And The Beast, anche se alcune voci parlano per fine 2021 di un “recupero” di Benefit del 1970, l’unico a non aver ancora beneficiato (nonostante il titolo…) dell’edizione “a libro”.

Marco Verdi

Non Delude Neppure Questa Volta, Con Un Disco Acustico Disponibile Solo Per Il Download E In Vinile Colorato Limitato – Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids

anders osborne orpheus and the mermaids

Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids – 5th Ward Records Download/Streaming e Vinile Limitato Colorato

Credo che per tutti coloro che amano la buona musica, oltre che un piacere, sia quasi un dovere conoscere quella di Anders Osborne. Nativo di Uddevalla, Svezia, è ormai da moltissimo tempo cittadino di New Orleans, Louisiana, dove arriva dopo una infanzia ed una adolescenza passate ad ascoltare blues, jazz, e i grandi cantautori, da Dylan a Joni Mitchell, Ray Charles e Lowell George, Neil Young e Jackson Browne, ma anche il cowboy di Belfast, Van Morrison): quando arriva negli States, fine anni ‘80, inizio anni ‘90, dopo il giusto periodo di gavetta, tra tour e le prime pubblicazioni con la Rabadash, una etichetta locale di New Orleans, ha la fortuna di trovare un contratto discografico per la Okeh, e pubblica nel 1995 l’eccellente Which Way To Here, che ottiene un discreto riscontro di vendite, con l’utilizzo dei suoi brani anche in colonne sonore di film importanti, e ottimi giudizi dalla critica.

Da allora inizia la solita trafila degli artisti di culto: prima una serie di dischi per la Shanachie, poi uno per la M.C. Records e il successivo contratto per la Alligator, dove pubblica complessivamente quattro dischi che sfiorano il livello del capolavoro, l’ultimo Peace, con la bimba in copertina che mostra il dito medio. Ma siamo arrivati alla grande crisi dell’industria discografica e quindi bisogna passare al fai da te: album creati in proprio e distribuiti tramite la sua Back On Dumaine Records, sempre molto belli, magari un filo inferiori ai precedenti, sempre difficili da trovare, per quanto pubblicati anche in CD https://discoclub.myblog.it/2016/06/01/nuove-avventure-underground-lo-svedese-new-orleans-anders-osborne-spacedust-and-oceans-views/ , incluso Freedom And Stars, la collaborazione come NMO insieme ai fratelli Dickinson https://discoclub.myblog.it/2015/02/23/disco-bellissimo-peccato-esista-nmo-anders-osborne-north-mississippi-allstars-freedom-and-dreams/ .

L’ultimo capitolo, il suo 17°, questo Orpheus And The Mermaids, è un ulteriore passaggio: esce solo per il downlaod oppure in vinile colorato costosissimo. Ma la musica rimane sempre di una bellezza inalterata, Osborne è forse meno incazzoso verso il mondo di un tempo (forse il fatto di avere ritrovato la sobrietà, grazie ad una famiglia con due figli, aiuta) ma è comunque in grado di sfornare brani di grande qualità che citano spesso i suoi punti di riferimento ricordati all’inizio: l’iniziale Jacksonville To Wichita, con l’armonica aggiunta ad una acustica arpeggiata, sta al crocevia tra Dylan, Young e Morrison, un brano malinconico e tremendamente bello, con citazioni di Townes Van Zandt nel testo e una serenità invidiabile. La successiva Light Up The Sun ha una struttura sonora più complessa, ma si basa sempre sulla calda voce di Anders e sulla sua chitarra, di cui è un virtuoso anche in modalità acustica, ogni tanto la voce viene raddoppiata, ma l’impianto complessivo è minimale, non per questo meno affascinante, in queste reminiscenze sulla vita che passa nella propria famiglia e sui suoi demoni tenuti a bada https://www.youtube.com/watch?v=vIw3kZJQbvo . Last Days In The Keys è una affettuosa e commossa dedica a Neal Casal scomparso suicida due anni fa, anche attraverso le storie di altri amici e persone che ci hanno lasciato attraverso questo atto estremo e disperato, che non perdona i momenti di sconforto e debolezza, sempre con la chitarra acustica e l’armonica che sottolineano questo racconto in modo crudo ma partecipe.

Forced To ha una struttura più bluesy, sempre con quel tocco da cantautore raffinato che me lo fa avvicinare ad un altro Beautiful Loser come il bravissimo Grayson Capps https://discoclub.myblog.it/2020/09/01/una-sorta-di-antologia-rivisitata-per-celebrare-un-grande-cantautore-grayson-capps-south-front-street-a-retrospective-1977-2019/ , senza dimenticare il primo “Bobby Dylan” https://www.youtube.com/watch?v=A81xq-1pukI  . Pass On By, accompagnata da un bellissimo video dedicato a New Orleans, pubblicato il giorno di Natale, e che vi consiglio di cercare, nella quale Osborne si destreggia tra accordature “normali” e uso del bottleneck per una canzone che ricorda un altro dei suoi preferiti, quel Jackson Browne di cui attendiamo a breve il nuovo album (ora si parla di luglio). Welcome To The Earth, voce riverberata e chitarra incalzante è un altro ottimo esempio di questo folk ricercato che sembra essere la chiave del nuovo album, Dreamin’, ca va sans dire, è più sognante, con una armonica che rimanda a Elliott Murphy e il tessuto musicale a Paul Simon, comunque bellissima https://www.youtube.com/watch?v=mfrK267VNG0 , mentre Earthly Things, di nuovo con la voce raddoppiata, emana ancora una aura di grande serenità attraverso un complesso lavoro di due chitarre acustiche e la conclusiva Rainbows ci riporta di nuovo al primo Neil Young, per l’uso della armonica, sempre con accenni dell’amato Jackson. *NDB Se volete provare ad acquistarlo lo trovate qui https://anders-osborne.myshopify.com/collections/orpheus-and-the-mermaids ma costa un bel 35 dollari più la spedizione dagli USA.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Un Gran Concerto Per Tre Quarti, Con Un Finale “Normale”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000

bruce springsteen madison square garden 27-06-2000

Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Partiamo dal presupposto che l’aggettivo “normale” associato ad un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band sottintende comunque un livello inarrivabile per circa il 90% dei gruppi rock al mondo, ma in ogni caso non sarebbe corretto spacciare per leggendario ogni singolo show tenuto dal rocker del New Jersey e dal “suo” gruppo, anche se penso che nessuno dei suoi fans se ne sia mai tornato a casa insoddisfatto. Il famoso Reunion Tour tenuto dal Boss nel biennio 1999-2000, che lo vedeva ricongiungersi con i suoi “blood brothers” dopo undici anni, terminò nell’estate del duemila con ben dieci serate consecutive al Madison Square Garden di New York, delle quali quella finale del primo luglio è già stata pubblicata tra le uscite mensili degli archivi live del nostro (ed in parte anche nel doppio CD del 2001 Live In New York City).

Oggi mi occupo del penultimo episodio della serie, Madison Square Garden, New York, 6/27/2000, che invece documenta l’ottava serata, a detta di molti la migliore dopo appunto quella conclusiva, e con nove canzoni diverse in scaletta. Ebbene, come ho accennato nel titolo del post per tre quarti lo show è una bomba, con il Boss ed i suoi compari in perfetta simbiosi ed in totale sintonia col pubblico: nei bis però, quando cioè di solito Bruce spende le ultime briciole di energia rimaste in corpo, sembra che i nostri inseriscano all’improvviso il pilota automatico, complice forse una parte finale di setlist che riserva poche sorprese. E comunque il giudizio complessivo rimane ampiamente positivo, grazie soprattutto a più di un momento esaltante nella parte di spettacolo prima dei bis. L’avvio è formidabile, con la rara Code Of Silence, una grande rock song suonata molto di rado, seguita dalla sempre irresistibile The Ties That Bind e da una potentissima Adam Raised A Cain, con Bruce che inizia a farci sentire la voce della sua sei corde. Un’energica Two Hearts, tradizionalmente un duetto con Little Steven, precede l’amatissima Trapped di Jimmy Cliff, vero e proprio “crowd-pleaser” con ritornello da cantare a squarciagola, ed una struggente Factory, dotata di un inedito arrangiamento country.

Dopo l’allora nuova American Skin (41 Shots), ispirata ad un tragico caso di abuso di potere da parte della polizia verso un uomo disarmato (ma musicalmente non eccelsa), lo show prosegue con ottime riletture di classici alternati a pezzi più recenti: vediamo quindi susseguirsi versioni super-coinvolgenti di The Promised Land, Badlands e Out In The Street, una Youngstown molto più rock e tagliente che in origine ed una scatenata Murder Incorporated. Tenth Avenue Freeze-Out, con i suoi 18 minuti di durata e varie improvvisazioni al suo interno (It’s Alright di Curtis Mayfield, Take Me To The River di Al Green, Red Headed Woman di Bruce e Rumble Doll cantata da Patti Scialfa), è forse il momento centrale della serata https://www.youtube.com/watch?v=r1twvwbB_cU , ma poi abbiamo un trittico di rarità (la splendida e trascinante Loose Ends, la bellissima soulful ballad Back In Your Arms e l’antica Mary Queen Of Arkansas) e la strepitosa Backsteets, a mio giudizio la migliore ballata della “golden age” del Boss insieme a Jungleland e The River.

Da qui in poi come dicevo il concerto da eccellente diventa “solo” buono: Light Of Day l’ho sempre vista come un pretesto per mostrare i muscoli (tra l’altro per quasi un quarto d’ora) ma non una gran canzone, Hungry Heart e Born To Run sono fra i pochi pezzi che Springsteen esegue sempre allo stesso modo, mentre sia la vecchia e solare Blinded By The Light che l’inimitabile Thunder Road fanno salire nuovamente la temperatura. Finale con If I Should Fall Behind, che in quel tour serviva come showcase per i vari membri “cantanti” della band che avevano una strofa a testa (quindi Bruce, Patti, Little Steven, Nils Lofgren e Clarence Clemons) e con l’allora inedita Land Of Hope And Dreams, un brano che non mi ha mai fatto impazzire ed anche discretamente tirato per le lunghe. Per la prossima uscita ci sposteremo sulla costa ovest e ci imbarcheremo sul “Tunnel Of Love Express”.

Marco Verdi

Per Ora Solo Download E Streaming, Il CD Uscirà 14 Maggio! David Gray – Skellig

david gray skellig

David Gray – Skellig – Laugh A Minute Records

Nella seconda parte del 2020 appena concluso c’era stata una fioritura di uscite discografiche, materiale registrato durante la pandemia, sia nel corso dell’estate, come pure nei mesi precedenti, o addirittura appena prima della scoperta del Covid. E quindi le case discografiche si erano affrettate a pubblicarle, pur nella mancanza della possibilità di promuoverli con tour o apparizioni televisive. Questo in attesa che la situazione migliorasse: cosa che come stiamo vedendo non è ancora del tutto avvenuta. Per cui in questi primi mesi del 2021 dischi nuovi ne stanno uscendo abbastanza pochi, e parecchie di queste uscite avvengono prima soprattutto in download e streaming, con la pubblicazione delle versioni in CD e LP previste spesso per mesi dopo. Tra i tanti interessati da questa tendenza c’è anche David Gray, (artista inglese, diventato però quasi irlandese per adozione) che rilascia ora il nuovo Skellig per il dowload e streaming, mentre la versione in CD uscirà solo il 14 maggio: come vedete anche noi ci adattiamo a parlarne nel momento in cui vengono resi disponibili.

Gray ha ormai una discografia consistente, dieci album in studio: per il sottoscritto i migliori rimangono ancora i primi tre, A Century Ends, Flesh e Sell, Sell, Sell, anche se pure White Ladder, quello che ne ha decretato il successo globale, era un ottimo album. Poi nei successivi ha alternato lavori nei quali la componente folk, veniva arricchita, o depauperata, a seconda dei punti di vista, dall’utilizzo dell’elettronica, mai invadente, ma comunque presente. Il precedente Gold In A Brass Age era uno di questi, con Gray e il produttore Ben De Vries alle prese con tastiere e devices vari, che non hanno mai impedito di apprezzare la voce roca, vissuta, appassionata di David, cantautore inserito in quel filone della musica anglo-irlandese che discende da Van The Man, Nick Drake e altri musicisti di area folk e da alcuni cantautori americani, non derivativa (insomma, giusto un pochino) ma ispirata e correlata a queste coordinate sonore. Nel nuovo disco, l’undicesimo, il cui titolo Skellig viene da un piccolo scoglio vicino alle coste irlandesi, Gray è accompagnato da una pattuglia di musicisti irlandesi, Mossy Nolan, il collega David Kitt, Niamh Farrell and Robbie Malone, a piano, chitarre, basso, batteria, tastiere e voci sovrapposte, più la cellista classica britannica Caroline Dale.

Un disco tranquillo e sereno, dove certa rabbia e impeto di precedenti prove di Gray viene accantonato a favore di un approccio a tratti corale, come nell’iniziale title-track dove viene usato un coro di sei voci all’unisono che intonano melodie avvolgenti, sottolineate da una chitarra acustica arpeggiata à la Nick Drake, piano, organo e tastiere minimali, con risultati affascinanti. Dun Laoghaire, con la bella voce di David in primo piano, è un acquarello folk delizioso, solo per voce e chitarra, con gli altri vocalist che entrano nel finale; anche Accumulates privilegia questo ritorno al suono più raccolto dei primi album, con il cello della Dale a sottolineare la parte introduttiva, poi entra una batteria discreta ma incalzante che dà un certo vigore rock alla canzone https://www.youtube.com/watch?v=-Pj5pS-ud1U , e alla voce accorata del nostro. Heart And Soul potrebbe essere il manifesto dei capisaldi della propria musica, tra delicati palpiti e deliziose melodie amorose, mentre Laughing Gas è una bella ballata pianistica, appena “lavorata” a livello di suono, con lo struggente cello della Dale in evidenza.

La tenera False Gods è quasi consolatoria, Deep Water Swim, altra ballata solenne con Morrison, e il primo Springsteen, nel DNA, lascia poi spazio al lento ma inesorabile crescendo della lunga Spiral Arms e della bucolica Dares My Heart Be Free, con squarci quasi mistici delle campagne del Nord, con una voce femminile a contrappuntare quella di Gray. Molto bella anche House With No Walls, con il fingerpicking ad accompagnare la voce di David, che poi si lascia andare alle dolcezze non svenevoli di un’altra ballata pianistica come It Can’t Hurt More Than This, dove la voce di Gray ricorda molto quella del Bono più intimista https://www.youtube.com/watch?v=yt1QHkBExl8  e anche la conclusiva All That We Asked For ha questo empito di serenità conquistata a fatica attraverso una interpretazione struggente https://www.youtube.com/watch?v=nslKfgnv_PY . Un buon disco che dovrebbe piacere agli amanti della musica di un David Gray particolarmente ispirato.

Bruno Conti

Questa Volta Solo Una “Mezza Fregatura”, Forse! Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76

lynyrd skynyrd live at knebworth 76

Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76 – Eagle Rock/Universal – CD+DVD – CD+Blu-Ray – 2LP+DVD

Questa uscita rientra nella categoria “fregature” di cui ultimamente vi stiamo parlando sul Blog sia Marco che il sottoscritto: per l’occasione ho aggiunto anche “mezza” e attenuato con un forse. Adesso vi spiego perché. Stiamo parlando del famoso concerto tenuto dai Lynyrd Skynyrd il 21 agosto 1976 in quel di Knebworth, ridente località non lontana da Londra (quando è estate e non piove e quindi ci sono tonnellate di “palta” in cui sprofondare, lo dico con cognizione di causa perché mi è capitato). Però quello del concerto fu un giorno in cui anche in Inghilterra c’erano temperature estive per il consistente pubblico presente (stimato tra le 150 e le 200.000 persone, per un Festival a cui partecipavano anche gli Utopia di Todd Rundgren, i 10cc e gli headliners erano i Rolling Stones): come testimoniano le immagini del film che presentano molta gente poco vestita, meno che sul palco, dove l’unico seminudo, in braghette bianche, era il batterista Artimus Pyle, e alcuni degli altri Skynyrd avevano anche maniche lunghe, giubbetti e indumenti che forse indicavano che l’english weather traditore era sempre dietro l’angolo.

lynyrd skynyrd freebid the movie

Ma lasciando perdere le questioni meteorologiche e concentrandoci su Live At Knebworth ‘76 torniamo alla questione fregatura, che parte da lontano: infatti già nel lontano 1996, prima dell’avvento del DVD, esce un Freebird The Movie, sia in VHS che in CD, poi negli anni a seguire pubblicato anche in DVD e CD+DVD, sempre incentrato sul concerto di Knebworth, presente in versione (quasi) integrale ma dal quale curiosamente mancava proprio Freebird la canzone del titolo, sostituita da una versione, peraltro quasi altrettanto bella, registrata a Oakland in California nell’estate del 1977, che trovate facilmente su YouTube.

Come bonus vennero aggiunti anche due brani da Asbury Park del 1977 e un pezzo in studio. In più, nella versione video che durava (anzi dura, perché si trova ancora, anche a prezzi piuttosto bassi) 3 ore e 18 minuti e comprendeva anche un altro film “The Concert Tour”. Tornando al fattore fregatura, come vedete ad inizio post esistono varie versioni del disco, oppure per usare una terminologia che ora viene utilizzata spesso, del combo: ma solo in quella CD+Blu-Ray, nella parte video si trova il film-documentario del 2018 If I leave Here Tomorrow: A Film About Lynyrd Skynyrd, che narra in modo approfondito le vicende della band e, udite udite, è anche sottotitolato in italiano, ma nel DVD non c’è, il perché è un mistero.

Se vi “accontentate” del resto però il contenuto è superbo: i sette + le Honkettes sono in forma strepitosa, in un anno, il 1976, che vide anche la pubblicazione di Gimme Back My Bullets e del doppio dal vivo One More From The Road, registrato in tre concerti tenuti al Fox Theater di Atlanta proprio a luglio di quell’anno, circa un mese prima della data inglese. Quando nel tardo pomeriggio del 21 agosto 1976 Ronnie Van Zant, Gary Rossington, Allen Collins, Steve Gaines, Leon Wilkeson, Artimus Pyle, Billy Powell e le Honkettes salgono sul palco si capisce subito che sarà una occasione speciale: Wilkeson indossa un copricapo da Bobby inglese,che non lascerà per tutto il concerto, mentre gli altri Lynyrd sono vestiti da tipici musicisti“Sudisti”, rappresentanti in Terra D’Albione di quel southern rock, di cui, insieme agli Allman Brothers, furono i massimi rappresentanti. Undici brani, circa un’ora e dieci minuti di musica fantastica, qualità audio e video eccellente, qualità della performance da 5 stellette: si parte con l’omaggio alla loro casa discografica, Workin’ For MCA, una versione roboante a tutto riff, con urlo belluino di Ronnie in apertura, poi le chitarre iniziano a mulinare, Van Zant fischietta di tanto in tanto e Rossington, Collins e Gaines, strapazzano le soliste, da lì in avanti non ce n’è per nessuno, penso che le conosciate tutti ma ve le cito comunque. In sequenza il boogie I Ain’t The One, una ruggente e galoppante Saturday Night Special, con il solito muro di chitarre, Searchin’, l’unica tratta dal recente Gimme Back My Bullets, Whiskey Rock-A-Roller scritta da Van Zant insieme al vecchio chitarrista Ed King e al pianista Billy Powell, che inizia a farsi sentire.

E ancora Travellin’ Man una tipica southern song scritta per One More For The Road con le ragazze a sostenere Ronnie, Gimme Three Steps uno dei travolgenti classici dal primo album con ritornello da cantare con il pubblico, Call Me The Breeze in teoria sarebbe (anzi lo è) di JJ Cale, ma tutti l’hanno sempre associata ai Lynyrd Skynyrd, specie in questa versione accelerata a tutto boogie con Powell che lascia correre le mani sulla tastiera del piano. Non manca T For Texas, detta anche Blue Yodel no 1, un vecchissimo classico country di Jimmie Rodgers che non manca di divertire e coinvolgere il pubblico in una versione vorticosa, prima di passare ai pezzi da 90, la risposta a Neil Young, ovvero Sweet Home Alabama, più che una canzone un rito collettivo con Jojo Billingsley, Leslie Hawkins e la compianta Cassie Gaines (che sarebbe scomparsa solo poco più di un anno dopo nell’incidente aereo dell’ottobre 1977 insieme al fratello Steve e a Ronnie Van Zant) che rispondono rima su rima al classico ritornello.

E a chiudere il tutto una versione monstre di oltre 13 minuti di Freebird, brano che secondo (quasi) tutti se batte con Stairway To Heaven come canzone ideale per concludere, e non solo, un concerto. Il pubblico è in delirio nel finale senza fine, noi pure, peccato per le piccole magagnette, ma comunque una “ristampa” tutto sommato da avere. Ragazzi (e ragazze, perché tra il pubblico ce ne erano moltissime) se suonavano!

Bruno Conti

La Prova Del Terzo Disco Per Il “Piccolo Dirigibile”, Brillantemente Superata! Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate

greta van fleet the battle at garden's gate

Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate – Republic/Universal CD

In realtà quello di cui mi accingo a parlare sarebbe il secondo album dei Greta Van Fleet dopo il celebrato (e discusso) Anthem Of The Peaceful Army del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/28/una-nuova-speranza-forse-piu-lattacco-dei-cloni-greta-van-fleet-anthem-of-the-peaceful-army/ , ma il quartetto di Frankenmuth, Michigan aveva esordito nel ’17 con From The Fires, EP di otto canzoni che però con i suoi 32 minuti durava più di tanti album. I GVF (i tre fratelli Josh, voce, Jake, chitarra, e Sam Kiszka, basso e tastiere, e l’amico Danny Wagner alla batteria) con i due lavori precedenti hanno diviso pubblico e critica come poche altre band, almeno in tempi recenti: chi li celebrava come una ventata di aria fresca nel panorama rock visto che i loro colleghi coetanei (i ragazzi sono poco più che ventenni) sono perlopiù artisti rap, hip-hop, trip-hop e boiate varie, chi li stroncava perché li considerava un vero e proprio clone dei Led Zeppelin. Forse la verità stava nel mezzo: il paragone con il Dirigibile ci stava benissimo (ed i nostri un po’ ci marciavano) sia per lo stile musicale proposto, un solido rock-blues molto anni 70, sia per il timbro vocale di Josh incredibilmente simile a quello di Robert Plant, ma nello stesso tempo il fatto di avere una ventata di aria fresca e giovane nel mondo del rock è una cosa indubbiamente positiva. Il problema quando sei associato a doppio filo ad una determinata band è però quello di smarcarti dallo scomodo paragone, e quindi tutti aspettavamo al varco i quattro con il nuovo album The Battle At Garden’s Gate.

Come al solito le critiche sono state alterne, nel senso che i loro detrattori hanno continuato ad accusarli di essere derivativi, mentre altri hanno intravisto nelle varie canzoni più di un tentativo di proporre qualcosa di nuovo, anche se sempre nell’ambito di un suono rock classico. Siccome io sono un po’ come San Tommaso, ho voluto toccare con mano (anzi, con orecchio), e devo dire che The Battle At Garden’s Gate è un deciso upgrade rispetto al seppur buon disco precedente, sia in termini di suono che di songwriting che di performance, e gran parte del merito va certamente al produttore Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, ma anche il Paul McCartney di Egypt Station). Certo, parecchi residui dell’influenza del gruppo di Page & Plant ci sono ancora, meno evidenti ma comunque presenti in più di un pezzo, ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico, in linea con i testi che evocano temi esoterici e mondi paralleli (basta vedere la copertina e le immagini interne). Le canzoni sono solide e godibili dalla prima all’ultima, al punto che i 63 minuti complessivi trascorrono abbastanza facilmente, cosa non affatto scontata. Heat Above inizia con un organo inquietante, poi arriva la batteria lanciatissima ed entra il resto della band per una power ballad abbastanza diversa dallo stile del disco precedente (a parte la voce “plantiana”, ma quella non si può cambiare): arrangiamento elettroacustico ma potente con un quartetto d’archi sullo sfondo, chitarre ed organo ad evocare ampi spazi aperti e melodia molto fluida.

Un buon inizio. My Way, Soon è il primo singolo che gira già da qualche mese, un brano decisamente più rock a partire dal riff elettrico iniziale, anche se il motivo ed il cantato rilassato portano un po’ di sensibilità pop che non pensavo fosse nelle corde dei ragazzi (e qui la voce è più simile a quella di Geddy Lee dei Rush), a differenza di Broken Bells che è una suggestiva ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) non può che ricordare Stairway To Heaven, ma poi il gruppo prende una direzione sua anche se Josh torna in modalità Plant: il brano comunque risulta molto bello, ricco di pathos e di ottimo livello compositivo. La dura Built By Nations è forse la più in linea con l’album di tre anni fa (e quindi la più zeppeliniana), un rock-blues solido e roccioso ma anche coinvolgente e suonato benissimo; un bell’intro di chitarra ed un’entrata decisamente “pesante” della sezione ritmica fanno di Age Of Machine una hard rock ballad coi fiocchi, dal suono al 100% anni 70 e solo vaghe reminiscenze di un gruppo che sapete qual è, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock cari ai Rush (una band a mio parere sottovalutata) e Stardust Chords è “semplicemente” una gran bella rock song, senza particolari influenze.

La potente Light My Love, con la chitarra ed un bel pianoforte in evidenza, è una lucida ballata dal leggero sapore californiano, zona Laurel Canyon (tra le più riuscite del CD), Caravel è dura, chitarristica e fa emergere il lato più puramente rock dei nostri, The Barbarians ha elementi psichedelici ed una chitarra wah-wah che rende tutto godurioso e ci fa tornare ai tempi in cui David Crosby non si ricordava il suo nome, solo con qualche tonnellata di decibel in più. Finale con Trip The Light Fantastic, che ricorda gli Zeppelin “leggeri” di In Through The Out Door e con la maestosa The Weight Of Dreams, più di otto minuti di sano rock anni 70 tra chitarre, archi e melodie ad ampio respiro, con il miglior assolo del disco. Saranno anche derivativi (in questo album un po’ meno), ma a me i Greta Van Fleet piacciono.

Marco Verdi